Cartier e Sandretto, Parigi e Torino: due modi di raccontare il presente dell'arte


Parigi inaugura la nuova Fondation Cartier di fronte al Louvre, Torino celebra i trent’anni della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Due mostre, due strategie, una più riuscita e l’altra meno, un dato di fatto: in questo momento storico sono soprattutto le fondazioni private a costruire la memoria e a documentare l’evoluzione dell’arte contemporanea. L’articolo di Federico Giannini.

Tappi che saltano, schizzano, volano in tutte le direzioni sopra e sotto le Alpi. Hanno festeggiato, i signori dell’arte contemporanea. Hanno tenuto in fresco le bottiglie più pregiate e le hanno fatte esplodere in quel momento dell’anno in cui le torme dei pellegrini, dei devoti, degli entusiasti, degli sfaccendati, degli occupati, dei forzati, degli arbitri, dei turisti dell’arte contemporanea si muovono tra Parigi e Torino per timbrare il cartellino all’avvio delle rispettive Art Week e soddisfare l’esigenza d’esserci. Parigi, s’apre la settimana di Art Basel: la Fondation Cartier festeggia l’apertura del suo nouveau lieu e dei nouveaux espaces progettati da Jean Nouvel. Detto così, come la Fondation Cartier l’ha scritto sul comunicato stampa, sembra di parlare d’un capannone lontano venti fermate di metropolitana e venti minuti di taxi dalle to-do-list che i turisti s’appuntano sugli schermi dei loro telefoni, nascosto in un qualche arrondissement col numero alto dove la città comincia a diventare periferia. Invece il nouveau lieu è un palazzone hausmanniano che sta di fronte al Louvre, che non è un eufemismo per dire che è a poca distanza: dall’ingresso del Louvre s’attraversa la strada, s’entra alla Fondation Cartier e si passeggia dove fino a sei anni fa c’era il Louvre des Antiquaires. Torino, s’apre la settimana di Artissima: la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo celebra i suoi primi trent’anni d’attività lustrando i gioielli della sua collezione e sistemandoli dentro una grande mostra su due sedi (una è quella storica di via Modane, l’altra è il Museo dell’Automobile) cui è stato dato, non senza una punta d’esibito orgoglio, il titolo di News from the near future.

La convergenza è interessante: intanto, perché se qualcuno coltivava ancora qualche dubbio su quella “inarrestabile ascesa dei musei privati” che Georgina Adam ha messo nel titolo d’un suo libro di quattro anni fa, gli si potrà rispondere che ormai non si può più neppure parlare d’ascesa ma d’incontrovertibile dato di fatto, dal momento che, tolte alcune luminose pubbliche eccezioni, è in queste sedi che l’arte contemporanea ha non soltanto lo spazio per sperimentare, esplorare, approfondire, tentare, divertire, divertirsi, incuriosire, sbagliare, ma adesso ha anche la possibilità di vedere il formarsi d’un orizzonte storico contando esclusivamente sul lavoro dei privati, dacché son stati i privati a fare, negli ultimi trenta-quarant’anni, quello che il pubblico spesso non ha fatto (e che non poteva fare, se si pensa che, quando s’è costituita la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, l’unico museo italiano totalmente votato al contemporaneo era il Castello di Rivoli). Poi perché Cartier e Sandretto festeggiano con due mostre che fanno la stessa cosa: riattraversare daccapo tutta la storia delle rispettive raccolte. E poi perché di strategie collezionistiche si parla meglio se di mezzo c’è un compleanno o se l’anniversario tondo l’hai già superato e quest’anno ti tocca stupire il mondo col tuo nuovo bâtiment.

Cartier ha un bilancio che è tre-quattro volte più consistente rispetto a quello della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, ha nove anni d’esistenza in più, agisce anche all’estero e deve spartirsi le attenzioni del pubblico con Vuitton, Pinault, Pernod Ricard, ma si trova nella città più visitata del mondo quindi in place du Palais-Royal la gente fa lo stesso la coda per poi disperdersi dentro gli ottomila e cinquecento metri quadri di spazî accessibili al pubblico (due terzi dei quali riservati alle esposizioni) per vedere se è vero che “l’architettura si muove come dispositivo scenografico al servizio del largo spettro delle arti visuali, della fotografia, del cinema, dei mestieri dell’arte, della performance, dello spettacolo dal vivo e della scienza”. E di solito non ha niente in contrario.

