Artissima? Noiosissima. A Torino quest'anno era meglio godersi il sole


Un’edizione 2024 di Artissima sottotono, deludente, noiosa. E alle altre fiere non è che sia molto meglio. Quest’anno a Torino era meglio godersi il sole. 

Tepore fuori stagione, cielo terso, ventun gradi Celsius in una Torino di fine ottobre irriconoscibile, una settimana completa d’alta pressione dal lunedì alla domenica e forse anche oltre che garantisce sole costante, deciso, presente, disinvolto a far brillare la città d’una luce strana, lucida, diversa, una luce che già alle nove della mattina ha preso a cazzotti la nebbia che sale dal Po per far vedere a tutti di che colore dovrebbe essere il cielo torinese in questo periodo dell’anno. C’è poco da stare allegri: effetti del cambiamento climatico. Per una curiosa coincidenza sulla quale le battute ormai son superflue, il fine settimana dei morti è anche quello delle fiere d’arte. Tra Halloween e la commemorazione dei trapassati, giorno più giorno meno, Torino accentra, addensa, richiama le folle dell’arte, una volta solo dell’arte contemporanea, ora tutti, anche quelli che comprano roba vecchia e che da una decina d’anni inaugurano le danze sciamando su Flashback, la prima delle ormai cinque (cinque!) fiere che costringono i forzati dell’arte a maratone da programma olimpico. Discipline: mercoledì anteprima di Flashback. Giovedì anteprima di Artissima e se rimane tempo (o se non si è ancora sufficientemente ubriachi dopo aver visto centinaia di opere in un mezzo pomeriggio), ci si trascina a qualche altra inaugurazione, The Others o Paratissima secondo gli umori. Venerdì programma vario: ci si divide tra GAM, OGR, MAO, PAV e altri musei e spazi dalle sigle che paiono sindacati, oppure Gallerie d’Italia, oppure Palazzo Reale se però c’è qualcosa, oppure al Valentino per Apart e per fare le foto agli scoiattoli grigi americani, classificati tra le cento specie più invasive del mondo perché sono degli infami che scorticano gli alberi esponendoli alle malattie e rubano le noccioline agli scoiattoli rossi autoctoni. Nel mezzo chi ci ha l’invito va a riverire sua maestà la Sandretto, chi riesce a trovare un passaggio a sbafo e a ufo si spinge fino al Castello di Rivoli, chi ha mezza giornata ed è più portato per l’antico s’imbarca su di un regionale per la classica gita alla Venaria. Sabato e domenica si torna a casa perché va bene l’arte ma chi fa numero va per guardare, risparmia per le vacanze di Natale e alla fine compra la stampa dell’Ikea.

Ma con questo sole, questo caldo, quest’aria, c’è chi c’ha voglia di far la fila per entrare dentro un capannone, c’è chi c’ha voglia di privarsi della luce naturale d’un fine ottobre che mai nella storia di Torino s’era mai visto per infilarsi sotto le luci artificiali di fiere e musei, c’è chi c’ha voglia di rinunciare a lasciare la città per respirare umori, odori e sudori dei visitatori delle fiere? Chi guarda da fuori e vede le auto in fila per le autostrade non si faccia ingannare (giovedì 31 ottobre tre quarti d’ora per andare dal Lingotto a Moncalieri all’ora in cui tutti dovrebbero esser già attovagliati a guardare il tiggì della sera: più di quattro volte il tempo realmente necessario in condizioni normali). Non si faccia ingannare: gli automobilisti che se ne fottono della “Art Week” come va di moda chiamarla, e che giustamente abbandonano la città per il ponte, non sono i soli disposti a stare in coda. Il più possibilmente calmi. Flashback: solito capannello in corso Lanza davanti all’ingresso dell’ex scuola dove da qualche anno la fiera si è catapultata facendo rimpiangere a tanti la sede primigenia. L’anno scorso Lampronti aveva portato un Canaletto enorme, qualche milionata di euro il costo, ed era stato costretto a infilarlo dentro un’auletta piccola, stretta, inadeguata. Meno male che poi il Canaletto lo abbiamo visto in altri contesti. Quest’anno porta cose di Bellotto, uno studio di Annibale Carracci, un ritratto di Greuze e altro: meno male che li abbiamo visti alla BIAF il mese scorso. A Canesso tocca una delle aule più grandi, quindi c’è uno spazio adatto per vedere il San Girolamo di Domenico Fiasella un tempo del marchese d’Invrea, una delle poche cose interessanti di questa edizione di Flashback, assieme a non molto altro: alcuni contadini di Bruegel il Giovane allo stand di De Jonckheere (ch’era stata l’ultima volta a Flashback quando la fiera era al Pala Isozaki e probabilmente la ricordava diversa), due scomparti d’una pala quattrocentesca del bellunese Matteo Cesa da Flavio Gianassi, una tavoletta del Cotignola da Carlo Orsi, un curioso Pigment Painting di Nicola Bolla da Photo&Contemporary, i dipinti tutti prezzati da Floris Van Wanroij e da CaputoColossi, ovvero gli unici due ardimentosi che si sono spinti a mettere la targhetta con la richiesta in euro vicino a nome, titolo, date, pubblicazioni, provenienza, fonti (trittichetto portatile di Adriaen Isenbrant e bottega a 240mila euro, paesaggio primaverile di Abel Grimmer a 95mila euro, crocifisso vivo giansenista in legno di scultore olandese a 12mila euro che costa quasi come le pantofole in ceramica di Luigi Ontani – 14mila l’una – , Ballerina di Gino Severini indicata nella cartella stampa come uno degli highlight della fiera a 21mila euro).

