La figura di Daniel Buren (Boulogne-Billancourt, 1938) emerge nel panorama contemporaneo con un’autorevolezza che trascende il semplice riconoscimento storico per incarnare una pratica artistica che continua a rinnovare il proprio linguaggio dopo oltre cinquant’anni di ricerca. Figura chiave dell’arte concettuale dagli anni Sessanta, fin dagli esordi ha impostato la sua prassi come un processo continuo di riconfigurazione dello spazio attraverso un linguaggio capace di coniugare in una dimensione architettonica e immersiva una stringente coerenza logica e visiva con un’inesauribile potenzialità generativa. Il suo approccio è guidato da un’acutissima sensibilità verso gli elementi costitutivi dello spazio urbano, architettonico e naturale, che vengono decifrati, riletti e rielaborati dal suo intervento in chiave geometrica. Le simmetrie e le opposizioni, le alternanze cromatiche, il gioco tra fuori e dentro, la relazione tra luce naturale e artificiale, la trasparenza e la riflessione sono i principali materiali concettuali con cui l’artista costruisce le sue opere, sempre concepite come un continuum visivo rispetto all’ambiente che le accoglie. Gli elementi geometrici proiettati o sovrapposti alle pareti di interni o esterni si trasformano, dunque, in porte o finestre immaginarie che aprono visioni inedite dello spazio architettonico, oppure in diaframmi che segmentano quello stesso spazio in modo illusionistico, sovrascrivendosi a esso al punto da stravolgerne i connotati. Anche l’uso dell’acqua e degli specchi, introdotti nel suo vocabolario espressivo nei primi anni Settanta, ricoprono un ruolo significativo nell’amplificare questa dimensione trasformativa, generando ulteriori moltiplicazioni di prospettive che destabilizzano lo sguardo proponendo, a seconda dei punti di vista, differenti sfaccettature di uno spazio approcciato come materia plasmabile.
Nel corso di sei decenni, Buren ha consolidato un repertorio visivo in apparenza limitato, ma di straordinaria versatilità, radicando la sua prassi nell’utilizzo di un dispositivo percettivo divenuto poi la sua cifra stilistica: il motivo a strisce verticali alternate bianche e colorate, sempre larghe esattamente 8,7 centimetri, derivate da un tessuto industriale che Buren scoprì per caso in un mercato parigino nel 1965. Quella che costituì per l’artista una vera e propria “epifania” (alla quale seguì, nel 1967, l’abbandono definitivo dello studio per privilegiare interventi ambientali, afferenti nel medesimo tempo alla pittura, alla scultura e all’architettura) rappresenta non tanto un marchio distintivo, quanto uno strumento metodologico (nelle sue parole outil visuel), che gli permette di interrogare le condizioni di visibilità e di esistenza dell’opera d’arte. Questo dispositivo visivo di rigorosa semplicità, in un primo momento adottato come estremo approdo di una ricerca sul grado zero della pittura, è diventato in seguito il veicolo attraverso cui l’artista orienta l’attenzione dell’osservatore dall’opera in sé all’intero ambiente fisico e sociale in cui essa si inserisce. In tale spostamento e nell’efficacia delle sue installazioni nel rivelare aspetti inediti degli spazi in cui sono collocate, emerge in modo sottile ma efficace la dimensione politica sottesa all’intera opera di Buren, che in più occasioni ha dichiarato che “l’arte è sempre fortemente politica, anche quando non lo vedi”. I suoi interventi nello spazio pubblico, infatti, non si propongono di veicolare messaggi espliciti, ma di riconfigurare la percezione e l’esperienza dei luoghi, invitando l’osservatore a una presa di coscienza critica del proprio rapporto con l’ambiente circostante. È testimonianza esemplare del potenziale sovversivo di quest’arte “interventista” rispetto al reale e tutt’altro che trincerata dietro ai canoni concettuali di solito connessi all’astrattismo geometrico, la controversia suscitata nel 1986 dall’installazione nel cortile d’onore di Palais-Royal a Parigi di Les Deux Plateaux. L’opera, composta da 260 colonne ottagonali a strisce verticali bianche e nere, identiche tranne che per l’altezza, oggi uno dei monumenti più iconici della capitale francese, prima di essere riconosciuta come un capolavoro dell’arte pubblica rischiò lo smantellamento per il suo carattere eretico rispetto alle convenzioni urbanistiche consolidate, per essere in ultima istanza riabilitata in virtù del gradimento manifestato dai cittadini, che iniziarono fin da subito ad abitare quel luogo in precedenza ignorato.