Fondation Cartier
Fondation Cartier, mostra Exposition Générale. Foto: Federico Giannini
Fondation Cartier
Fondation Cartier, mostra Exposition Générale. Foto: Marc Domage
Fondation Cartier
Fondation Cartier, mostra Exposition Générale. Foto: Federico Giannini
Fondation Cartier
Fondation Cartier, mostra Exposition Générale. Foto: Federico Giannini

Quarant’anni di Fondation Cartier vogliono dire, sostanzialmente, quarant’anni d’arte contemporanea africana, asiatica, sudamericana, di tutti i continenti, e l’Exposition Générale, la mostra (molto italiana, peraltro: la curatrice, assieme a Béatrice Grenier, è Grazia Quaroni, direttrice generale delle collezioni della Fondation, e gli allestimenti sono di Formafantasma) con cui la fondazione riempie per la prima volta il nuovo spazio, parte subito alta proponendosi come una “nuova cartografia della creazione contemporanea”, una “cartografia alternativa” divisa in quattro momenti, in quattro movimenti centrifughi, dove Bill Viola è esposto vicino alle reinterpretazioni delle ceramiche tradizionali del Brasile sud-orientale, dove la Cattedrale di Mendini convive con il plastico che immagina una Kinshasa che pare uscita da un cartone dei Pronipoti, dove non fai in tempo a finire d’acculturarti sulle ceramiche dei pueblos nativi americani che ti salta subito fuori un Cherry blossom di Damien Hirst. L’allegro, programmatico, innocuo caos che ne risulta (posto che oggi è alla moda allestire mostre che non hanno un inizio e una fine ma hanno solo uno sviluppo, solitamente palindromo, meglio se confusionario e composto di parti separabili e sovrapponibili) è conseguenza deliberata di una pratica collezionistica ed espositiva che, va detto, era già orientata antropologicamente in tempi lontani da qualunque sospetto, ma che comunque, lungo i suoi quarant’anni di storia, non ha potuto evitare i riscontri di chi ha notato che alle volte il racconto della complessità finisce per essere assorbito da uno sguardo inevitabilmente estetizzante (che è precisamente quello che accade se ti capita d’appendere i disegni delle comunità autoctone della foresta del Gran Chaco di fronte a un enorme frottage di Penone, oppure se l’artista che vuole raccontare le pratiche sciamaniche degli yanomami dell’Amazzonia ha studiato dagli artisti più pagati dell’Occidente e ha fatto residenze nei musei più famosi dell’Occidente), che peraltro tende a essere assecondato dagli apparati scenografici. Per cercar di capire come sia possibile evitare d’offrire una qualunque impressione d’inconsapevole neocolonialismo toccherà aspettare le prossime puntate.

Di là dal Frejus, la mostra della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, pur nelle sue dimensioni contenute, pur senza edifici nuovi, men che meno in fronte ai musei più visitati del mondo, appare più riuscita e più ordinata non tanto perché meno ambiziosa (se la Fondation Cartier mira a proporre una cartografia alternativa, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo muove, a nome degli artisti, la rivendicazione d’un ruolo nell’affrontare “i nodi e le istanze del presente, proponendo letture critiche e nuove interpretazioni della società”) o perché dalle dimensioni più contenute (e se ti poni obiettivi di larga portata è ovviamente più facile sbagliare se hai meno materiale a disposizione), ma perché più coerente e, per effetto d’un apparente paradosso, più rappresentativa di quel ch’è accaduto negli ultimi trent’anni d’arte contemporanea, poiché laddove Cartier ha sempre privilegiato l’universalità estetica, ha seguito un’idea dell’arte intesa in senso globale e planetario e ha costruito la propria raccolta, per suo statuto, anche come archivio delle mostre e delle commissioni, con una logica enciclopedica rivendicata pure nelle intenzioni di questa Exposition Générale, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo ha invece seguito in maniera più stretta gli orientamenti dell’arte contemporanea internazionale costruendo una raccolta in tempo reale e partendo in un momento in cui l’arte contemporanea alle nostre latitudini cambiava modi e linguaggi.

Il riflesso di questa politica di costruzione d’una collezione marcata da una forte temporalità sincronica, e ch’è forse la più rappresentativa in Italia del periodo che va dall’inizio degli anni Novanta a oggi, si coglie nel percorso d’una mostra che s’apre ai visitatori, per continuare col paragone cartografico, come fosse, un poco più modestamente e senza pretese di riscriver le fondamenta di tutta una disciplina, una specie d’atlante dell’arte italiana e occidentale, un atlante che adesso, dopo trent’anni di lavoro, è in grado di documentare la trasformazione dei linguaggi, delle pratiche, dei mezzi espressivi, dei temi che abbiamo imparato a conoscere lungo tre decennî di presente continuo ch’è diventato storia e che si presenta ai visitatori come una storia dell’arte, certamente vista dalla prospettiva d’una collezionista, certamente parziale, certamente posizionata lungo le coordinate d’un pensiero molto marcato in senso politico-sociale (nei pannelli in sala non mancano neppure le schwa d’ordinanza), eppure costruita secondo una linea ormai chiara, riconoscibile, continua, coerente, solida.