Artissima
Artissima
Artissima
Artissima
Artissima
Artissima

Tutt’altro che eccelso, tolte poche eccezioni, il contemporaneo che pure dovrebbe essere una delle anime d’una fiera che quest’anno è parsa più bolsa del solito, fiacca, fotocopia sbiadita delle ultime due edizioni, inzeppate dentro un luogo dove tocca sempre fare a gomitate per vedere le opere, un luogo poco idoneo a una fiera che mira a richiamare migliaia di visitatori in pochi giorni, che mira a esporre lavori di primo livello, che mira a rivolgersi a un collezionismo dinamico: momento più intenso alle sei del pomeriggio di mercoledì coi custodi e gli addetti alla sicurezza che rimpallano tra una porta e l’altra come biglie del flipper per chiudere gli accessi alla fiera nel tentativo, poi rivelatosi vano, di bloccare il visitatore che s’è portato via un foglio di Calzolari dallo stand della galleria Costa. A oggi il malloppo non è ancora stato riconsegnato, malgrado il titolare della galleria non si sia peritato d’offrire addirittura una bevuta al ladro, qualora ovviamente non fosse un provetto Peruggia ma più semplicemente un maldestro visitatore che ha equivocato sui fogli della Ballata buia di Calzolari scambiandoli per souvenir “a portar via”.

Il maldestro visitatore andava semmai indirizzato ad Artissima, dove avrebbe potuto portar via tutti i fogli che voleva se avesse visitato lo stand della galleria Petra Seiser, tutto allestito come una piccola industria artigianale di stampe prêt-à-porter firmate Isabella Kohlhuber, artista austriaca classe 1982 che distribuisce sue stampe fatte in collaborazione coi visitatori alla modica cifra di 200 euro. Praticamente il costo d’una cartolina. Istruzioni per l’uso: rivolgersi alla gallerista per acquistare la carta. Sganciare i 200 euro. Selezionare una matrice di Isabella Kohlhuber (anzi, uno stencil, sennò il pubblico non capisce). Sono disponibili cinque matrici con due articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, declinati in comode varianti. Preparare la stampa dopo aver indossato cappotti protettivi e guanti per non macchiarsi il paletot, generosamente forniti dalla galleria. La direzione della galleria declina ogni responsabilità per usi improprî dell’attrezzatura che potrebbero provocare macchie permanenti e danni al proprio abbigliamento. Attendere 30 minuti per l’asciugatura. Ritirare la stampa, confezionata in elegante cartella di cartone piatta di 50 per 70 centimetri. Insomma, si parla tanto di arte partecipativa, e qui è il pubblico che l’arte se la fabbrica da sé e se la porta a casa. È anche uno dei pochi momenti realmente performativi di questa Artissima: ecco, c’è da dire che per fortuna le performance sono sparite quasi del tutto. Quest’anno niente modelle che solfeggiano attaccate alle pareti degli stand, niente artisti che s’aggirano per la fiera trasportando tubi, niente greggi di visitatori che zompettano dietro al capobranco per imitare il suono della pioggia. Dice che il mercato è in crisi, c’è da vendere, non c’è tempo per le pagliacciate.

