Cattelan, Warhol e l'opera venduta a peso d'oro: se il mercato vince sull'arte


L’arte contemporanea come specchio del mercato: i recenti casi che hanno riguardato le opere di Warhol, Cattelan e Hirst mostrano come, più che il valore artistico, pare conti quello materiale. Siamo rassegnati a dover considerare l’opera giusto come merce di scambio?

Andy Warhol, l’artista che ha esaltato nelle opere e nel pensiero l’arte di far soldi e immortalato l’icona del dollaro, anni fa era entrato nella collezione dell’ex segretario del partito Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti, il quale aveva ricevuto due sue opere in regalo (sic!) dal banchiere Mario D’Urso (tra i vari incarichi amministratore delegato di Lehman Brothers). Ciliegina sulla torta il soggetto rappresentato dalle due opere vendute in asta: Mao Tse Tung, rivoluzionario e presidente del partito comunista cinese! Consumismo, Finanza e Comunismo sembrano qui fondersi, la distinzione di classe rappresentata da un’opera d’arte simbolo del mercato ultraliberista ha la meglio su Marx ed Engels. Neanche Philip Dick avrebbe saputo scrivere un romanzo così dispotico sulla fine del comunismo e la vittoria del fantacapitalismo che si arricchisce vendendo immagini appartenute a comunisti o raffiguranti icone comuniste, né Slavoj Zizek è stato capace di immaginarlo tra le sue analisi paradigmatiche di transestetica.

Il fatto dei Warhol di Bertinotti in sé è estremamente interessante per i cortocircuiti che innesca più che per l’economia movimentata. L’asta infatti, comprensiva anche di altre opere, non ha superato i 250.000 euro, una sniffata di tabacco a confronto delle aste milionarie, quale ad esempio quella che riguarda America, il water d’oro di Maurizio Cattelan, che verrà tra breve battuta da Sotheby’s con base di partenza di 10 milioni di dollari, il suo reale valore secondo il peso attuale dell’oro.

Il caso di America interessa perché avvera la profezia di Warhol per cui, anzichè comprare opere d’arte, si sarebbero dovute incorniciare banconote reali corrispondenti al valore dell’opera. Il problema è che il denaro si svaluta e l’oro no, quindi chi avesse seguito il consiglio di Warhol non avrebbe fatto un buon affare. America invece vale il materiale di cui è fatta (che oggi è al suo massimo storico) e il suo valore sostituisce integralmente quello del manufatto come opera d’arte. Dal momento che l’opera in asta di Cattelan che ha raggiunto il suo valore massimo è di 17 milioni di dollari (Hym nel 2016), come minimo dovremmo aspettarci un record d’asta per America di 27 milioni di dollari. Se così non fosse Cattelan dimostrerà di non essere stato un buon affare, valendo la sua parte artistica meno del materiale di cui è fatta l’opera. E poiché, come scriveva Heidegger ne L’origine dell’opera d’arte, la materia deve scomparire, essere dimenticata per farsi opera d’arte, finalmente un’opera di Cattelan potrebbe rivelarsi per quello che è: niente altro che o meno del suo valore di mercato secondo il peso dell’oro. L’arte non c’entra niente, con buona parte dei saggi critici, monografici, storici che continuano sadomasochisticamente a essere scritti e pubblicati su di lui o sulle mostre che gli vengono ancora dedicate.

Se però America sarà battuta ad almeno o più di 27 milioni di dollari, Cattelan dimostrerà di essere ancora un buon investimento finanziario. Ne scriva poi, chi vorrà farlo, come di artista.

Maurizio Cattelan, America (2016; oro)
Maurizio Cattelan, America (2016; oro)

In tutto ciò dunque, bisogna essere onesti, che c’entra l’arte? Non siamo finalmente davanti a una verità che ci diciamo a mezza bocca, in privato, quasi di nascosto, a cui alludiamo da decenni senza arrivare mai alle sue reali conclusioni? Se il successo di mercato e il valore di scambio hanno mai avuto, nei secoli passati, qualche utilità rispetto alla creazione artistica (cosa di cui dobbiamo sempre più dubitare: gli Impressionisti ad esempio non avevano mercato quando hanno creato i capolavori impressionisti e lo stesso vale per tutti i grandi artisti che hanno formato la storia dell’arte), oggi possiamo dire che il mercato è quanto di più deleterio possa esserci per l’opera d’arte. Costringe gli artisti a produrre comunque per mantenere la macchina che hanno avviato (spesso impegnativa e costosa), concentra tutte le attenzioni sul valore e sul successo economico rispetto a quello artistico e non si capisce cosa possa apportare ai contenuti e alle forme del processo creativo, se non nei cosiddetti artisti che producono opere pensate come oggetti di mercato e di lusso (adatti per fiere internazionali, vetrine di brand, sfilate di moda e costosissime borse). Non contiamo ai nostri giorni i tanti pur eccelsi artisti che, lanciati fin da subito sul mercato a prezzi milionari, hanno esaurito in pochi anni la loro forza e originalità. Potremmo chiamarli “i caduti dell’arte a causa del mercato” nonostante continuino ad avere successo nel mercato dell’arte.

Detto ciò, non tutti i mali vengono per nuocere. Il dissidio è ormai chiaro, la spaccatura netta, la separazione totale: da una parte case d’asta, brand del lusso, fiere e gallerie multinazionali con i rispettivi artisti; dall’altra i processi creativi, i discorsi critici, lo studio delle forme con i rispettivi artisti. Nel mezzo il confine, l’orizzonte degli eventi, oltre il quale si viene attirati verso la singolarità del mercato, al di là del quale si riesce ancora ad articolare un discorso intellettuale, critico e disinteressato.

Forse sarà sempre più importante e urgente decidere da che parte stare. America è solo un caso limite, l’ultimo in ordine di tempo: pensiamo a For the Love of God, il teschio tempestato di diamanti di Damien Hirst, il cui valore materiale nel 2007 era 14 milioni di sterline, quello di vendita (se avvenuta realmente) di 100 milioni, con un differenziale tra coefficiente materiale e artistico di ben 86 milioni. L’oro e i diamanti non fanno altro che smascherare la sostanza di queste opere portatrici di valore: un puro valore di scambio finanziario, niente altro. Interessante potrà essere semmai confrontarne le performance di vendita e il surplus artistico rispetto a quello materiale, questione che lasciamo ovviamente agli esperti di economia e investimenti.


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Marco Tonelli

L'autore di questo articolo: Marco Tonelli

Marco Tonelli (Roma, 1971), critico e storico dell’arte. Dopo la laurea in Storia dell’Arte presso l’Università La Sapienza di Roma (1996), ha conseguito il diploma di Specializzazione in Archeologia e Storia dell’arte (2000) e un Dottorato di Ricerca in Storia dell’Arte (2003) presso l’Università degli Studi di Siena. È stato assessore alla Cultura del Comune di Mantova, caporedattore della rivista Terzo Occhio e commissario inviti della XIV Quadriennale di Roma. Dal 2015 al 2017 è stato direttore artistico della Fondazione Museo Montelupo Fiorentino per cui ha ideato la rassegna Materia Prima e ha curato il progetto annuale Scultura in Piazza a Mantova. Dal 2019 al 2023 è stato Direttore artistico di Palazzo Collicola e della Galleria d’Arte Moderna di Spoleto. Attualmente è Curatore scientitico della Fondazione Progetti Beverly Pepper di Todi. Insegna all'Accademia di Belle Arti di Venezia.



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