Il pubblico medio della Biennale di Venezia vuole imparare o vuole divertirsi?


Già nel 2008, Gillo Dorfles constatava che le mostre occupano il tempo libero degli italiani come alternative ai centri commerciali, ai ristoranti, alle sale da gioco. E dalla Biennale si esce soddisfatti se la si visita con lo stesso spirito con cui si va all’Expo o al Salone del Mobile.

Nel 2008 un esperto di Biennali che non voleva essere considerato uno storico dell’arte, Gillo Dorfles, constatò che le mostre occupavano già il “tempo libero” degli italiani in alternativa alle visite ai centri commerciali, ai ristoranti, alle sale da gioco: “molti degli spettatori che attraversano le sale della Biennale di Venezia […] mostrano soddisfazione nel vedere stranezze di ogni sorta, pur non comprendendone a fondo i significati. Questo ormai perché la provocazione e l’infrazione della regola […] sono diventate di moda […], facendo leva sull’adesione acritica dei fruitori. […] C’è sicuramente un effettivo desiderio di conoscenza che spinge migliaia di persone a dedicare una parte del proprio tempo libero alla visita di una mostra. Un desiderio che è cresciuto, bisogna dirlo, di pari passo allo sviluppo di una concezione più evoluta, soprattutto in termini di marketing, dell’evento espositivo”. Da almeno mezzo secolo la Biennale non aspira a presentare un canone internazionale di opere e artisti; sovente espone un canone tarato sul qui e ora del biennio precedente, per volontà di uno o più curatori che da decenni non sono più storici dell’arte: quest’anno il presente coincide con la peste, la guerra, il ruolo delle donne nel sistema dell’arte. Un visitatore inesperto spesso sceglie l’arte contemporanea della Biennale credendo che sia più democratica di quella antica, che invece richiederebbe di essere capita con l’ausilio di conoscenze storiche. Così un turista va a Venezia per la prima volta e magari diserta in spazi pubblici l’arte pubblica di Verrocchio, Tiziano e Tiepolo.

Perciò la selezione del percorso dipende dall’occhio di chi guarda e dalle aspettative, professionali o turistiche. Se si attribuisce alla Biennale un ruolo testimoniale, da esposizione universale delle tendenze artistiche mondiali, è difficile che un visitatore medio ne esca con le idee chiare. Se invece si visita la Biennale con lo stesso spirito con cui si è andati all’Expo o con cui si va al Salone del mobile e al Fuori Salone, probabilmente l’esperienza sarà soddisfacente. Come per svaghi simili, si troverà appropriato anche il costo del biglietto, che per i non residenti ha un prezzo di base a cui vanno aggiunti i costi di viaggio, pernottamenti, vitto e varie ed eventuali: cifra non esattamente alla portata di una famiglia italiana con salari mensili medi.

Il latte dei sogni, Biennale d’Arte di Venezia 2022, a cura di Cecilia Alemani. Foto di Roberto Marossi
Il latte dei sogni, Biennale d’Arte di Venezia 2022, a cura di Cecilia Alemani. Foto di Roberto Marossi
Raphaela Vogel, Können und Müssen (2022; poliuretano, acciaio, ottone, modello anatomico, 220 x 135 x 1030 cm). Foto di Roberto Marossi
Raphaela Vogel, Können und Müssen (2022; poliuretano, acciaio, ottone, modello anatomico, 220 x 135 x 1030 cm). Foto di Roberto Marossi
Gian Maria Tosatti, Storia della notte e destino delle comete, Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2022. Foto di Andrea Avezzù
Gian Maria Tosatti, Storia della notte e destino delle comete, Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2022. Foto di Andrea Avezzù