Se da queste premesse appare chiaro che Buren, una volta messo a punto il focus della sua ricerca, non è più stato interessato alla creazione di oggetti autonomi ma alla produzione di esperienze, appare altrettanto palese che sintetizzare il suo universo creativo in una mostra che contempli sia gli aspetti diacronici sia quelli di contesto rappresenta una sfida non di poco conto. E proprio a questa sfida risponde Fondazione Pistoia Musei con la mostra DANIEL BUREN. Fare, Disfare, Rifare. Lavori in situ e situati 1968-2025, allestita presso Palazzo Buontalenti a Pistoia e co-curata dall’artista stesso e da Monica Preti, direttrice della fondazione. Il percorso espositivo, articolato nelle sale del palazzo cinquecentesco, nel cortile centrale e in due interventi site-specific in città, attraverso un dialogo serrato tra opere storiche e lavori recenti, molti dei quali creati o ricreati per l’occasione, si propone di ripercorrere la carriera e la progettualità dell’artista. L’intento della mostra è documentare la sua capacità di trasformare in modo radicale i luoghi senza prevaricarli e di indagare il suo rapporto privilegiato con la Toscana, regione che vanta un numero significativo di sue opere permanenti.
Il titolo della mostra individua l’essenza dell’approccio di Buren nell’intersezione tra il gesto del fare, quello del disfare e quello del rifare, conseguenza del suo sistematico interrogarsi sul connubio indissolubile dell’opera con lo spazio mediante un processo sempre in atto, in cui l’azione dell’artista è incessantemente rinnovata dallo sguardo dello spettatore, anch’esso in simbiosi con l’ambiente. Le opere in mostra, e più in generale tutta la produzione dell’artista, si dividono (secondo la sua stessa definizione) in due tipologie: opere in situ, ovvero realizzate in strade, gallerie, musei, paesaggi ed edifici, basate sul contesto e non trasferibili altrove, e opere situate, idealmente trasportabili in altri luoghi. In entrambi i casi, tuttavia, l’opera non è mai un oggetto autosufficiente, ma esiste solo nella relazione che intrattiene con l’esterno. In un’interessante conversazione con Hans Ulrich Obrist per Art Basel 2021, Buren ha approfondito la prima nozione, da lui elaborata riflettendo su certi particolari elementi simili a cornici che nei giardini giapponesi inquadrano scenograficamente alcune porzioni di panorama, designati nella lingua locale come “strumenti che prendono in prestito il paesaggio”. Su un’intuizione analoga si fonda il concetto dei lavori in situ dell’artista, che non vogliono appropriarsi dello spazio forzandolo in modo autoritario, ma solo prenderlo in prestito incorporandolo in un’opera impossibile da abbracciare con un solo sguardo, dove ciascuna delle diverse angolature visive possibili è parte di una composizione più ampia. Seguendo la stessa suggestione, anche la mostra a Palazzo Buontalenti, superate le prime sale dedicate alle opere pittoriche più datate (indispensabili per comprendere la genesi del suo linguaggio), può essere considerata una sorta di articolata opera in situ, dove è evidente la regia dell’artista nell’orchestrare, mimetizzare, rileggere o reinterpretare gli spazi in base alle loro caratteristiche architettoniche.
L’incipit della mostra è dedicato, dunque, alla ricerca pittorica della metà degli anni Sessanta, rappresentata da una selezione di grandi dipinti su tela di cotone e collage in cui l’artista, abbandonata del tutto l’arte figurativa praticata in precedenza, ricercava combinazioni sempre più essenziali di forme. Alcune opere sono realizzate utilizzando lenzuola, sulle quali compaiono motivi a strisce applicati al fondo con il nastro adesivo, un’anticipazione della scelta dei tessuti industriali a bande verticali che sarebbero comparsi di lì a poco. Queste prime prove sono emozionanti nel rivelare la tensione dell’artista tra l’aspirazione alla purezza geometrica (già preponderante) e il retaggio organico della sua pittura, rilevabile nelle velature rese imperfette da colature e irregolarità superficiali, nelle intonazioni cromatiche di matrice biologica e nella predominanza della forma curva. Nella sala successiva il rapporto si inverte: inizia a dominare il suo inconfondibile motivo a strisce, a tratti sovrascritto o interrotto da forme fluide che fanno da armonioso contrappunto alla rigorosa ortogonalità del pattern.
