Il calcio di strada di Steve McCurry: Football and Icons


ecensione della mostra "Football and Icons" di Steve McCurry a Castelnuovo Magra presso la Torre del Castello dei Vescovi di Luni.

Articolo originariamente pubblicato su culturainrivera.it

La grande fotografia torna a Castelnuovo Magra, e lo fa con un altra mostra di spessore, dopo quella dello scorso anno dedicata a Elliot Erwitt: questa volta è di scena Steve McCurry con la sua Football and Icons. È la prima volta che al famoso fotografo americano viene dedicata una mostra sul tema del calcio. E visto che quest’anno si giocano i Campionati Europei, l’argomento dell’esposizione par quasi scelto apposta. Però chi si aspetta una mostra di scintillanti fotografie che celebrano i grandi campioni colti nelle loro imprese sportive, si troverà di fronte a un percorso in totale disaccordo con le aspettative: e non è detto che ne scaturisca delusione. Perché in Football and Icons non ci sono grandi campioni, non ci sono stadi moderni e tecnologici, non c’è il tifo indiavolato delle più importanti arene mondiali, non ci sono scene di memorabili partite entrate nell’immaginario colletivo. Ci sono però passione genuina, felicità, colori, emozioni. Perché per Steve McCurry, fotografo che ha girato il mondo, il calcio è essenzialmente calcio di strada.

La Torre del Castello dei Vescovi di Luni
La Torre del Castello dei Vescovi di Luni


Steve McCurry, Birmania, 2010
Steve McCurry, Birmania, 2010


La mostra si sviluppa lungo i sei piani della Torre del Castello dei Vescovi di Luni: la sede espositiva non è certo delle più agevoli data la ripidezza delle scale, ed è impraticabile per chi ha difficoltà deambulatorie, ma è comunque suggestiva e l’organizzazione ha saputo sfruttare al meglio gli spazi angusti per allestire un percorso coerente, con luci posizionate in modo da consentire un’illuminazione corretta dell’ambiente senza costringere i visitatori a osservare le immagini da punti di vista “preferenziali”, e con il racconto dell’esposizione che si sviluppa essenzialmente per temi. C’è il calcio giocato nelle zone di guerra (Libano negli anni Ottanta, Afghanistan negli anni Duemila), ci sono i bambini di città povere dell’Asia, dell’Africa o del Medio Oriente che s’arrangiano a improvvisare partitelle col poco che hanno a disposizione, c’è il calcio come momento di svago che unisce tutti i popoli del mondo: dai monaci buddhisti birmani ai pastori dell’Etiopia passando attraverso i paesi di tutti i continenti, il gioco del calcio abbatte ogni barriera, porta gioia e abbracci anche laddove non ci sarebbero molti motivi per sorridere, porta uguaglianza, passione, competizione sana.

Steve McCurry, Regione degli Amara (Etiopia), 2014
Steve McCurry, Regione degli Amara (Etiopia), 2014


Steve McCurry, Mandalay (Birmania), 2013
Steve McCurry, Mandalay (Birmania), 2013


La curatrice, Biba Giacchetti, pone all’inizio del percorso una foto che include, strategicamente, tutto il significato della mostra. Protagonista è un bambino che prende a calci una palla tra i colorati vicoli di un’antica città marocchina: corre dietro al pallone, sorride, sta passando dei momenti di felicità e spensieratezza. Perché, in fondo, per giocare a pallone non serve granché. Basta un’adeguata disposizione d’animo, incline appunto alla spensieratezza, bastano allegria, un pallone e qualche sorriso. Non è necessario altro: per il campo e per il numero di giocatori ci si può adattare a ogni situazione. Si può essere in due in un freddo e arido cortile di Rybinsk, in Russia, si può utilizzare un declivio di una collina in Etiopia stando ben attenti a dribblare anche le mucche al pascolo, si può anche palleggiare in solitaria sugli scomodi ciottoli di una strada di Trinidad, a Cuba. Per Steve McCurry, il calcio è l’essenza stessa del calcio. Tutto ciò che esce dalla logica di un gioco che si possa improvvisare ovunque è, per il fotografo statunitense, un dettaglio di cui non val la pena curarsi: campi d’erba fresca e ben tagliata, coppe e competizioni ufficiali, divise appena uscite dalla lavatrice, sponsor, trofei, tifo organizzato. Nessuno di questi elementi trova spazio nelle fotografie di Steve McCurry.

