Da dove i musei dovrebbero prendere i soldi? La sostenibilità dei musei post-Covid


Quali modelli di business e quali fonti di guadagno per i musei dopo il Covid-19? Ecco tre possibili strade da esplorare.

Il museo è un’istituzione senza scopo di lucro al servizio della società. Lo sappiamo perché così recita la definizione di “museo” ancora in vigore, quella che è stata di recente messa in discussione e che è ancora oggi oggetto di dibattito (o così sembrerebbe). Dobbiamo dunque fermarci qui?

Sì! I musei sono organizzazioni no-profit e anche le loro caffetterie li aiutano a reperire i fondi che servono ai musei per lavorare e per sostenere la loro programmazione. I loro bookshop (nei musei più grandi ce ne sono addirittura più di uno e sono situati in punti strategici dell’edificio) vendono prodotti esclusivi, esposti affinché vengano acquistati. Le mostre blockbuster generano entrate necessarie per supportare le acquisizioni e la pubblicità: tutto questo in buona fede e sapendo fin troppo bene che i musei sono, per definizione, istituzioni senza scopo di lucro. C’è di più. Riparati dall’ombrello del no-profit, i ristoranti e i bar dei musei lavorano con margini di profitto, sperimentano nuovi prodotti per aumentare i ricavi e operano più o meno come delle aziende. Nella maggior parte dei casi, questa infrastruttura che genera ricavi si aggiunge alle politiche di bigliettazione del museo, scaglionate sulla base di gruppi di età e categorie varie.

Il Covid-19 ha gettato nello scompiglio questo modello di business, che è nient’altro che un paradosso.

Un’istituzione che, da un lato, è al servizio della società, dall’altro, per poter sostenere la sua natura e le sue ambizioni di istituzione senza scopo di lucro, è costretta a ricavare profitti dai suoi servizi. Se dobbiamo giudicare i musei dal punto di vista del modello di business, a prescindere dal fatto che si tratti di un istituto che non ha alcun ricavo o di un museo sottilmente presentato come un brand che fa profitto, l’istituto museale del XXI secolo si trova ad affrontare delle lacune nella diversificazione del suo business. Mentre l’istituto cerca di fare in modo che il suo business rimanga senza scopo di lucro, paradossalmente ha creato dei modelli di finanziamento che riguardano per la stragrande maggioranza un unico aspetto delle sue attività, quello fisico e centrato sulla visita.

Sembra però che ci siano delle alternative da esplorare, alcune delle quali sono state provate e testate negli ultimi dieci anni. Due di queste hanno il potenziale per diventare delle tendenze in un futuro non troppo lontano. La terza è una sfida per molti, nonché un’ambizione per altri. Ma c’è sicuramente molto di più.

Ph. Credit Kevin Dellandrea
Ph. Credit Kevin Dellandrea

Il pay-per-use

L’economia della sottoscrizione mese per mese include prodotti come Netflix e Spotify, ma pochissimi musei. Quali istituti la adottano?

Prima che la pandemia di Covid-19 ci prendesse tutti di sorpresa, il Westerbug Museum di Brema (Germania) aveva sperimentato un approccio pay-per-use per la sua bigliettazione. Con un biglietto intero che copre un percorso di circa 90 minuti, il museo ha provato un sistema basato su slot di 10 minuti che si possono pagare un nono del biglietto intero.

Il modello pay-per-use ha messo il museo nelle condizioni di soddisfare un pubblico con meno tempo o interessato solo a un aspetto dell’esperienza del museo. Le prime reazioni a questo schema suggeriscono che il pubblico del museo lo ha considerato corretto e più user-friendly. Inoltre, le visite sono aumentate in maniera considerevole e questo ha compensato la diminuzione del costo medio del biglietto corrisposto dai visitatori. Il direttore del museo, Tom Schoessler, afferma che “molti hanno apprezzato l’esperimento, vi si sono avvicinati con un approccio spensierato, e hanno gradito il fatto di avere il controllo sul prezzo, senza il rischio di perdere alcunché se prendiamo a paragone i prezzi pieni”.

L’idea alla base di questo modello ha un contesto da tenere in considerazione. Il pay-per-use è fondato su prodotti di buona qualità, su sicurezza di se stessi e su emancipazione della clientela. Per farla breve, potremmo riassumere questo modello di business così: “ehi, abbiamo un prodotto di buona qualità e ne siamo sufficientemente sicuri da proportelo. Sei libero di non pagarlo se non provi quello che ti stiamo dicendo che proverai”. Questo modello funziona meglio quando il pubblico dei musei ha una relazione molto personale con l’istituto, quindi bisogna incrementare la propria rilevanza per poterlo sostenere. Quello che infatti può determinare il successo o l’insuccesso di questo modello è la mancanza o la presenza di un pubblico fedele.

Si tratta di un’idea che esiste da almeno dieci anni e le sue origini possono essere fatte risalire a uno studio pubblicato nel 2010 dagli economisti Bruno S. Frey e Lasse Steiner. Da allora è stato sperimentato da diversi istituti culturali, per esempio dai teatri. Anche gli zoo hanno sperimentato il pay-per-use per qualche tempo. Si tratta sicuramente di un modello di finanziamento da esplorare ulteriormente.

