Il 27 settembre 2023, in occasione dell’asta di Millon tenutasi a Cremona, fece la sua comparsa un dipinto raffigurante due santi, un vescovo e il ritratto del committente: era l’unico frammento sopravvissuto della cosiddetta Pala Fodri di Boccaccio Boccaccino. Dell’opera oggi è noto anche il contratto con cui, il 18 aprile 1523, l’artista si impegnava a realizzare un’opera di dimensioni monumentali per conto di Antonio Maria Fodri che la voleva destinare alla cappella di famiglia nella chiesa di San Pietro al Po, nella città del Torrazzo. Il frammento, subito notificato dalla Soprintendenza, fu acquistato dalla Diocesi di Cremona e dopo un accurato restauro entrò a pieno titolo nelle collezioni del recente Museo Diocesano (allora nuovissimo, visto che è stato inaugurato nel 2021), già custode di altre tre opere di Boccaccino, cioè l’Annunciazione Boncompagni Ludovisi, la Crocifissione e la Sacra famiglia con Maria Maddalena. Sempre nel 2023, l’attenzione per questo pittore riprese con slancio: la Madonna col Bambino dei Musei Civici di Padova (1500-1501) fu esposta in una sala di Rinascimento a Ferrara. Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa a Palazzo dei Diamanti, mostra curata da Vittorio Sgarbi e Michele Danieli e nella seguente “puntata”, Il Cinquecento a Ferrara, si presentarono L’adorazione dei pastori di Napoli e la Madonna con bambino dalla collezione Cavallini Sgarbi. Nel maggio ’23 venne inaugurata a Brera la prima esposizione su Boccaccino, con la curatela di Maria Cristina Passoni: una mostra dossier che poneva in dialogo quattro suoi dipinti con altri quadri di scuola veneziana di inizio Cinquecento. Finalmente, quindi, si cominciarono a puntare i riflettori su un interprete raffinato, che venne definito da Luigi Lanzi, nella sua Storia pittorica della Italia pubblicata tra 1795 e 1796, “il miglior moderno fra gli antichi e il miglior antico fra’ moderni”.
Oggi, nelle sale del Museo Diocesano che sorge accanto alla Cattedrale di Cremona, nella quale Boccaccio Boccaccino lavorò come frescante, si svolge un percorso espositivo curato da Francesco Ceretti e Filippo Piazza che ripercorre la parabola dell’artista dai suoi esordi alla Pala Fodri, l’ultima opera dipinta prima della morte, avvenuta cinquecento anni fa, nel 1525. Strettamente monografica, la rassegna riunisce 17 dipinti, vale a dire la maggior parte del corpus di Boccaccino che in totale conta circa 30 opere mobili, stando alle attuali attribuzioni. Mancano invece la Pala di San Vincenzo, il San Girolamo (1506-1507) e gli otto affreschi staccati di provenienza sconosciuta con teste di apostoli e angeli conservati nel Museo Civico Ala Ponzone di Cremona: come spiegano i curatori in catalogo, le prime due opere versano in condizioni conservative assai precarie e la loro movimentazione non è stata possibile.
L’allestimento della mostra, basato su un criterio cronologico, consente di seguire passo passo le vicende biografiche del pittore: Boccaccino vide la luce tra 1462 e 1466 probabilmente a Ferrara, alla cui corte estense il padre, cremonese, era magister “acupittore”, cioè ricamatore. Una professione nient’affatto marginale, se si considera che il valore monetario dei tessuti di pregio era un tempo assai elevato, come hanno reso noto al grande pubblico le ricerche di taglio economico condotte in occasione di La fabbrica del Rinascimento (a cura di Guido Beltramini, Davide Gasparotto e Mattia Vinco, Vicenza, Basilica Palladiana, 2021). Non stupisce quindi che, presi in mano pennelli e tavolozza, l’artista sia riuscito a sviluppare un’abilità notevole nella resa delle stoffe pregiate e decorate, come testimoniano sia i drappi d’onore su cui si stagliano le sue Madonne sia le vesti e le bordure indossate dai suoi personaggi e che tanto devono al soggiorno di Boccaccino a Venezia dove – ieri come oggi, e basti citare la prestigiosa Tessitura Luigi Bevilacqua, attiva dal 1499 – le manifatture producevano velluti, broccati, damaschi, rasi di seta ambitissimi.