Cosa si vende allora? Le stesse cose di sempre. Un’Artissima 2024 non è poi così diversa rispetto a un’Artissima 2023, a un’Artissima 2022, a un’Artissima 2021 e via dicendo. Le gallerie più grandi puntano sul sicuro, sul garantito, sui grandi nomi: non mancano le solite carriolate d’Arte Povera (anche se quest’anno forse un po’ meno degli anni passati), perché siamo a Torino e quindi esporre i poveristi diventa obbligo costituzionale (parentesi: la stessa cosa, in forma anche più persistente, succede come sempre tra gli stand di Apart dove, passino pure le gallerie piemontesi, ma anche i pochi che vengono da fuori regione s’industriano per inondare la palazzina della Promotrice con tonnellate di Delleani, di Follini, di Reycend e colleghi: per gli appassionati del genere un vero paradiso, per tutti gli altri una vera macinatura di palle). Le gallerie meno grandi che si sono impegnate e hanno fatto ricerca negli anni scorsi adesso raccolgono i risultati senza dare grosse scosse al contesto. Le gallerie più sperimentali propongono novità raffreddate, timide, tiepide: non bisogna sconvolgere troppo il potenziale acquirente. Poche dunque ad Artissima le cose nuove: tra gli esordî ecco la pittura evocativa del ventenne Giuseppe Francalanza allo stand di Vin Vin, gli scontrini in ceramica della ventenne Camilla Gurgone da Viasaterna, i paesaggi del trentenne Francesco Cima allo stand di Amanita, le tele oniriche del polacco quarantenne Rafal Topolewski allo stand di Alice Amati, prima volta ad Artissima sia per l’artista che per la galleria. E poco altro. Giovani pochi. Sperimentazione poca. Noia tanta. Una fiera deludente, monotona, noiosa, fissa, immobile.

Artissima
Artissima
Apart
Apart

Non va meglio a poca distanza da qui. Paratissima ha una sede nuova e vive una fase di transizione verso quella che dovrebbe essere la sede definitiva. Sul fronte The Others, code all’ingresso, come ovunque del resto, per vedere una fiera discontinua, con un cosiddetto board curatoriale che non si capisce esattamente cosa abbia curato, dato che pare d’essere al mercato (allestito però dentro spazî che sono ancor più angusti rispetto a quelli di Flashback). I pochi sprazzi luminosi (tra i non molti: Cluster Contemporary con monografica del pittore Giuseppe Sciortino, l’olandese Contour Gallery con selezione di opere di giovanissime artiste lituane, Area B con un Antonio Bardino e una Irene Balia in cerca di slancio) non risollevano una selezione che gioca al ribasso: c’è un pittore che dipinge fabbriche abbandonate (tipo quelle di Andrea Chiesi, ma più bambinesche), c’è chi fa tele che zoomano su parti del corpo (tipo quelle di Chiara Enzo, ma più stentate), c’è chi dipinge piante dai colori irreali su fondi neutri (tipo quelle di Alexandra Barth in mostra allo stand di Loom ad Artissima, ma più dozzinali), c’è l’astrattista geometrico che imita Soldati e Reggiani, c’è l’impressionista scolastico, c’è l’animalier, c’è tutto, c’è anche uno che costruisce tette, nasi, occhi e orecchie con composizioni di stuzzicadenti colorati. Praticamente il cugino povero e un po’ trucido del sudafricano Chris Soal, il Michelangelo degli stuzzicadenti che ha imperversato ad Artissima nelle scorse edizioni. E comunque, a proposito di africani, anche tra gli stand internazionali si ha la sensazione di vedere proposte non così entusiasmanti.

