C’è da rallegrarsi nel leggere l’articolo che Gian Maria Tosatti ha scritto una decina di giorni fa per il Domenicale del Sole 24 Ore, e da trarre lieto auspicio nel constatare che anche Tosatti, pur saldo nella sua novecentesca idea di dibattito egemone, parrebbe aver maturato una certa contezza della sostanziale infertilità della discussione critica sull’arte contemporanea in Italia, laddove per “infertilità” si voglia intendere la condizione d’un confronto che, lungi dall’essere partecipato, ampio, continuativo e costruttivo, non sia capace di “produrre conseguenze nelle pratiche e nelle opere o di costruire un riconoscibile orizzonte concettuale”. Non che negli ultimi anni siano mancate proposte di sistematizzazione, di ricognizione, di classificazione più o meno ordinata di quanto accaduto in Italia e fuori dall’Italia, e in questo senso i Quaderni della Quadriennale di Roma diretti da Tosatti, che pure sembra voler rivendicare per la sua attività editoriale un ruolo d’imprescindibile testimonianza del presente, non sono stati che una delle tante iniziative (e probabilmente neppure la più organica o la più interessante) nel contesto d’un panorama critico che, seppur sommessamente e seppur la più parte del tempo lontano dal clamore, ha offerto più di qualche tentativo, e non riconoscere che c’è stato movimento significa essere o disinformati o intellettualmente disonesti. Si potrebbero citare, in ordine sparso, senza pensarci troppo e offrendo al lettore un elenco necessariamente incompleto, libri come Strata di De Bellis e Rabottini o Terrazza di Barreca, Lissoni, Lo Pinto e Paissan, oppure le lezioni di critica di Roberto Ago su Artribune, o ancora la breve storia dell’arte italiana dal Duemila a oggi di Davide Landoni su Finestre sull’Arte e, sempre su queste pagine, il dibattito sull’arte degli anni Duemiladieci (cui hanno preso parte, tra gli altri, Balbi, Bonacossa, Bourriaud, Obrist, Szymczyk), e poi la battagliera guida Michelin-o di Luca Rossi coi voti agli artisti, il progetto Parola d’artista di Gabriele Landi con le sue miriadi d’interviste agli artisti italiani, fino a includere nel novero delle proposte anche mostre come la bistrattatissima Pittura italiana oggi, e senza calcolare chi ha approfondito singoli filoni di ricerca (penso, per esempio, agli ultimi due numeri della rivista Titolo dedicati ai codici verbali nell’arte contemporanea, italiana e internazionale, oppure all’indagine sul sacro nell’arte contemporanea del summenzionato Landi, ma sarebbero tante le esperienze da citare). Proposte che, pur con tutti i loro limiti, hanno quanto meno cercato (o cercano tuttora, per quelle ancora attive) d’offrire qualche chiave di lettura, qualche interpretazione, qualche suggerimento. Sono però tutte esperienze che hanno scontato una certa indifferenza: non si parla, ovviamente, dei riscontri d’un pubblico che spesso, al contrario del parterre degli addetti ai lavori, si dimostra molto interessato ai tentativi d’organizzazione del presente, ma di quella portata che si misura con le risposte, le controproposte, le polemiche, le discussioni che abbiano seguito un input in un arco di tempo ragionevolmente lungo (discussioni sulle poetiche, insomma, che durino più di due o tre mesi e che producano risultati osservabili e in qualche modo misurabili).
