La Madonna delle Arpie di Andrea del Sarto: simboli e teologia dietro i mostri


Un viaggio dentro una delle opere più enigmatiche del Rinascimento fiorentino, la Madonna delle Arpie di Andrea del Sarto, dove non ci sono arpie ma potrebbe esserci una raffigurazione dell’Immacolata Concezione: tra teologia, iconografia e tensione spirituale, la Madonna delle Arpie rivela un programma complesso che va ben oltre la sua apparente armonia.

Dobbiamo a Giorgio Vasari il titolo con cui è noto uno dei massimi capolavori di Andrea del Sarto (Andrea d’Agnolo; Firenze, 1486 – 1530), la Madonna delle arpie, una tavola alta più di due metri ch’è conservata agli Uffizi e ch’è messa in apertura del percorso tra le sale del Cinquecento fiorentino. Si chiama così perché Vasari interpretava come arpie le figure che ornano il piedistallo su cui si leva la Vergine che tiene in braccio il Bambino. È una composizione apparentemente immediata, che ci appare dietro quella patina di facilità, di spontaneità, di equilibrio ch’era valsa ad Andrea del Sarto il soprannome di “pittore senza errori”, perché nelle sue tele tutto è controllato, tutto è rigoroso, tutto è misurato. E non per niente sarebbe diventato un modello per tutta la generazione successiva: nel Cinquecento, a Firenze, tutti i pittori guardavano ad Andrea del Sarto, cercavano di copiarlo, d’imitarlo, d’ispirarsi ai suoi schemi compositivi. E a sua volta, Andrea del Sarto guardava agli schemi piramidali di Leonardo e soprattutto di Raffaello, cercando però una strada personale fatta di toni morbidi, di luci avvolgenti, di panneggi pesanti che dànno quasi l’impressione d’essere materici, d’un intellettualismo che s’esprime soprattutto nell’intimità e nella profondità degli sguardi, dei gesti, nell’assenza di trionfalismi, nell’umanità dei suoi personaggi.

Vediamo tutti questi elementi anche nella Madonna delle Arpie, che ci sorprende anche perché Andrea del Sarto riesce a trasmettere al riguardante tutta la profondità della sua arte con una sorprendente economia di mezzi. Una facilità soltanto apparente, perché sotto questa superficie così equilibrata si cela tutta la lezione dei tre più grandi artisti del Rinascimento fiorentino: lo schema compositivo di Raffaello, la monumentalità delle figure di Michelangelo, i toni morbidi e sfumati di Leonardo da Vinci. La Madonna è in piedi sopra al plinto con le arpie, dove leggiamo anche la firma del pittore, con data e dedica che celebra l’Assunzione della Vergine (“Andr. Sar. Flo. Fac. / ad summu regina tronu defertur in altum M.D.XVII”, che potremmo tradurre sommariamente come “dipinto da Andrea del Sarto, fiorentino / la Regina verrà assunta al trono più alto / 1517”), e tiene tra le mani il Bambino, che s’aggrappa a lei in una posa un poco precaria, mentre ai lati san Francesco e san Giovanni evangelista c’invitano con lo sguardo a prender parte a quest’apparizione, e ai piedi della Vergine due putti, uno dei quali con le ali spiegate, stanno abbracciando Maria per le gambe. Vasari spende parole d’elogio per questa tavola: “Ha questa Madonna, da man ritta, un San Francesco molto ben fatto, nella testa del quale si conosce la bontà e semplicità che fu veramente in quel santo uomo; oltre ciò sono i piedi bellissimi, e così i panni, perché Andrea con un girar di pieghe molto ricco e con alcune ammaccature dolci sempre contornava le figure in modo che si vedeva l’ignudo; a man destra ha un San Giovanni Evangelista, finto giovane et in atto di scrivere l’Evangelio, in molto bella maniera; si vede, oltre ciò, in questa opera un fumo di nuvoli trasparenti sopra il casamento e le figure che pare che si muovino. La quale opera è tenuta oggi fra le cose d’Andrea di singolare e veramente rara bellezza”.

