La Pinacoteca di Brera sotto la gestione di James Bradburne: un modello a cui guardare?


Riflessioni sulla gestione della Pinacoteca di Brera diretta da James Bradburne: possiamo considerarlo un modello da applicare ad altri musei?

Lo scorso 9 agosto la Pinacoteca di Brera ha diffuso il proprio "Annual Report del 2016" per fare il punto circa l’attività dell’anno passato: e già questa è una notizia, dacché sono pochi (se non nessuno) i musei che diffondono pubblicamente resoconti sulla propria attività, a beneficio di chiunque voglia leggerli. Si tratta d’un documento indubbiamente interessante, perché dà modo di riflettere su varî argomenti, a cominciare dalla gestione di un museo che, a detta di molti, ha tratto notevoli giovamenti dalla direzione di James Bradburne, arrivato nel 2015 da Palazzo Strozzi a seguito del noto concorso che ha portato a cambi di vertice in diciannove dei venti musei che, a seguito della riforma Franceschini, hanno ottenuto l’autonomia. Interessante poi perché il report della Pinacoteca si apre con una dichiarazione d’intenti: una lettera del direttore che, possiamo dire senza dubbio, nelle sue linee di principio non può che metter d’accordo chiunque veda un museo come un luogo di crescita culturale, piuttosto che come una macchina per macinare visitatori su visitatori. Vale la pena riportarne uno stralcio significativo: “Il museo è una parte fondamentale della nostra comune umanità e della nostra identità condivisa di cittadini di una società prospera e dinamica. In qualità di cittadini prendiamo parte alle decisioni che forgiano il mondo in cui viviamo; in questo senso, il museo diventa il luogo in cui ritroviamo il nostro passato per poter creare il nostro futuro. Il museo è uno spazio in cui, dialogando con gli artisti di tutti i tempi, ritroviamo noi stessi in tutta la nostra complessità, la nostra ricchezza e il nostro ruolo attivo nella società. Il museo non è un luogo in cui consumare cultura, ma in cui produrla”.

Cosa comporta all’atto pratico, secondo Bradburne, questa visione del museo come “spazio per ritrovare noi stessi e il nostro ruolo attivo nella società”? Intanto, ripensare il museo come un luogo più accogliente e più accessibile, che sproni il visitatore a trascorrere tra le sue mura un’esperienza significativa, lo inviti a tornare e soprattutto gli consenta di sentire il museo come se fosse suo. Quando intervistai Bradburne alcuni mesi dopo la sua nomina, il direttore dichiarò che sua missione sarebbe stata quella di “mettere Brera nel cuore di Milano e di mettere l’esperienza del visitatore nel cuore del museo”: concetti poi spesso ribaditi in questi quasi due anni di gestione. Giova ricordare che la Pinacoteca di Brera non è un museo come tutti gli altri, almeno in Italia: nel nostro paese è probabilmente quanto più si avvicina, in termini di idea stessa del museo, al Louvre. Brera non è solo una Pinacoteca istituita ufficialmente nel 1809 col fine d’accogliere le punte di tutte le scuole artistiche italiane: è anche un’Accademia (nata prima della Pinacoteca, peraltro), una Biblioteca, un Orto Botanico, un Osservatorio. S’è resa (e si rende) necessaria un’unione di tutti questi frammenti, che passi attraverso la risistemazione degli spazî, dei servizî essenziali, della segnaletica, degli allestimenti, in un’ottica d’unità: non ha senso avere una Pinacoteca brillante se poi, per esempio, la Biblioteca segue con affanno o l’Orto Botanico non è curato con la stessa attenzione. L’idea è che un istituto culturale debba servire anzitutto alla comunità locale: e se si dà all’abitante un istituto che funzioni e in cui sia piacevole e utile trattenersi, si potrà star certi di garantire un servizio d’eccellenza anche al turista. Il modello contrario, invece, spesso non permette di raccogliere frutti altrettanto buoni.

Il nuovo allestimento della sala XXIX
Il nuovo allestimento della sala XXIX. Ph. Credit James O’Mara.

