L'estate degli attacchi alla cultura e all'informazione: quali possibili conseguenze?


Quest'estate abbiamo assistito a una lunga serie di attacchi contro cultura e informazione da parte dei partiti di governo, Movimento 5 Stelle e Lega Nord. Quali le possibili conseguenze future?

La recentissima vicenda della Biblioteca comunale di Monfalcone, dove la locale giunta leghista, secondo quanto riportato da Repubblica, avrebbe imposto prima il taglio dell’abbonamento a Il Manifesto e L’Avvenire e poi la mancata messa a disposizione del pubblico dopo il ritorno delle due testate a seguito d’una colletta raccolta per sostenere i costi dell’abbonamento, non è che l’ultima d’una serie d’attacchi alla cultura e all’informazione cui abbiamo assistito quest’estate, da quando il governo gialloverde ha preso in mano le redini del paese.

Banksy, Balloon girl (2002). Ph. Credit Dominic Robinson
Banksy, Balloon girl (2002). Ph. Credit Dominic Robinson

Forse, in epoca di democrazia non c’è mai stata concentrazione più intensa d’episodî in cui la politica ha compiuto invasioni scomposte ai danni di cultura e informazione: per esempio, è assurto all’onore delle cronache nazionali il caso del manifesto della Barcolana di Trieste, oggetto dei tentativi di censura da parte dell’amministrazione locale, trainata dalla Lega Nord. Sempre nella città giuliana, la giunta ha cercato poi di far modificare la locandina d’una mostra sulle leggi razziali, rischiando di far saltare l’evento. A Pisa, l’assessore alla cultura, altro esponente leghista, se l’è presa con un’opera celeberrima, Tuttomondo di Keith Haring, definita “modestissimo e banalissimo murale”, e ha auspicato che la città si concentrasse sulla valorizzazione d’altre testimonianze artistiche. Ancora, a Santarcangelo di Romagna il segretario provinciale della Lega Nord s’è scagliato contro il Santarcangelo Festival, lanciando il proposito di risollevarlo dal suo presunto “degrado” (che nella fattispecie era rappresentato da una performance di Tamara Cubas). A Sarzana è andata anche peggio: alcuni esponenti della destra, che da quest’anno governa anche nella città ligure, hanno definito “troppo di centrosinistra” il Festival della mente e hanno espresso un proposito che sa d’ultimatum (“o cambia radicalmente struttura, oppure va chiuso”). E per la Mostra del Cinema di Venezia, s’è mosso addirittura il capo della Lega Nord, Matteo Salvini, che ha manifestato l’intenzione di “riportare sulla retta via” l’attore Michele Riondino, padrino della manifestazione, reo d’aver espresso il suo disappunto in merito alle politiche del governo.

Ma si potrebbero citare anche i numerosi interventi d’esponenti del Movimento 5 Stelle sul tema dell’informazione e dell’editoria, dalle “cacciate” dei giornalisti sgraditi per arrivare al ministro dei beni culturali Alberto Bonisoli che accusa Il Secolo XIX di produrre fake news (ed è da sottolineare il suo maldestro tentativo di smentire la presunta notizia falsa condividendo il video che ne dimostrava la veridicità: “un miracolo della comunicazione”, lo ha definito il quotidiano genovese). E si potrebbe continuare con un parlamentare grillino, il sottosegretario Mattia Fantinati, che a sua volta punta il dito contro i giornali colpevoli, a suo dire, di diffondere notizie fake (che in realtà erano verissime e confermate dai comunicati ministeriali) o con l’ultimo episodio, risalente alla scorsa settimana, quando il blog delle stelle ha pubblicato un post nel quale l’istruttoria intentata dall’Ordine dei giornalisti contro Rocco Casalino diventava pretesto per rilanciare il chiodo fisso dell’abolizione dell’Odg, “provvedimento [...] già sul tavolo del governo”, come si legge nel pezzo.

Non occorre stupirsi della poco confortante sequela cui s’è accennato sopra. Caratteristica comune a tutti i populismi, inclusi il populismo pentastellato e il populismo leghista, è la tendenza a semplificare, motivata dal presupposto per il quale il populismo, citando Pierre Rosanvallon, “è fondato su una semplificazione della democrazia - una semplificazione della concezione del popolo, una semplificazione della visione delle procedure necessarie a far vivere la democrazia, una semplificazione di ciò che costituisce il comune”: per tale ragione, i populismi nutrono disprezzo per la complessità (e di conseguenza per il ragionamento complesso) e, viceversa, fondano la loro azione su brutali banalizzazioni di temi politici estremamente difficili e complicati. Se un leader populista deve trovare un avallo o anche soltanto un appiglio per la propria politica economica, si troverà molto probabilmente a citare Jerry Calà invece che John Maynard Keynes. Allo stesso modo, un assessore diffidente nei confronti di un’opera come Tuttomondo di Keith Haring, che affronta a pieno titolo il tema della complessità del mondo in cui viviamo, non troverà meglio da fare che bollarla come frutto di una mente “grottescamente radical chic” (e pazienza se l’espressione “radical chic” usata in questo contesto non ha assolutamente niente a che vedere con quanto Tom Wolfe aveva in mente quando la coniò, e pazienza se ha tanto meno a che fare con il lavoro di Haring: per il populista è sufficiente che l’espressione s’inserisca nell’ambito d’una narrazione che gli è familiare e alla quale s’è probabilmente assuefatto, e tutto il resto potrà tranquillamente ricadere nell’ambito del puro sofismo).

