La Power 100 di ArtReview: l'estetica sacrificata in nome della morale


La rivista ArtReview ha premiato il movimento Black Lives Matter come la personalità artistica più influente dell'anno, ma la classifica lascia pochissimo spazio a un'arte che non rappresenta le rivendicazioni sociali dell'anno. È giusto?

Je est un autre. “Io è un altro”: lo scriveva un sedicenne Rimbaud nei giorni intensi della Comune di Parigi, in due lettere inviate una a Izimbard e una a Demeny, per rivendicare la necessità d’una poesia che si svincolasse dagli eccessi di soggettivismo e di formalismo e che affermasse la sua funzione sociale. Forse però neppure Rimbaud sarebbe stato in grado d’immaginare che, centocinquant’anni dopo, la funzione sociale dell’arte sarebbe diventata pressoché l’unica ammessa da una delle riviste d’arte più discusse, ArtReview, che com’è ormai ben noto, dato che è da un mese che se ne discorre (ArtsLife per esempio ha avviato un vivacissimo confronto), ha proposto quest’anno una Power 100 estremamente votata agli argomenti dell’attuale dibattito politico. La “lista annuale delle cento personalità più influenti dell’arte” assegna quest’anno il primo posto al movimento Black Lives Matter, il secondo al collettivo ruangrupa, il terzo agli studiosi Felwine Sarr e Bénédicte Savoy. Pochi gli artisti, come di consueto per la Power 100 di ArtReview: il primo è Arthur Jafa al sesto posto.

La scorsa settimana, la classifica di ArtReview è balzata all’attenzione di Le Figaro, che alla Power 100 ha dedicato una piccola inchiesta, nella quale s’è dato spazio a un’interessante posizione di Camille Morineau (già conservatrice al Centre Pompidou e oggi presidente dell’École du Louvre) che, nell’affermare che il riconoscimento d’un artista è dato da tre soggetti, ovvero i musei, le pubblicazioni e il mercato, ha replicato a chi ritiene eccessiva la politicizzazione della Power 100 sostenendo che la preminenza delle donne, dei neri e dei movimenti LGBT che quest’anno monopolizza la classifica sia sintomo del fatto che nei confronti di questi soggetti scontiamo un ritardo che andrà equilibrandosi nel tempo. Una lettura che ha senso finché il giusto tentativo di colmare le lacune con una risposta sistemica non scade nel conformismo d’un elenco che, quest’anno, ha sistematicamente eliminato tutti gli artisti lontani dall’attivismo politico di quelli che dominano quest’anno la classifica: ad esempio, sono spariti in un colpo solo Pierre Huyghe, ininterrottamente presente dal 2013 e capace d’arrivare secondo nel 2017, e poi Haegue Yang, Philippe Parreno, William Kentridge, e a sorpresa anche Yayoi Kusama, che pure sarà tra i protagonisti già annunciati del 2021. Il tratto che li accomuna è la loro lontananza dalle istanze sociali di cui si fanno invece portatori pressoché tutti gli artisti presenti quest’anno nel listone di ArtReview.

Bristol, giugno 2020, l'abbattimento del monumento allo schiavista Edward Colston durante una protesta del movimento Black Lives Matter
Bristol, giugno 2020, l’abbattimento del monumento allo schiavista Edward Colston durante una protesta del movimento Black Lives Matter

Se ne ricavano alcune tendenze. La prima è che il mondo dell’arte continua ad assecondare la polarizzazione del dibattito politico, secondo una tendenza cominciata almeno nell’ultimo biennio e di cui parlava più d’un anno fa, su queste pagine, Magnus af Petersens: “la censura adesso arriva anche da sinistra”, scriveva Petersens, e intanto “il mercato dell’arte continua a espandere la sua influenza”, mentre “alcuni artisti hanno sviluppato un certo interesse per l’autogestione e l’attivismo”. E laddove manchi l’attivismo diretto arrivano le opere d’arte che, ormai deprivate della loro valenza estetica, sembrano quasi fare da accessorio alle idee di filosofi e curatori. E non parliamo di giornalisti o di critici, non sono praticamente mai stati presi in considerazione da ArtReview: neanche la vittoria del premio Pulitzer è bastata a far entrare Jerry Saltz nella classifica di due anni fa. È però vero che ArtReview da sempre dà un peso maggiore ai curatori, ai teorici e ai filosofi che agli artisti, tanto che ci sono stati anche degli anni in cui gli artisti presenti in classifica erano solo sei: l’umiltà che sessant’anni fa Lionello Venturi chiedeva ai critici evidentemente non è una qualità imprescindibile secondo i compilatori della Power 100.