Nel 1493 il pittore è documentato a Genova dove realizza una Maestà, mantenendo tuttavia sempre uno stretto rapporto con la città paterna e lo dimostra una Madonna con Bambino oggi perduta ma firmata “Bocacinus cremo[nen]sis 149[.]”. Negli anni Novanta il giovane artista viaggiò tra l’Emilia e Milano, guardando a Ercole de’ Roberti, Lorenzo Costa e Francesco Francia da un lato e a Giovanni Boltraffio e al Bramantino dall’altro. La scarsità di notizie sicure sui primi anni di attività di Boccaccio Boccaccino si interrompe nel 1497, quando Antonio Costabili, ambasciatore degli Este a Milano, lo riportò a Ferrara dopo averlo tratto dal carcere in cui era rinchiuso per aver ferito un miniatore: una personalità fumantina, come vedremo tra poco. Costabili quindi presentò ad Ercole I – e l’originale della lettera è esposta nella prima sala del Museo Diocesano di Cremona – colui che riteneva l’unico artista degno di sostituire Ercole de’ Roberti.
Sappiamo che pochi anni dopo Boccaccino gestiva a Ferrara una bottega ben avviata e che fu incaricato della decorazione del catino absidale del duomo. L’8 febbraio del 1500 però si rivelò una giornata fatale: l’artista si macchiò infatti di femminicidio. Una fonte letteraria riporta che Boccaccino ammazzò la moglie dopo aver scoperto un tradimento; forse per sfuggire a un’ulteriore condanna, si trasferì a Venezia, dove rimase fino al 1506: “Era l’inizio di un nuovo entusiasmante capitolo per Boccaccino depinctore – scrivono i curatori in catalogo –, che lo avrebbe visto protagonista in laguna negli anni, irripetibili, in cui già brillava l’astro di Giorgione da Castelfranco, quando ancora era attivo l’anziano Giovanni Bellini e, non molto dopo, sarebbe comparso il giovane Tiziano”. Ed ecco che, con le opere databili ai primissimi anni del Cinquecento, si entra nel vivo della mostra: l’incipit è affidato alla già citata Adorazione dei pastori di Capodimonte, rivelatrice di assonanze sia ferraresi sia di suggestioni tedesche tratte in particolare dalle incisioni di Martin Schongauer. E la fascinazione per la pittura nordica non mancò di esercitare i suoi effetti in opere più tarde di Boccaccino dove è esplicita l’adesione alle sconvolgenti novità di Albrecht Dürer.
La mostra prosegue quindi con una serie di raffinatissime Madonne con Bambino, soggetto privilegiato del pittore durante il suo soggiorno veneziano. Senz’altro nella Serenissima il cremonese accolse subito la lezione di Giovanni Bellini, adottandone sia gli schemi compositivi sia passaggi tonali più sfumati che maturano dopo la conoscenza di Giorgione. A questa età gli esiti pittorici di Boccaccino sono tuttavia ancora contaminati con caratteri tipicamente lombardi. A creare uno stacco nella sequenza di immagini mariane si osservano due grandi tavole con il San Giovanni e il San Matteo che Filippo Piazza, nella scheda in catalogo, avvicina alle opere dipinte da Giorgione attorno al 1502 (c’è chi ha ipotizzato che i due santi derivino da un’opera monumentale smembrata, ma i restauri hanno certificato l’integrità dei margini). Di certo queste opere testimoniano una raggiunta autonomia compositiva e stilistica dell’autore, per il quale gioca un ruolo non indifferente, come si è accennato, la resa dei tessuti decorati, ricamati, tempestati di perle. La superstar della mostra è però la Zingarella prestata dagli Uffizi, con i suoi occhi chiarissimi e magnetici, il volto che pare un ritratto e quel foulard azzurro striato d’oro che ne incornicia la fisionomia. Un capolavoro indiscutibile, che da solo varrebbe il viaggio fino a Cremona.