Altro tratto tipico di molti populismi, ben sottolineato da Jan-Werner Müller nei suoi studî, è la tendenza a voler eliminare ogni sorta di mediazione. Il populista non ama ciò che sta nel mezzo: da una parte c’è la classe politica, investita dal popolo d’un preciso mandato, e dall’altra c’è il popolo stesso (ed è per questa ragione che un fenomeno tipico dei populisti è l’attitudine a firmare contratti col popolo: si pensi al “contratto con gli italiani” di Berlusconi, o all’attuale “contratto di governo”). In altri termini: se il popolo investe direttamente il politico d’un incarico, non occorrono discussioni, non serve farsi domande, non è necessario che il processo conosca rallentamenti dovuti a interferenze. Anzi: la discussione potrebbe essere vista come un ostacolo sul cammino dei populisti (“la vera democrazia”, sosteneva Perón, “è quella in cui il governo compie la volontà del popolo e difende un solo interesse: quello del popolo”). Questo è un altro dei motivi per i quali i populisti disprezzano la cultura e hanno spesso in odio il giornalismo, dacché compito dell’arte, della letteratura, della musica, del teatro, dell’informazione è, ovviamente, quello di portare il pubblico a riflettere sulla realtà, a considerare un argomento anche secondo diversi punti di vista, a farsi delle domande. In due parole: aprire discussioni.

Se il primo passo dei movimenti populisti è dunque il rifiuto della complessità, il secondo sarà il tentativo d’imposizione del proprio linguaggio al resto della società civile: ed è quanto stiamo quotidianamente sperimentando, dacché sempre più spesso i mezzi di comunicazione si trovano a inseguire le esternazioni degli attuali leader populisti e, di fatto, a farsi dettare da loro l’agenda (Stefano Feltri, nella premessa del suo ultimo libro, scrive che “i populisti hanno già vinto”, anche quando non sono al governo, “perché tutti i partiti, gli intellettuali, i giornali e le televisioni ne hanno assorbito il linguaggio, l’agenda, gli strumenti, le parole d’ordine”, col risultato che il populismo “ha conquistato una egemonia culturale sulle forme e il linguaggio della politica”). Un linguaggio estremamente semplificato, che divide la realtà tra bianchi e neri alimentando dicotomie nefaste per il dibattito pubblico (che risulterà pesantemente inquinato), che tende a individuare, nel comportamento dei leader, caratteristiche e tratti che possano renderli il più possibile simili e vicini al cittadino qualunque (e la retorica politica sarà tutta impostata di conseguenza: termini da dizionario di base, tentativi d’empatia spiccia, strali contro il diverso rappresentato tanto dall’estraneo, come il migrante, quanto dal non familiare, come la classe intellettuale), e che s’avvale d’apparati capaci di muoversi con precisione chirurgica.

Una volta imposta un’egemonia sul linguaggio della politica, forse non passerà molto tempo prima che s’arrivi a un’egemonia sulla produzione culturale: così, la numerosa e fitta serie d’attacchi cui s’è assistito quest’estate (e che non può non destare una certa preoccupazione) può forse esser considerata un prodromo verso più strutturati e capillari tentativi di controllo sulla cultura? E in caso affermativo, quali forme potrebbe assumere questo controllo? Da un lato, l’immobilismo (che peraltro stiamo già saggiando: in quattro mesi di governo, il ministro dei beni culturali è stato capace di produrre unicamente uno scarno pacchetto di misure sull’accesso ai musei che cambiano davvero poco rispetto al passato) e il taglio dei finanziamenti (che alcune realtà locali stanno già vivendo) potrebbero diventare i principali strumenti attraverso i quali affannare la cultura più libera e aperta. Dall’altro lato, organismi interni ai partiti di maggioranza (è passata quasi sotto silenzio, nei giorni scorsi, la notizia della la nascita, in Sicilia, d’una “Consulta sulla Cultura della Lega - Salvini Premier” che opererà a livello regionale) potrebbero dettare le linee-guida agli amministratori ed esercitare forme d’indirizzo più o meno pervasive. E il principale problema consiste nel fatto che l’azione dei populisti è oltremodo rapida ed efficace.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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