Steve McCurry, Marocco, 1998
Steve McCurry, Marocco, 1998


Steve McCurry, Trinidad (Cuba), 2015
Steve McCurry, Trinidad (Cuba), 2015


Sono soprattutto due i momenti attorno ai quali la mostra intende far riflettere il visitatore: il calcio come momento di aggregazione e il calcio come antidoto contro le avversità. Filo conduttore è la spontaneità che caratterizza gli scatti di Steve McCurry: al netto delle polemiche, anche recenti, scaturite circa l’opportunità o meno del lavoro di postproduzione realizzato dallo studio del fotografo sulle immagini, delle opere in mostra a Castelnuovo si apprezza soprattutto il sentimento d’autenticità che le anima. Gli scatti ritraggono momenti di vita quotidiana in varie zone del globo terrestre, i protagonisti si muovono nella più totale libertà producendosi in smorfie, pose e atteggiamenti del tutto naturali, rivelando attraverso sguardi e gesti che il calcio è un gioco che unisce i popoli di tutto il mondo. Le immagini, peraltro, coprono un arco piuttosto ampio della carriera di Steve McCurry: si va dalle fotografie degli anni Ottanta fino a realizzazioni più recenti. La foto di Rybinsk, per esempio, risale al dicembre del 2015.

E se il calcio è momento d’aggregazione, lo diventa anche quando le squadre si sfidano, come anticipato, in zone devastate dalla guerra. Il visitatore intenzionato ad approfondire questo tema troverà esposte nel percorso di Football and Icons diverse immagini particolarmente eloquenti. C’è una foto che risale al 2003 e che ritrae alcuni uomini alle prese con un pallone davanti al Forte di Bala Hisar nei pressi di Herat, in Afghanistan, in un periodo in cui infuria la guerra, ma soprattutto ci sono immagini del Libano negli anni Ottanta, che ritraggono ragazzini intenti a giocare tra i palazzi ridotti a cumuli di macerie e bambini che si aggrappano, per gioco, ai resti di un cannone anticarro. Netti sono i contrasti tra i risultati della guerra e i colori portati dai bambini: nella prima foto al grigio delle macerie si contrappongono le tonalità sgargianti delle vesti dei ragazzini, e nel secondo caso la brutalità della guerra è letteralmente sopraffatta dai giochi e dalle capriole dei bambini attorno al cannone ormai inoffensivo. Scatti altamente simbolici, che muovono l’osservatore a riflettere, anche senza l’ausilio di apparati didascalici (la mostra infatti, e questo è un aspetto negativo, ne è totalmente priva: l’unico supporto che indirizza i visitatori nel percorso sono i cartellini che recano luogo della fotografia e anno dello scatto). Nel suo blog, Steve McCurry cita il leggendario calciatore Bill Shankly: “Certa gente crede che il calcio sia una questione di vita o di morte. Ma posso garantire che si tratta di una questione molto più importante”. Da queste immagini ricaviamo il significato di queste parole e perché il calcio è così importante.

Steve McCurry, Forte di Bala Hisar, Herat (Afghanistan), 2003
Steve McCurry, Forte di Bala Hisar, Herat (Afghanistan), 2003


Steve McCurry, Beirut (Libano), 1982
Steve McCurry, Beirut (Libano), 1982


Steve McCurry, Beirut (Libano), 1982
Steve McCurry, Beirut (Libano), 1982


La mostra termina all’ultimo piano della Torre con la sezione riservata alle Icons, le immagini che hanno reso celebre Steve McCurry: su tutte spicca la Ragazza afghana del 1984. Sul perché della scelta di concludere il percorso con questa veloce rassegna invece che proporre altre fotografie in tema calcio (o invece che chiudere direttamente la mostra) ci si può certo interrogare, ma resta indubbio il fatto che Football and Icons sia una mostra che riesca a esprimere il meglio dell’arte di Steve McCurry raccontandolo attraverso una scelta tematica precisa, che espone scatti celebri e foto inedite, e che consente al visitatore di uscire dalla Torre del Castello dei Vescovi di Luni con una panoramica allargata su quello che è (o che dovrebbe essere) il gioco del calcio, oltre che, ovviamente, sulla fotografia di Steve McCurry, che a Castelnuovo possiamo dunque conoscere sotto una lente originale e mai sperimentata in precedenza in una mostra.


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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