Nel dare a Tosatti il benvenuto nel terzo millennio occorre, intanto, sgombrare il terreno dall’equivoco che l’assenza di dibattito sia dovuta all’assenza d’una proposta: temo che chi la pensa in questo modo sia molto distante dal vero, e possiamo anche ritenerci sereni, dacché tra cinquanta, sessanta o settant’anni i nostri nipoti non correranno il rischio di perder la memoria critica dello stato dell’arte italiana nei primi venticinque anni del secolo (e questo senza entrare nel merito della riconoscibilità e della rilevanza in ambito internazionale dell’arte italiana contemporanea, che pure sarebbe un interessante elemento per affrontare questa discussione, ma per adesso sorvoliamo). I pochi esempî sopraccitati dimostrano ch’esiste, eccome, la volontà di leggere il presente. E non è neppure un problema di mancanza di spazî: è vero che il paesaggio editoriale è profondamente cambiato, è vero che non giunge in soccorso neppure l’università (chi aspira a una carriera accademica spesso preferisce scrivere d’argomenti del tutto irrilevanti e che però trovano accoglienza su riviste scientifiche di quart’ordine, lette da dieci persone ma che fanno curriculum, piuttosto che prendere posizione scrivendo su di una rivista di settore o su una testata generalista che però non consente accumuli di punteggi utili), è vero che stiamo assistendo a una progressiva parcellizzazione delle esperienze, a un’erosione degli spazî critici stabili e alla frammentazione d’un apparato critico ch’è sempre più dispersivo e sempre più favorevole alla logica del lacerto che alla discussione continuativa, senza contare che forse, per la prima volta dalla civiltà micenea a oggi, la critica sembra prediligere l’oralità alla parola scritta, ma è altrettanto vero che esistono delle piattaforme riconosciute che mantengono una loro solidità (queste stesse pagine, che in virtù della loro indipendenza son sempre state aperte a tutti con somma disponibilità, penso siano una dimostrazione del fatto che non stiamo scontando un problema di mancanza di spazî per la critica) e di conseguenza offrono un approdo e un rifugio a chiunque voglia contribuire con una proposta, un’idea, un pensiero. No: non è problema di spazî. L’assenza d’un dibattito che potremmo chiamare “lungo” si spiega in ragione d’altri presupposti.
C’è da dire che, intanto, il dibattito critico in Italia sconta, da una parte, la precarizzazione del lavoro di ch’intenda far dell’arte il proprio mestiere (non importa da quale parte della barricata), e dall’altra l’esistenza d’un sistema ch’è fondato sulle continue interrelazioni tra i soggetti che producono e quelli che dovrebbero leggere, interpretare, classificare. Ora, in una situazione del genere, pretendere che un dibattito profondo e continuativo possa sorgere da un sistema in cui, secondo un apparente paradosso, la sterilità è spesso funzionale alla sopravvivenza, sarebbe un po’ come rimproverare un cane perché non miagola. Lo sgretolamento degli spazî per la critica (malgrado la sana e sostenibile sopravvivenza di progetti indipendenti) è dovuto anche al fatto che persino molte piattaforme editoriali faticano a trovare un’immunità da queste logiche, e di conseguenza anche sulle riviste abbondano le risciacquature dei comunicati stampa, le celebrazioni acritiche, le polemiche di corto raggio. E chi avrebbe gli strumenti per cercare d’interpretare in maniera critica il presente, segnatamente se “interpretare in maniera critica” significa alle volte assumere posizioni scomode, e specie se per imbastire questa operazione d’indagine sul presente occorre andare a rimestare delle acque agitate e pronunciarsi su temi su cui sarebbe meglio non aprir bocca, spesso è portato ad assumere un atteggiamento di consapevole e serena prudenza, stante anche l’esser costretti a operare in un settore fondamentalmente piccolo, dove gli attori si moltiplicano quasi di anno in anno, un settore dominato dal conservatorismo e dal mercantilismo, e dove, per chi voglia campare d’arte, spesso risultano più premianti la superficialità, la piaggeria o la ricerca del consenso che l’attitudine alla ricerca o semplicemente l’assunzione di posizioni che potrebbero non essere gradite (a stroncare Jago e Giannelli, per dire, sono buoni tutti, mentre a tentare una critica d’un Padiglione Italia o, più banalmente, del museo in cui si vorrebbe andare a esporre le proprie opere o in cui si vorrebbe curare una mostra, si fa un poco più di fatica). E in un sistema profondamente permeato da logiche di mercato, e dove pertanto la competizione prevale sulla collaborazione, non sia mai che chi scrive citi il lavoro d’un collega della stessa generazione, dunque d’un potenziale avversario: meglio rintanarsi nella sicurezza offerta da un Deleuze o da un Guattari curandosi bene di non spostare troppo avanti l’orizzonte cronologico della propria visione estetica o filosofica: tutt’al più si farà finta d’aver letto due o tre libri e si farà anche bella figura senza correre grossi rischi. È noto che per un dibattito serva mettersi in discussione, ma è anche vero che in un sistema dell’arte contemporanea dove tutti, artisti e curatori, sono fondamentalmente imprenditori di se stessi, dove si lavora spessissimo per cooptazione, dove il grosso dei galleristi non ha il minimo interesse a sostenere una scrittura seria e di qualità, il tempo che si dedica alla discussione è fondamentalmente tempo che si sottrae alla promozione di se stessi. Non siamo più negli anni Sessanta-Settanta-Ottanta o giù di lì, quando la reputazione dei galleristi si costruiva soprattutto sulla capacità di scoprire e sostenere una linea di ricerca o anche semplicemente un artista di sommo talento, quando la reputazione di chi scriveva derivava dalla forza del suo pensiero e non dalla quantità di testi scritti per presentare le mostre in galleria, quando le riviste non erano vetrine, erano arene. Ne consegue che, oggi, chi aspira a farsi riconoscere in ambito critico o curatoriale nella più parte dei casi s’è già condannato a un destino da burocrate della scrittura d’arte.