La seconda conseguenza pratica è la dichiarata rinuncia alle mostre blockbuster. Perché la Pinacoteca di Brera è già un blockbuster di suo, data l’eccezionalità della sua raccolta, e non ha bisogno di reinventarsi come un contenitore (eventualità che potrebbe portare anche alla morte di un museo). Da Brera dunque non giungono notizie di mostre da “sold out” o da decine di migliaia di visitatori. Piuttosto, la scelta è stata quella di puntare sui “dialoghi”, un’interessantissima serie di piccoli eventi che hanno accompagnato il riallestimento di alcune sale portando a Brera opere che, appunto, dialogassero in maniera proficua e intelligente con i capolavori (e non) della collezione permanente. E financo la scelta di puntare frequentemente su nomi privi di eco mediatica, come Lorenzo Lotto o Pompeo Batoni, potrebbe esser di per sé indice del fatto che che volontà del museo sia quella di guardare soprattutto alle collezioni storiche. E vale la pena sottolineare come questi nuovi allestimenti abbiano radicalmente cambiato l’immagine del museo: pannelli bilingui con didascalie più dettagliate delle precedenti (e con un percorso di “didascalie d’autore” redatte da poeti, scrittori, artisti, intellettuali: un’iniziativa di sicuro interesse per portare il visitatore a guardare all’opera da un punto di vista spesso inedito), una nuova illuminazione, colori delle pareti diversi a seconda dei periodi storici.

Infine, terza conseguenza: la comunicazione, tema su cui Brera ha insistito molto, con un sito totalmente rinnovato e conforme agli standard europei (è quasi una rarità, in Italia, un sito che presenti le proprie collezioni con schede e dettagli sulle singole opere, e immagini ad alta risoluzione), una puntuale newsletter che informa il visitatore di tutte le novità e degli eventi che si tengono presso l’istituto, un ufficio stampa efficace e che, peraltro, risponde alle richieste con solerzia e rapidità.

Si potrà poi rimproverare al direttore Bradburne il suo continuo distinguere tra tutela e valorizzazione (concetti che, a detta dello scrivente, rimangono inscindibili), si potrà discettare a proposito delle cene in cortile con borse e spritz poggiati sulla base del Napoleone di Canova, potremo continuare a indignarci se vedremo i restauratori compiere urgenti operazioni di velinatura sui dipinti direttamente nelle sale perché un’ondata di freddo intenso ha colto tutti impreparati. Occorre però anche guardare con imparzialità ai risultati raggiunti dalla Pinacoteca di Brera, e occorre quanto meno domandarsi, in tutta onestà, se Brera non possa costituire un modello per gli altri musei italiani. Siamo stati (e siamo tuttora) detrattori della riforma Franceschini, ma poiché tale riforma è in essere, poiché è impossibile tornare indietro, e poiché sul futuro dei beni culturali grava l’interrogativo delle elezioni del 2018, sarebbe forse ora di cominciare a vedere se non si dia il caso di scovare anche qualcosa di buono tra le maglie d’una riforma che s’è dimostrata pressoché dimentica dei centri periferici, con tutto ciò che ne è conseguito (la situazione del Centro Italia è lì a dimostrarlo), e di fatto ha lasciati irrisolti i principali problemi che minano il settore, dei quali a lungo s’è discusso su queste pagine. Se però dobbiamo riflettere sui musei, allora la Pinacoteca di Brera potrebbe forse offrire qualche spunto per ripensare al ruolo del museo nella società. Nel suo saggio Il museo come elemento attivo nella società, Franco Russoli, storico direttore braidense, scriveva che il museo dovrebbe essere "uno strumento maieutico, di conoscenza problematica della natura e della storia, che non guidi ad un indottrinamento dogmatico, ma che dia materia e occasione a un giudizio libero, spontaneo, magari contestatario, maturato attraverso il rapporto diretto (sia esso di carattere estetico, storico o scientifico) con i documenti originali dell’evoluzione della vita della natura, della società, dell’uomo". Sicuramente è presto per prodigarsi in affermazioni perentorie, ma altrettanto sicuramente possiamo dire che un solco, quanto meno, è stato tracciato.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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