Andrea del Sarto, Madonna delle Arpie (1515-1517; olio su tavola, 207 x 178 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, inv. 1890 n. 1577)
Andrea del Sarto, Madonna delle Arpie (1515-1517; olio su tavola, 207 x 178 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, inv. 1890 n. 1577)

Era il 14 maggio del 1515 quando le suore del convento di San Francesco de’ Macci a Firenze commissionavano il dipinto ad Andrea del Sarto: gli avevano chiesto un dipinto piuttosto convenzionale, una Madonna col Bambino incoronata da due angeli con, ai lati, le figure di san Bonaventura e san Giovanni. Andrea impiegò due anni per completare il lavoro, e come si può ben vedere non si attenne alle indicazioni. Non sappiamo perché l’artista decise di cambiare in corsa la figura di san Bonaventura con quella di san Francesco e di non dipingere i due angeli che incoronano la Vergine, cambiandoli con i due putti attorno al basamento, che non erano previsti dal contratto. Ora, c’è da dire che le modifiche in corso d’opera rispetto a quanto pattuito da contratto erano magari non la prassi, ma comunque qualcosa di molto usuale a quel tempo. Per la Madonna delle Arpie però è diverso. Ci sono, intanto, alcuni dettagli curiosi: gli angioletti ai piedi della Vergine sembrano quasi spaventati, sembra che si stiano nascondendo dietro le sue gambe. E lei, con la mano sinistra, sta reggendo un libro, che tiene appoggiato al ginocchio. E poi, sta guardando verso il basso, non è la Vergine che punta gli occhi davanti a sé o che osserva con tenerezza il Bambino, come facevano la più parte delle Madonne di Raffaello (la Madonna Sistina, per esempio, che rivolge lo sguardo verso di noi, o la Madonna del Baldacchino, dove gli occhi di Maria sono tutti per suo figlio). E anche il Bambino sembra quasi ritrarsi, mentre i santi, invece, non soltanto appaiono imperturbabili: ci stanno invitando a osservare con attenzione la scena. Infine, rispetto al contratto Andrea del Sarto cambia lo stesso soggetto del dipinto, che non è più una Vergine incoronata.

Per comprendere il perché di queste modifiche e di questi atteggiamenti occorre passare anche dalle arpie, che rispondono a un preciso programma iconografico. Certo, non sappiamo esattamente quale fosse il programma, e gli studiosi si sono prodotti in letture spesso contrastanti, ma è evidente che qualcuno deve aver istruito l’artista su cosa dipingere: va ricordato che all’epoca gli artisti collaboravano strettamente con letterati, teologi, religiosi, umanisti cui spettava il compito di mettere a punto la base teorica, per così dire, di un dipinto o di un ciclo di pitture, e agli artisti quello di tradurla per immagini (e non è detto che gli artisti non partecipassero alle discussioni sul significato di quello che avrebbero dipinto o scolpito). È probabile, secondo gli studi di Antonio Natali, che a dettare i cambiamenti sia stato un teologo francescano, Antonio di Ludovico Sassolini, seguace di Savonarola, guardiano del convento di Santa Croce a più riprese tra il 1503 e il 1515 e poi ministro dei conventuali della Provincia Toscana, e ancora, a partire dal 1519, generale dell’ordine. È interessante sapere che all’epoca il convento di San Francesco de’ Macci dipendeva da quello di Santa Croce, quindi non sarebbe strano che il dipinto sia stato modificato in corso d’opera per interessamento del guardiano di Santa Croce. Oltretutto, Vasari, nella sua Vita di Andrea del Sarto, scrive che l’opera venne fatta “a un frate di Santa Croce dell’Ordine minore, il quale era governatore allora delle monache di San Francesco in via Pentolini e si dilettava molto della pittura”.

Le arpie
Le arpie
La Vergine col Bambino e il fumo alle loro spalle
La Vergine col Bambino e il fumo alle loro spalle