Tutto questo, naturalmente, solo pensando a chi avrebbe gli strumenti per comprendere il presente (e non credo neppure che siano la maggioranza), e senza dunque includere nel ragionamento tutta quella vasta pletora di curators, giovani e meno giovani, che non s’informano, non studiano (si diletti, il lettore, con un facile esercizio: alla prossima preview di Artissima o di Miart provi a fermare una cinquantina di persone a caso, a chieder loro chi fossero e cosa abbiano fatto, mettiamo, Luca Signorelli o Gastone Novelli, e ascolti le risposte: son sicuro che avrebbe di che sorprendersi), non leggono i libri e le riviste, non si confrontano coi colleghi, non chiedono, non telefonano, non azzardano, non vanno a vedere le mostre (tolti quei quattro o cinque appuntamenti fissi e poco altro, dove si tende a convenire più per dovere di firma che per reale interesse o reale curiosità), quei curators ai quali risulta spesso difficile anche la semplice collocazione storica di un fenomeno o financo di un artista che decidono di seguire, con tutto il rischio d’impoverimento che ne consegue (penso a quel genere che qualcuno ha chiamato studio visit e che il più delle volte si risolve con un testo striminzito, peraltro spesso composto sotto dettatura dell’artista, senza che si provi a inquadrare criticamente e storicamente la sua produzione, col rischio di perdere aperture, affondi, lampi di novità che spesso sono ignoti pure agli stessi artisti), ai quali risulta spesso difficile anche scrivere un testo in italiano corretto.
Ovviamente non si nega che sarebbe ingeneroso addossare tutte le colpe a chi cerca d’arrabattarsi alla bell’e meglio: siamo tutti cresciuti nella società dell’iperspecializzazione che ha disgregato le forme di conoscenza cui eravamo abituati, abbiamo tutti frequentato scuole colme di professori pronti a insegnarci che alla Biennale di Venezia è più interessante guardare due batik e due stoffe andine che provare a rivolgere gli occhi agli affreschi di Galileo Chini, e se ci guardiamo attorno noteremo che anche i nostri maestri non brillano granché per disponibilità al dialogo e si distinguono, semmai, per la loro bolsa, ammuffita, grottesca autoreferenzialità, per taluni diventata un tratto quasi proverbiale. Lo stesso Gian Maria Tosatti, sul suo profilo Instagram, prima di pubblicare la pagina del Domenicale col suo articolo ha proposto ai suoi seguaci una recensione della sua mostra da Lia Rumma, la notizia della sua partecipazione alla Biennale del Guatemala, il reel di una sua installazione, e persino uno screenshot di ChatGPT che lui asserisce essergli stato mandato da un “amico” e che mostra una conversazione in cui all’IA viene chiesto chi siano i più interessanti artisti italiani del XXI secolo, e lei risponde mettendo al primo posto Cattelan e al secondo Tosatti. Si obietterà che neppure a lui è possibile farne una colpa, se è vero che viviamo nell’era dell’autopromozione e il mondo là fuori è stracolmo d’artisti e curatori che fanno i rappresentanti di se stessi (e, beninteso, non c’è niente di male: lo facevano anche prima di internet, con l’unica differenza che prima evitavano di rendere noi pubblico partecipe di questa continua televendita), e di conseguenza non si può neppure sindacare troppo sulla condotta di chi usa Instagram, ovvero la piattaforma che oggi gran parte del pubblico quasi identifica con internet in generale (com’era Facebook qualche anno fa), non per attivare discussioni o dibattiti ma semplicemente come catalogo del proprio campionario, come brochure interattiva con possibilità di raccattare cuoricini e dunque con annessa funzione CRM. Naturale, dunque, che lo storytelling prevalga sulla discussione.