Ph. Credit Ibrahim Rifat
Ph. Credit Ibrahim Rifat

Fornitura di servizi di esperti

Spesso i musei tendono a dimenticare il valore potenziale della conoscenza, del know-how, delle risorse e delle competenze che hanno o che impiegano. Queste risorse hanno infatti molto più potenziale di quello che risiede nella loro importanza per la tradizionale idea di museo. Ci sono dei motivi per esplorare in maniera più approfondita questo potenziale? Credo di sì.

Il Covid-19 ha funzionato da catalizzatore in questo senso. Brendan Ciecko di Cuseum elenca alcuni casi, come le lezioni online di cucina del National Czech & Slovak Museum & Library, del Carnegie Museum di Pittsburgh e del Cummer Museum. Il Seattle Museum of Art offre una serie di incontri online members-only con i suoi visitatori ogni due settimane, l’Asheville Art Museum fornisce delle lezioni online per adulti, e lo stesso fa la Cultivating Digital Photography Skills.

Ma è soprattutto l’iniziativa del Van Gogh Museum quella che secondo me ha il maggior potenziale in questo momento storico. Il programma di servizi professionali del museo ha come target una clientela composta da collezionisti privati e imprenditori, a cui fornisce consigli e supporto su tematiche come il collezionismo, la conservazione e la tutela, l’installazione di sistemi di controllo del clima, la gestione dei musei, e lo sviluppo di programmi educativi. Questo programma di supporto e consigli dovrebbe essere implementato con competenze in-house.

C’è un incontro tra domanda e offerta alla base di questa scelta, che è anche la ragione dietro iniziative simili, come quelle sperimentate dall’Indianapolis Museum of Art, che ha lanciato una ditta di sviluppo software che produce programmi personalizzati, siti web e progetti open source, e dal Toledo Museum of Art e dal suo Center for Visual Expertise che fornisce una vasta gamma di servizi.

Allargando la diversificazione dei servizi, e raggiungendo nuovi potenziali clienti, i musei possono diventare più finanziariamente resilienti. Si può ottenere molto semplicemente riposizionando le proprie risorse per soddisfare le esigenze di categorie di clienti finora mai raggiunti.

Ph. Credit Markus Winkler
Ph. Credit Markus Winkler

Cosa possiamo dire invece dei contenuti predittivi?

Qualche settimana fa il New York Times ha pubblicato un editoriale intitolato Museums need to press the reset button and become more radical (“I musei devono premere il tasto reset e diventare più radicali”). C’è molto poco di radicale nei modelli di generazione di risorse che abbiamo discusso fin qui. Molto di ciò di cui abbiamo parlato ricade nell’alveo della diversificazione del business principale, soprattutto se pensiamo a quando abbiamo parlato di una clientela alternativa per le competenze del museo. Il pay-per-use si basa su ciò che viene generalmente descritto come “personalizzazione di massa”. Ma cosa potremmo dire dei contenuti predittivi?

I contenuti predittivi sono una tecnica di marketing che coniuga la flessibilità e la personalizzazione dei prodotti su misura ai bassi costi associati alla produzione massificata. Se osservato da questo punto di vista, il pay-per-use potrebbe essere personalizzato con visite su misura in grado di fornire contenuti educativi ed esperienziali sulla base del bagaglio conoscitivo del singolo visitatore. Potremmo immaginare una visita pay-per-use personalizzata, centrata attorno ad un elemento cardine dell’esperienza del museo, confezionata in visite della durata di dieci minuti o più. La migliore analogia che mi viene in mente è la lettura di un libro. Per quanto mi riguarda, raramente leggo un libro per intero in una volta sola. Al contrario, leggo un capitolo alla volta, e spesso leggo più di un libro contemporaneamente. Non comprerei un libro se avessi l’obbligo di leggerlo per intero in una volta sola. Né ho mai avvertito la necessità di farlo.

I musei devono dunque esplorare appieno il potenziale dei contenuti predittivi, personalizzando l’esperienza per ogni singolo visitatore, sia che si tratti di una visita fisica, sia che si tratti di una visita online, o di una visita combinata. Personalizzando il contenuto del museo attraverso i media, siano essi fisici o virtuali, i musei potrebbero affrontare in maniera più comoda la domanda “da dove dovrebbero arrivare i soldi”?


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Sandro Debono

L'autore di questo articolo: Sandro Debono

Pensatore del museo e stratega culturale. Insegna museologia all'Università di Malta, è membro del comitato scientifico dell’Anchorage Museum (Alaska) oltre che membro della European Museum Academy. Curatore di svariate mostre internazionali, autore di svariati libri. Scrive spesso sui futuri del museo ed ha il suo blog: The Humanist Museum. Recentemente è stato riconosciuto dalla Presidenza della Repubblica Italiana cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia e dal Ministero della Cultura Francese Chevalier des Arts et des Lettres per il suo contributo nel campo della cultura.



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