Identificata la probabile “mente” dietro il dipinto di Andrea del Sarto, occorre domandarsi che cosa questa mente volesse dire alle suore del convento. L’interpretazione ch’è stata più citata e discussa negli ultimi tempi è, ancora, quella di Natali, che fin dal 1984 ha voluto vedere nella Madonna delle Arpie un riferimento all’Apocalisse di san Giovanni, in particolare al IX capitolo, dove si parla delle locuste dell’abisso: mostruose cavallette che avevano l’aspetto di cavalli da guerra, corone d’oro sul capo, testa dalle sembianze umane, capelli di donne, denti di leoni, addomi simili a corazze di ferro, code di scorpione dotate di aculei, ali in grado di frastornare con un rombo simile a quello di carri trainati da cavalli lanciati all’assalto. Nell’Apocalisse vengono evocate dal suono della tromba di un angelo e fuoriescono da un pozzo che emette fumo simile a quello di una fornace: è dal fumo che le cavallette escono e cominciano a devastare la terra. L’aspetto delle arpie di Andrea del Sarto sembrerebbe dunque corrispondere a quello delle locuste dell’Apocalisse: hanno zampe equine, addome corazzato, volto umano, grosse ali, il capo inghirlandato. A questo punto, il dipinto insisterebbe sul ruolo salvifico della Vergine, che in questo dipinto è la donna destinata a schiacciare coi suoi piedi il maligno (ed è forse per questa ragione che si trova sui piedi del plinto, che potrebbe alludere al pozzo da cui fuoriescono le locuste: i due putti, dunque, la stanno forse sistemando, magari con la forza e anche un po’ preoccupati, per farle chiudere la bocca dell’abisso). Anche la scritta sul basamento, “ad summu regina tronu defertur in altum”, deriva da un inno medievale dedicato all’Assunzione della Vergine, legato all’Apocalisse di Giovanni, e la presenza del santo è facilmente spiegata: è lui ad aver scritto delle locuste. Francesco, invece, non soltanto è il santo titolare della chiesa che avrebbe accolto il dipinto, ma sarebbe anche da identificare, secondo questa interpretazione, come l’angelo del sesto sigillo dell’Apocalisse, ovvero la creatura divina che avrebbe portato l’umanità alla salvezza: era stato peraltro lo stesso san Bonaventura, autore della Legenda maior, la prima biografia del santo di Assisi, a identificare san Francesco con l’angelo del sesto sigillo, con la creature destinata a imprimere il segno della croce, il Tau, sulla fronte degli esseri umani. A rafforzare questa lettura ci sarebbe anche l’elemento del fumo visibile alle spalle della Vergine, restituito da un restauro operato nel 1983 da Alfio Del Serra e notato anche da Vasari (“si vede […] in questa opera un fumo di nuvoli trasparenti sopra il basamento e le figure che pare che si muovino”).

Tutto risolto, dunque? Vasari si era sbagliato, e quelle che pensiamo siano arpie sono in realtà le locuste dell’Apocalisse? Non possiamo dirlo con certezza, perché ci sono alcuni elementi che non depongono a favore della versione di Natali. Gli esseri di Andrea del Sarto non rispondono con precisione a quelli dell’Apocalisse: mancano, per esempio, le code di scorpione e i denti di leone. Strano, se un artista avesse voluto rendere identificabili senza equivoci le sue creature. E poi, ci si potrebbe domandare perché Vasari, che poteva contare su informazioni di prima mano e vicine a lui nel tempo, abbia equivocato in maniera così plateale il soggetto. La storica dell’arte Simona Cohen ha poi fatto notare che mancherebbe qualsiasi precedente iconografico (il che, comunque, non sarebbe di per sé una prova contro l’interpretazione “apocalittica”, per così dire: Andrea del Sarto potrebbe aver inventato una nuova iconografia). Il Beatus dell’Escorial, il manoscritto spagnolo del X secolo con la riproduzione, illustrata, dell’Apocalisse (opera che per almeno tre secoli ha fornito una base iconografica per la raffigurazione delle scene del libro di Giovanni) rappresenta le locuste come esseri molto diversi rispetto a quelli di Andrea del Sarto: sono come dei grossi leoni col corpo di cavallo, i capelli da donna, la coda da scorpione, i denti digrignati, le ali spiegate. Secondo Cohen, ci sarebbero troppe differenze tra le figure di Andrea del Sarto, il testo biblico e gli unici esempi che la tradizione poteva fornire. E ci sarebbero poi delle somiglianze con altre creature mitologiche di cui si può trovar traccia nella storia dell’arte: sono infatti rappresentate a gambe aperte con i genitali bene in evidenza, come le sirene dell’arte medievale, creature associate al peccato e per tale ragione raffigurate in una posizione tanto sconveniente. E hanno alcuni tratti in comune con le arpie della mitologia greca (le grandi ali d’uccello, il volto di donna) ma anche con le sfingi (il corpo leonino, le ali spiegate). Il problema, però, è che questi esseri non sono né arpie, né sfingi, perché non possono essere precisamente identificabili con nessuna di queste creature, e non ci sono tradizioni iconografiche che potrebbero supportare la teoria delle locuste dell’Apocalisse. Per Simona Cohen, è invece probabile che il programma iconografico fosse legato a una celebrazione dell’Immacolata Concezione, concetto teologico che non di rado, nei dipinti del Rinascimento, era a sua volta legato a raffigurazioni di creature ibride o mostruose, metà animali e metà esseri umani, che gli artisti del Quattro e del Cinquecento vedevano raffigurate sui reperti classici, sui sarcofagi romani, sui frammenti dei fregi antichi, e per le quali si registrò al tempo un rinnovato interesse, anche in ragione dei possibili significati, solitamente negativi, che a queste creature potevano essere attribuiti. In questo senso, la raffigurazione di creature mostruose in una sacra conversazione quale può esser considerata la Madonna delle arpie non è certo un caso unico: è quasi contemporanea, del 1519, la Madonna col Bambino in trono tra i santi Pietro e Paolo di Francesco Bassano ch’è oggi conservata al Museo Civico di Bassano del Grappa (sulle colonne del baldacchino che accoglie il trono della Vergine troviamo capitelli con sfingi, che peraltro hanno delle curiose code che ricordano la coda di uno scorpione, mentre nel sottarco si vedono sirene e satiri), mentre nella Madonna col Bambino e santi di Giovanni Mansueti, disegno a inchiostro su carta di fine Quattrocento, si vede la scultura d’un satiro che decora il trono su cui siede Maria, e ancora delle sfingi ornano il trono della Madonna col Bambino e i santi Andrea e Pietro di Ludovico Mazzolino, dipinta nei primi anni del XVI secolo. Gli esempi, insomma, sono tanti. In certi casi, le sfingi potrebbero esser lette come simbolo di saggezza, allusione al trono della Vergine come sedes sapientiae. Ma altre figure, come le sirene di Francesco Bassano o il satiro di Giovanni Mansueti, potrebbero invece raffigurare le forze maligne che vengono sconfitte dalla Vergine, con una funzione simile a quella delle locuste dell’Apocalisse.