Sarebbe tuttavia riduttivo non considerare un altro, cruciale aspetto della questione, che un certo strabismo storico talvolta impedisce di cogliere: l’orizzonte concettuale odierno non segue più dinamiche accentratrici, ma sembra aver assunto, al contrario, le sembianze d’un dialogo carsico, d’un rivo sotterraneo che scivola ben nascosto per poi riaffiorare con zampilli inattesi e lontani. Il dibattito non scorre più come un fiume in piena, ma somiglia più a una falda acquifera, a una rete sommersa in cui i concetti possono trovare una prima formalizzazione, mettiamo, in una piccola mostra di provincia per poi riemergere come tema critico da un’altra parte e in maniera completamente indipendente, oppure condizionare con maggiore o minor consapevolezza un artista o un critico che di quella prima, iniziale formalizzazione magari non sapeva alcunché. Il fatto è che il pensiero parrebbe non esser più propenso a svilupparsi in verticale, per gerarchie, ma in orizzontale, per connessione e contagi reciproci, per scambi frammentarî e rapidi. Gli artisti, i curatori, i critici diventano allora nodi in grado d’intercettare, filtrare, rielaborare le informazioni. Siamo lontani dall’epoca e dalle modalità dei gruppi che si riconoscono sotto un unico manifesto: l’individualismo che contraddistingue la nostra contemporaneità sta semmai producendo delle costellazioni di singolarità, distinte e autonome, che assumono una forma più o meno definita solo se viste da lontano. Il problema è che se tutto è frammentato diventa più difficile distinguere il valore dal rumore di fondo.
E in un’epoca fondamentalmente post-ideologica, in un’epoca priva d’un qualunque orizzonte teleologico, le discussioni tendono a concentrarsi e a frammentarsi su questioni specifiche, tecniche o tematiche, e faticano a coagularsi in una visione poetica complessiva che possa essere anche conflittuale (magari lo fosse!): credo nasca da qui la percezione per cui pare ci sia un dibattito accanito su certi temi, specialmente se rispondono a un’agenda globale che abbiamo adottato anche alle nostre latitudini (penso, per esempio, agli studî post-coloniali, che hanno pure giustificato un’intera Biennale di Venezia), sebbene più adoperandoli come etichette che sondandoli nel profondo onde ricavarne nutrimento poetico: ne consegue, ovviamente, un ulteriore appiattimento delle pratiche e un ulteriore mancato sviluppo di linguaggi nuovi. Non credo si possa dire che in Italia (così come altrove, del resto) non esiste un dibattito di poetica perché esiste una volontà, specie se individuale, che spinge in questa direzione. Vorrebbe dire scambiare la causa col sintomo: l’individualismo sembra più una reazione difensiva, sembra più una risposta all’atomizzazione del lavoro e alla trasformazione del paesaggio critico che l’origine d’una particolare condizione. Il punto è un altro: non esiste un dibattito di poetica perché mancano le condizioni strutturali affinché un dibattito ampio e partecipato possa nascere, attecchire, sedimentarsi, germogliare, dare frutti durevoli. Per vederlo risorgere serviranno cambiamenti lunghi e profondi, esattamente come quelli che hanno prodotto l’attuale latitanza d’un dibattito lungo. Oppure occorrerebbe un qualche imprevedibile evento esterno che modifichi radicalmente e strutturalmente la terra nella quale il dibattito dovrebbe affondare delle radici robuste: al momento, però, non s’intravede ancora l’ombra d’un cigno nero.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).
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