L’eccessiva presenza di figure che dovrebbero accompagnare il lavoro dell’artista è stata notata da molti, ma se finora il principio estetico aveva ancora una sua rilevanza per la classifica di ArtReview, quest’anno è stato definitivamente accantonato in nome del principio morale: s’è deciso che nel 2020 l’arte contemporanea dev’essere ancella di alcune rivendicazioni sociali e di sollecitazioni che provengono in primo luogo da oltreoceano, e s’è escluso tutto il resto. Eppure ci sono artisti che, alieni dalla presenza politica dei tanti che occupano quest’anno la classifica (quasi tutti meritevoli, beninteso: il primo, Arthur Jafa, è uno dei più interessanti artisti viventi, e l’operazione di cui è stato protagonista quest’estate è stata una delle poche occasioni con le quali l’arte contemporanea s’è imposta nel dibattito pubblico), non sono comunque culturalmente e artisticamente meno influenti di altri. La contraddizione delle scelte di ArtReview è del tutto evidente: è come se, in nome del risarcimento del ritardo, si fosse in qualche modo disconosciuta l’eterogeneità e la varietà della libertà d’espressione artistica. È probabilmente questo il vero tema che emerge dalla Power 100: se l’alternativa è diventata istituzione, sarà interessante vedere come evolverà quella “censura di sinistra” che in forme più o meno larvate si è insinuata nel dibattito culturale.

Vale anche la pena di notare l’atteggiamento che quest’anno ArtReview ha avuto nei confronti del mercato: Le Figaro scrive che “malgrado tutte le buone intenzioni, la questione chiave rimane il denaro”, dato che alcune inossidabili presenze, come quella di Larry Gagosian o di David Zwirner, non sono venute meno (i due galleristi sono in classifica più o meno dacché la classifica esiste), ma è anche vero che sono stati premiati per lo più galleristi che sposano le cause che innervano la Power 100 e che, dall’altro lato, ci sono state importanti retrocessioni, come quella del direttore di Art Basel che ha perso una quarantina di posti, nonostante i tentativi di tener viva la fiera in un anno drammatico per tutti. Un dramma, quello della pandemia, che peraltro quasi non entra nella Power 100: è come se nel mondo dei musei non fosse successo niente.

Se per Angelo Conti, critico raffinato e dimenticato, il critico è la coscienza dell’artista, l’invadenza d’una coscienza gonfia di perbenismo e dimentica del suo ruolo, che è quello di spiegare il mistero che anima il lavoro dell’artista facendosi interprete del suo portato simbolico, rischia di condannare l’arte alla completa irrilevanza in un mondo dove già l’arte e la cultura corrono sempre di più il pericolo d’essere escluse dal dibattito pubblico, rischia di mortificare il prodotto dell’espressione d’un artista, rischia di allontanare il pubblico, rischia di emarginare lavori d’artisti anche grandi e originali ma la cui arte non s’allinea al dettato di chi scrive le liste. Naturalmente tutti ci affanniamo a ricordare che la lista è espressione del pensiero d’una rivista d’area anglosassone e, come ogni classifica di questo genere, non dev’esser considerata come un qualcosa che sia scritto nella pietra. Tanto più che quella del 2020 appare compilata sull’onda emotiva d’un anno molto particolare e difficile. Possiamo sottovalutare la classifica in sé: ma possiamo dire lo stesso delle indicazioni che sottende?


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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