Le locuste secondo il Beatus dell'Escorial
Le locuste secondo il Beatus dell’Escorial
Francesco Bassano, Madonna in trono con il Bambino tra i Santi Paolo e Pietro (1519; olio su tela, 276 x 206,5 cm; Bassano del Grappa, Museo Civico, inv. 2)
Francesco Bassano, Madonna in trono con il Bambino tra i Santi Paolo e Pietro (1519; olio su tela, 276 x 206,5 cm; Bassano del Grappa, Museo Civico, inv. 2)
Ludovico Mazzolino, Madonna col Bambino in trono e santi Andrea e Pietro (1524-28 circa; olio su tavola, 278 x 172 cm; Cremona, Pinacoteca Ala Ponzone, Museo Civico)
Ludovico Mazzolino, Madonna col Bambino in trono e santi Andrea e Pietro (1524-28 circa; olio su tavola, 278 x 172 cm; Cremona, Pinacoteca Ala Ponzone, Museo Civico)

Rimarrebbe comunque in piedi un rapporto con il libro di Giovanni: del resto è lo stesso santo che, nel dipinto di Andrea del Sarto, lo tiene tra le mani. I francescani hanno un legame fortissimo con il tema dell’Immacolata Concezione (era stato, del resto, il teologo francescano Giovanni Duns Scoto a fissare la dottrina dell’Immacolata), e la figura della Donna dell’Apocalisse di Giovanni veniva interpretata come prova del fatto che la Vergine fosse stata concepita senza peccato nella mente di Dio. La purezza della Vergine, secondo la mentalità del tempo, era ritenuta modello fondamentale per i conventi femminili, e il suo concepimento nell’assenza del peccato originale la faceva non soltanto salvatrice dell’umanità ma anche, in certo modo, patrona delle donne che consacravano se stesse alla vita monastica (molte, certo, venivano costrette a farlo, ma purtroppo la coercizione non rilevava ai fini del discorso teologico). La Vergine di Andrea del Sarto sarebbe dunque l’Immacolata che vince il peccato, rappresentato dai mostruosi ibridi ai suoi piedi, e ulteriormente sottolineato dalla posizione delle gambe che ostentano i genitali, funzionale a mostrare in maniera inequivocabile la natura peccaminosa delle tentazioni, della seduzione.