Si prosegue con un ambiente avvolgente, in cui le pareti della stanza sono bagnate da una luce soffusa trapelante da due tessuti a strisce resi traslucidi dall’illuminazione retrostante, uno a tonalità neutra, l’altro a dominante arancione. Questa installazione esemplifica alla perfezione come Buren utilizzi la luce come materiale scultoreo in grado di creare ambienti che coinvolgono lo spettatore in un’esperienza sensoriale totalizzante. Si passa poi nella corte interna di Palazzo Buontalenti, movimentata da due sistemi di loggia portico a doppio ordine di colonne con diametro decrescente. Qui trova posto una delle opere più significative presenti in mostra, Découpé / Étiré (1985-2025), nata dal ripensamento di un lavoro realizzato per la galleria Tucci Russo. Si tratta di una struttura che si espande a fisarmonica nello spazio come un gioco prospettico, composta da una serie di portici incastrabili l’uno nell’altro, dal più grande al più piccolo, con alcuni profili rivestiti da superfici specchianti. L’installazione è emblematica di un approccio all’arte che fa della modularità e della ricontestualizzazione i suoi principi operativi: una volta tagliato in pezzi, il piano unico teorico formato dalla serie di portici può dispiegarsi ed estendersi in innumerevoli variazioni, in un processo potenzialmente infinito di ricombinazione. Il percorso prosegue con una sala dedicata ai numerosi disegni progettuali dell’artista per opere pubbliche realizzate in Italia (molte delle quali in Toscana), come La Cabane èclatée aux quatre salles (2005) nel parco della Fattoria di Celle, il Padiglione di Emodialisi dell’Ospedale di Pistoia, Concave / Convexe: deaux places en une avec fontaine (2011) in Piazza Arnolfo a Colle di Val d’Elsa e Muri Fontane a tre colori per un esagono a Villa Medicea La Magia a Quarrata. Si arriva poi a una delle installazioni più spettacolari della mostra, Arlecchino all’infinito (2003-2025), un ambiente immersivo fatto di colonne di legno sovrastate da un soffitto di pannelli quadrati di diverso colore, dalla cui trasparenza si intravede come sottotraccia il motivo delle strisce. In questo labirinto ordinato di strutture verticali, moltiplicate dall’inserzione di specchi, la luce filtra dall’alto espandendosi nello spazio sottostante e creando un suggestivo e disorientante effetto caleidoscopico.
In questa dialettica tra la staticità di una forma standardizzata dall’impianto geometrico e il dinamismo innescato dalla luce si realizza quella che potremmo definire la strategia di sovversione percettiva dell’artista, dove l’apparente semplicità dell’apparato riesce a catalizzare una complessa riorganizzazione dello sguardo. La visita si conclude con una sala dedicata a tre altorilievi della serie Prismes et miroirs (2022), composizioni di pannelli angolari aggettanti da fondi a specchio ritmate da strisce, rispettivamente nere, rosa e blu alternate al canonico bianco. L’effetto complessivo è quello di uno spazio dinamico che sembra piegarsi e distendersi, invitando lo spettatore a muoversi all’interno della sala per sperimentare le diverse prospettive e le mutevoli relazioni tra i colori, le forme e i riflessi negli specchi.
Questa concezione relazionale dell’opera d’arte trova la sua più compiuta espressione negli interventi al di fuori del perimetro museale, come la Facciata ai venti (2025), lavoro in situ realizzato sulla facciata dell’Antico Palazzo dei Vescovi in piazza del Duomo, dove le bande nere e bianche verticali stampate sulle schermature delle finestre dialogano con le strisce romaniche orizzontali bicromatiche in marmo dell’adiacente Cattedrale e del Battistero. Altrettanto significativo nel suo minimalismo è l’intervento Dalla terrazza alla strada: livello (1979-2025), una striscia di bande di carta bianche e nere che, adattandosi alla parete tra Palazzo de’ Rossi e lo Sdrucciolo del Castellare, interagisce con le geometrie urbane evocando gli Affichages sauvages realizzati dall’artista nelle strade di Parigi alla fine degli anni Sessanta. L’opera richiama quella critica radicale alle istituzioni artistiche che caratterizzò gli esordi di Buren, quando l’abbandono dello studio in favore dell’intervento diretto nello spazio pubblico rappresentava una presa di posizione politica oltre che estetica. Come in quelle azioni performative, anche qui il dispositivo delle strisce, lungi dall’essere la mera ripetizione di uno schema, si rivela come un meccanismo generativo capace di adattarsi e dialogare con qualsiasi contesto: non dunque un segno imposto allo spazio, ma un elemento che ne rivela le caratteristiche intrinseche, inglobandole nella visione artistica.
Ciò che emerge con forza dall’intero percorso espositivo è la coerenza del modus operandi dell’artista, concretizzato in un sistema evolutivo e adattabile che, pur nella stringente coerenza del metodo, riesce sempre a modificarsi in funzione delle specificità ambientali. Le sue opere, anziché porsi come imposizioni autoritarie, si offrono come proposte di rilettura degli spazi che invitano il visitatore a partecipare in modo attivo al processo di risignificazione. L’omogeneità visiva delle intramontabili bande verticali costituisce dunque il presupposto per far emergere l’eterogeneità dei contesti, in un processo di rilevamento di ciò che altrimenti rimarrebbe invisibile. Alla luce di queste considerazioni, la mostra pistoiese si configura non tanto come una retrospettiva tradizionale, quanto come un’opportunità di ripensamento dell’intero percorso dell’artista francese attraverso la lente del presente. Il riuscito incontro tra opere storiche e recenti, lavori situati e in situ, interno ed esterno del museo in un unico mondo astratto abitabile innesca un gioco di rimandi che trascende la cronologia per proporre una lettura sincronica della pratica di un artista la cui ricerca continua a essere un punto di riferimento imprescindibile per riflettere sul rapporto tra arte, architettura e spazio pubblico.