Eppure Artissima, dice, non dovrebbe essere la fiera sperimentale per antonomasia? Davvero tutto qui? Si starà mica trasformando – aiuto! – in una fiera commerciale? Sì, c’è qualità, e vorremmo anche vedere che così non fosse, anzi: i compratori ormai cercano sempre più qualità. È come un ottimo ristorante che, una volta stabilito un certo menù, lo mantiene a oltranza negli anni. Che va benissimo, ovviamente: c’è del resto chi preferisce andare negli anni sempre nello stesso posto a mangiare le stesse cose. Ma a quel punto il ristorante può ancora vendersi come un faro della ricerca e della sperimentazione? Questione d’importanza secondaria, comunque: il gallerista ha da fatturare, alla mattina dal pizzicagnolo mica ci può andare con le sperimentazioni. Le fiere servono anzitutto per vendere. E manco è detto che alla fine le gallerie ci riescano davvero, a vendere in fiera. E allora chi è che s’azzarda a fare ricerca, chi è che si prende la briga d’investire senza garanzie di rientro, chi è che s’arrischia a lanciarsi nell’ignoto quando tutti dicono che il pubblico compra di meno ma meglio, quando c’è un Covid che rischia di scombinare le carte, quando c’è un mercato che si raffredda, quando c’è un contesto internazionale teso? E a maggior ragione in fiera, dove ci son galleristi che vedono quantità di pubblico che non riescono a vedere in un anno in galleria. Non che fuori di qui vada meglio, certo: non è che smessa la fiera allora si comincia a cercare qualcosa di nuovo (o, sia mai, a far nascere qualcosa di nuovo). Tanti galleristi vivono sulle rendite, tanti artisti vivono sui social, scollegati dal presente, e nessuno che ci eviti il solito post-fiera fatto, anche lui, con gli stencil: fiera bella, opere belle, andato tutto bene, abbiamo venduto (chi non vende, comprensibilmente non lo dichiara neanche sotto tortura: al massimo, se proprio è in vena di concedere uno slancio generoso, chiede la pubblicazione in forma anonima). Chi è che del resto ha interesse a modificare la vulgata? I galleristi? I curators per i quali le fiere fungono da grossi uffici di collocamento? Le riviste di settore? Meglio raccontarsi che va tutto bene. Tra le rare eccezioni, encomio a Nicola Mafessoni di Loom (uno degli stand peraltro più curiosi e interessanti) che su ArtsLife scrive di non vedere l’ora di tornarsene a casa (“Artissima [...] dovrebbe essere la fiera italiana dell’avanguardia e della ricerca ma, a guardare le zone chiave, dominate sempre dai soliti nomi noti, sembra sempre più la fiera delle cariatidi”).

Certo, ci sono anche tante cose che vanno bene. A Torino esiste un folto ecosistema di soggetti istituzionali che comprano, comprano tanto, ci tengono, offrono linfa ai musei e agl’istituti del territorio (GAM, Castello di Rivoli, Museo Ettore Fico, Fondazione Merz, Fondazione Sandretto e altri), che non mancano di far sentire il loro sostegno. Quest’anno per la prima volta ha partecipato ad Artissima anche la Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura dimostrando un’inedita sensibilità, e presentandosi con un ottimo stand tutto dedicato ai Maestri del Colore di Flavio Favelli. E Intesa Sanpaolo è arrivata ad Artissima con una deliziosa minimostra costruita attorno a un capolavoro di Boccioni (Officine a Porta Romana), una veduta di Van Wittel e un capriccio di Panini, messi assieme a tre fotografie di Olivo Barbieri, per affrontare il tema del cambiamento delle città. Peccato che, essendo un’opera di Boccioni (per non parlare d’un’opera di Van Wittel o d’un Capriccio di Panini... !) un oggetto estraneo a una buona parte del sottobosco che affolla l’Art World, a vedere la mostra erano in pochi. Vuoi mettere quant’è più interessante e instagrammabile l’ennesima scritta al neon, che stavolta dice “Siete ospiti”? Quest’anno forse i torinesi sulla A55 in coda a tratti per traffico intenso tra Corso Francia e allacciamento A21 hanno perso il loro tempo in maniera più proficua dei loro concittadini in coda agl’ingressi delle fiere. Meglio fuggire dalla città e godersi sprazzi e tepore di questo improbabile sole da climate change.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).




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