Fondazione Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, mostra News from the near future. Foto: Federico Giannini
Fondazione Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, mostra News from the near future, sede di via Modane. Foto: Federico Giannini
Fondazione Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, mostra News from the near future. Foto: Federico Giannini
Fondazione Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, mostra News from the near future, sede di via Modane. Foto: Federico Giannini
Fondazione Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, mostra News from the near future. Foto: Museo dell'Automobile
Fondazione Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, mostra News from the near future, Museo dell’Automobile. Foto: Museo dell’Automobile
Fondazione Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, mostra News from the near future. Foto: Federico Giannini
Fondazione Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, mostra News from the near future, Museo dell’Automobile. Foto: Federico Giannini

Corpo, identità, memoria, futuro. Son queste le quattro direttrici che la mostra, nel perimetro di quel pensiero cui s’è accennato, adopera per decifrare il presente. Rappresentazione del corpo nelle sue tensioni interiori, siano fisiche e psicologiche, con le sue inquietudini o anche attraverso la sua assenza, e al Museo dell’Automobile nelle sue declinazioni dagli anni Novanta a oggi e con una coda legata alla sua smaterializzazione nell’epoca digitale. Identità da intendersi essenzialmente come attrito tra l’individuo (nella sede di via Modane l’esplorazione del sé passa, per esempio, attraverso lo scoiattolo di Cattelan e l’autoritratto di Stingel) e la collettività (suonano sinistre le svastiche del Führerhauptquartier di Oehlen, opera del 1982, e porta su di sé tutti gli orrori del mondo il Cyber Iconic Man dei fratelli Chapman, sorta di martire squartato e appeso a testa in giù a perder sangue dentro una tinozza: fa parte della sezione sul corpo, ma starebbe bene ovunque). Futuro come scenario possibile, talvolta come spazio di rivendicazione e d’affermazione (in questo senso da leggere la grande scultura di Simone Leigh che campeggia al centro dell’ultima sala della sezione alla sede centrale, o l’eden erotico di Ambera Wellmann), talaltra come presenza confusa e fumosa nel senso letterale del termine (il paesaggio di nubi di Glenn Brown). Memoria, nella sezione al Museo dell’Automobile, da intendere come messa in scena d’un passato sul quale s’è fondato il presente che a sua volta verrà cancellato, distrutto, annullato (le rovine di Adrián Villar Rojas, le grandi campane al centro della sala, che paiono materia per archeologi, sono invece rimasugli, cascami, reperti d’un futuro post-apocalittico). Chiusura con un notturno gonfio di silenzio, le presenze spettrali di Pol Taburet a incombere sul visitatore al pari del concerto country di Ragnar Kjartansson sulle montagne rocciose per indurlo a domandarsi il senso di tutto quello che ha visto sin qui, sempre che gli venga voglia d’ascoltare. O quanto meno d’accorgersi che il suo presente è già passato prossimo e che quel near future del titolo è, in realtà, il titolo d’una videoinstallazione di vent’anni fa.

Quello che brulicava di futuro adesso è già storia. Singolare, poetica contraddizione d’una mostra che ragiona sul futuro dopo averlo presentato come un materiale da esposizione, che s’interroga sul presente guardando indietro e che forse è l’epitome più efficace della nostra condizione, dell’esistenza di chi vive dentro un presente ch’è diventato permanente, un paesaggio dove l’orizzonte, se c’è, è lontano e coperto, un flusso continuo e globale che si auto-alimenta, che si auto-annienta e che si auto-documenta, che ha inglobato il futuro e ha rovesciato le cronologie. Sopra e sotto le Alpi non esistono cronologie e il presente è simultaneità di presenze, coesistenza di strati temporali e culturali, archivio vivo, esperienza osservabile alla velocità delle fondazioni private che hanno consolidato e, in certo modo, anche canonizzato l’arte contemporanea con mezzi ed energie che non erano neppure immaginabili fino a pochi anni fa. Cartografie e atlanti. Enciclopedie globali e archivi visivi e affettivi. Dialoghi transculturali e dialoghi transgenerazionali. Sopra e sotto le Alpi il tempo è fluido e il cielo, per qualche motivo, ha deciso di non cambiare colore.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).




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