Anche un altro studioso, Steven J. Cody, rimarca il fatto che le “arpie” di Andrea del Sarto non rispondono ad alcun precedente iconografico e sarebbero da leggere, semmai, come quegli strani esseri che ornavano le grottesche dei pittori rinascimentali e che alludevano spesso al peccato e alla sensualità: di qui anche la particolare insistenza sul pube e sul seno di queste strane creature. E anche Cody ragiona sulla possibilità che questo modo d’intendere il peccato fosse rivolto alle suore che vedevano questo dipinto nella chiesa del convento. “Andrea”, scrive Cody, “conosceva il suo pubblico. Le suore di San Francesco pregavano la Vergine e il Bambino mentre contemplavano questo dipinto: ecco perché lo contemplavano. Le suore si concentravano sull’immagine di Maria e Cristo mentre cercavano di comunicare spiritualmente con la vera Maria e il vero Cristo in cielo e, più immediatamente, nei loro cuori. Attraverso il mezzo della pittura, Andrea accresceva quel senso di comunione, quella sensazione di vicinanza”.

Rimarrebbe da interpretare la massa di fumo che sale alle spalle di Maria. John Shearman l’aveva inteso come fumo d’incenso, e se la lettura fosse corretta all’incenso spetterebbe la mediazione tra il cielo e la terra, dal momento che è il fumo d’incenso, nella tradizione religiosa, a portare le preghiere al cielo. Secondo Cody, il fumo potrebbe però alludere anche al concetto teologico dell’obumbratio come espresso nel Vangelo di Luca, dove si legge che l’arcangelo Gabriele, nell’annunciare a Maria il concepimento di Gesù, le dice che “lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra”. La nuvola di fumo potrebbe quindi essere la rappresentazione dello Spirito Santo che scende sulla Vergine coprendola con l’ombra di Dio. È, insomma, la presenza fisica dello Spirito Santo. Infine, la progettata presenza di san Bonaventura si spiegherebbe sulla base del suo Itinerarium mentis in Deum, opera teologica che si configura quasi come una guida mistica, una specie di manuale su come elevare l’anima delle cose terrene fino all’unione con Dio. E Andrea del Sarto potrebbe aver strutturato il dipinto per far compiere all’osservatore lo stesso percorso descritto da san Bonaventura, che invitava a guardare la bellezza del creato per intuire la bellezza di Dio: l’artista s’è dunque speso per catturare l’osservatore con la bellezza sensoriale (i colori brillanti, i panneggi realistici, la dolcezza dei volti: strumenti per coinvolgere i sensi delle monache e dare avvio all’ascesa), per catturare l’occhio e costringere poi a pensare, a passare dall’occhio alla mente, a meditare sul mistero dell’Incarnazione, a non guardare più soltanto con gli occhi, ma con la testa. E si potrebbe spiegare in questo senso anche la presenza della nube di fumo: poiché Dio è troppo grande per essere capito, l’eccesso di luce divina apparirà alla mente umana come oscurità. Come quando si fissa troppo a lungo il sole e poi non si riesce più a vedere niente. Ecco, la nuvola scura potrebbe rappresentare visivamente questo concetto: la luce divina talmente intensa da diventare ombra per l’occhio umano. L’ultima fase, poi, è l’estasi: secondo Cody, i colori vivi e la luce di Andrea del Sarto sarebbero stati progettati per consentire questo slancio estatico verso Dio. Un dipinto che in realtà, secondo questa lettura, sarebbe una macchina spirituale bonaventuriana.

Riesce difficile, insomma, stabilire quale lettura sia la più convincente. È probabile che altri studiosi continueranno a misurarsi con questo capolavoro, tra i più difficili del Cinquecento fiorentino, che dal 1704 è entrato a far parte delle collezioni medicee (è stata l’ultima pala d’altare che il gran principe Ferdinando decise di far togliere dalle chiese della Toscana per far confluire tutto nella propria collezione: in questo caso, la chiesa ne ebbe in cambio un restauro completo, diretto da uno dei più grandi artisti del tempo, Giovanni Battista Foggini). E in quanto parte delle antiche collezioni granducali, oggi tutti lo possono vedere agli Uffizi: è uno dei capisaldi della raccolta e uno dei dipinti che più affascinano le migliaia di visitatori che ogni anno vedono quello che un tempo era riservato soltanto alle suore di San Francesco de’ Macci.


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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