Il parametro per valutare la riuscita di un’edizione della Biennale oggi è il numero di visitatori paganti. Per chi insegna, fa ricerca e divulgazione scientifica, e per gli artisti, invece, i parametri sono diversi, si accertano nel tempo e hanno ricadute, anche di mercato, alternative rispetto a quelle dei biglietti staccati. Qualche esempio. Nel 1948 il padiglione greco che alla prima Biennale del dopoguerra ospita la collezione di arte surrealista, modernista ed espressionista astratta di Peggy Guggenheim azzera le tradizionali categorie geopolitiche (in Grecia c’è la guerra civile), affianca con successo il cognome della proprietaria delle opere ai nomi dei paesi espositori e fa esclamare alla collezionista e talent-scout americana: “Mi sembrava di essere un nuovo paese europeo”. Nel 1964 il Leone d’oro a Rauschenberg sposta l’asse del gusto e del mercato dall’Europa agli USA, sancendo il successo anche europeo della Pop Art: è la Biennale in cui Schifano espone i suoi quadri grandi per pareti grandi, dipinti a New York proprio accanto agli artisti pop. Nel 1972 Willem de Kooning torna a Venezia per visitare una Biennale di transizione (vedi oltre), ma ciò che la sua memoria (che comincia a sgretolarsi) cercherà di riprodurre al ritorno negli USA è il cromatismo di Tiepolo. Nel 1995 la Biennale è un’occasione per fare la storia dell’arte del Novecento a partire da un genere, il ritratto, attorno a cui costruire mostra e catalogo, che così diventa un libro di riferimento sorvegliato da studiosi di provata esperienza, non un coffee table book: è il caso della mostra Figure del corpo 1895 / 1995 con cui Jean Clair celebra l’anniversario del Centenario della Biennale lavorando con una storica dell’arte, Adalgisa Lugli, studiosa di storia delle collezioni, delle mostre e dei musei, di plastica dal Quattrocento al Novecento e sposata con un artista, dunque adeguatamente preparata per organizzare un percorso attraente e anche affidabile sui “rinascimenti” succedutisi fino al 1995.

È complicato padroneggiare una cartina al tornasole durante la visita, se non si è in grado di fare una preselezione di cosa vedere sulla base della qualità. Si corre il rischio di non comprendere niente, perfino se si viene guidati da esperti, se questi parlano in critichese. Un semplice turista potrebbe infatti esprimere la stessa perplessità dei commercianti senza istruzione che comunicano solo in romanesco durante la visita alla XXXVIII Biennale del 1978 Dalla natura all’arte, dall’arte alla natura, parodiata in Le vacanze intelligenti da Alberto Sordi (già nel 1958 sarcastico critico dell’incomunicabilità della scultura da Biennale di Alberto Viani nei ritratti scattati da Cameraphoto per Oggi). Nell’ambito di un programma di viaggio salutare e up to date che prevede anche il dimagrimento (alla Biennale si può camminare per giorni), la coppia finisce per convincersi che la scultura monumentale concettuale coincide con le impenetrabili “cose che noi non potemo capi’”, e fraintende la coincidenza tra supporto e opera credendo che “qui nun ce sta un cazzo da vede’”. Del resto, anche oggi colei che cura la mostra principale della Biennale può dichiarare di essere disinteressata al pubblico che garantirà la riuscita dell’edizione pagando un biglietto: “il rapporto con il pubblico non mi preoccupa. Non mi sono posta il problema di assecondarlo, ci possono essere diversi livelli di lettura per una stessa opera”.

Il pubblico medio dell’arte contemporanea è lo stesso che non si prepara specificamente per uno spettacolo teatrale di un drammaturgo vivente, per un concerto rock o per una sfilata di moda. Al più, legge le interviste al drammaturgo, al regista, al cantante, allo stilista, ai curatori e agli artisti di punta. Per la Biennale naturalmente si può leggere prima il catalogo, quando è uscito in tempo utile all’apertura, ma quasi sempre è scritto in critichese, una lingua diversa dal lessico tecnico referenziale adatto alla divulgazione storico artistica; quindi un lettore troverà scarno supporto nella lettura per la comprensione di quel che vede; al contrario, ne sarà magari confuso maggiormente. Il linguaggio critico da Biennale deriva “dalla sociologia e dalle scienze umane del mondo neoborghese”; i curatori hanno studiato filosofia, estetica, marketing, non storia dell’arte, storia, letteratura, linguistica. Nell’anno in cui si parla tanto di Pasolini vale la pena ricordare che è stato lui a denunciare il divario tra le opere e la lingua critica dell’arte contemporanea, che oggi è abitudine, giusto a partire da un’edizione della Biennale, quella del 1972 la cui mostra portante fu Opera o comportamento. Il tema spetta a uno più complessi allievi di Longhi, Francesco Arcangeli, che delega la selezione degli artisti a Renato Barilli. In alternativa alla pittura non figurativa, alla Biennale arriva l’arte di comportamento da cui non si sa cosa aspettarsi e la cui riuscita dipende dalla reazione emozionale del pubblico, non dalla sua cultura visiva e storico artistica. E va a finire che il pubblico medio della Biennale non vuole imparare, vuole divertirsi.


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