L’esposizione della Madonna col Bambino tra i santi Giovanni Battista e Caterina d’Alessandria del Museo Correr di Venezia (1504-05) segna un nuovo interesse da parte del pittore verso l’iconografia della sacra conversazione, a cui sono assimilabili anche la tavola del Museo Diocesano di Cremona proveniente dalla chiesa di Sant’Agata (1508) e quella proveniente Galleria Estense di Modena che però viene datata in anni precoci, verso il 1500-1501. Osservando quest’ultima, a chi scrive è però sorto un dubbio riguardo la cronologia proposta dai due curatori e ripresa dall’ipotesi di Alessandro Ballarin (l’aderenza alle ricerche di quest’ultimo studioso è peraltro puntuale per l’intero approccio a Boccaccino). La sensazione che restituisce l’opera – le cromie delicate e i toni smorzati, la luce calda, il ritmo compositivo, un Gesù Bambino “bambolotto”, dai tratti somatici perfetti e non leggermente deformati come in altri lavori di Boccaccino di quel torno d’anni, e poi le rispettive teste di San Giuseppe che sembrano derivare dallo stesso modello – pare infatti assai differente rispetto a quella delle opere che la affiancano e che si collocano tra lo scoccare del 1500 e il 1506. A uno sguardo d’insieme dei dipinti in mostra la Sacra famiglia di Modena sembrerebbe più vicina al dipinto di proprietà del museo, del 1508. Sensazione che peraltro ebbe anche Cavalcaselle, quando nel 1871 ricondusse quest’opera oggi alla Galleria Estense all’ambito cremonese, attribuendola a Boccaccino proprio grazie al confronto con la Sacra Famiglia di Sant’Agata (il dibattito critico è opportunamente riportato dalla scheda a firma di Stefano Macconi). Francesco Cerretti ribadisce la convinzione per una cronologia alta motivandola con l’incrocio dei riferimenti all’ambito leonardesco (per il pastore si chiama in causa Boltraffio, per i panneggi Bramantino) a cui si aggiungono accenti emiliani (soprattutto Lorenzo Costa) e un paesaggio pienamente giorgionesco. Il curatore definisce quindi l’opera come una sorta “patchwork” delle esperienze formative del pittore, mentre a distanziarla dal dipinto cremonese vi sono, ad esempio, uno spiccato gigantismo delle figure e un modo diverso di costruire i panneggi. Considerazioni inappuntabili, soprattutto considerando gli accuratissimi su Boccaccino condotto per questa mostra, ma il bello del poter osservare direttamente e simultaneamente un ampio nucleo di lavori di un autore – privilegio reso possibile proprio dalle esposizioni temporanee – talvolta può far scattare la scintilla per nuove riflessioni e dibattiti, o al contrario può consolidare delle interpretazioni.
Riprendendo il filo dell’allestimento, lo spessore di Boccaccio Boccaccino è evidente nello Sposalizio mistico di Santa Caterina, con le sei figure monumentali immerse in uno splendido paesaggio: “un riflesso immediato dell’arrivo in città [Venezia, ndr] della Festa del Rosario, eseguita da Albrecht Dürer proprio nel 1506 per l’altare maggiore della chiesa di San Bartolomeo a Rialto”, scrive Cerretti in catalogo. Ancora di assoluta qualità sono la Crocifissione con donatore, purtroppo molto compromessa, e l’Annunciazione Ludovisi, la cui datazione è prossima ai lavori commissionati dai massari della Cattedrale di Cremona, a cui l’artista si dedicò nel 1507 affrescando il catino absidale, per poi venire incaricato di decorare la parte della navata centrale tra il 1513 (dopo un probabile viaggio a Roma) e il 1519. Peraltro in questi anni l’artista, pur già affermato, scelse di continuare ad aggiornare il suo linguaggio alla luce delle innovazioni portate in duomo da Romanino e dal Pordenone.
La maturità del pittore è invece documentata dal Ritratto di un gentiluomo che regge un teschio (1515-16), l’unico ritratto autonomo assegnato al Boccaccino, per ora, mentre la conclusione della mostra è affidata al focus sulla cosiddetta Pala Fodri, di cui si è già detto. In quest’opera il pittore dimostra di essere ancora ricettivo – almeno per quanto si può intuire dalla porzione sopravvissuta a un probabile incendio – delle novità introdotte da Tiziano con la seconda versione della pala di San Nicolò ai Frari, oggi alla Pinacoteca Vaticana: il cadorino infatti sviluppò una composizione divisa tra un registro superiore, con la Madonna col Bambino in gloria, e uno inferiore, con i santi disposti in fila. Una suggestione di grande modernità subito colta da Boccaccino che quindi fu il primo, come pensano Piazza e Cerretti, a introdurla nel territorio cremonese.
Terminata la visita all’esposizione si può quindi affermare che la rilettura critica sul protagonista e la presentazione al pubblico di numerose opere di Boccaccio Boccaccino costituiscono iniziative più che doverose. Non solo: qualche volta le “riscoperte” di autori poco conosciuti si rivelano utili a far riemergere da collezioni private, dal mercato antiquariale o addirittura dai musei, dipinti inediti, ampliando così il catalogo. L’allestimento al Museo Diocesano di Cremona è curato, i dipinti si stagliano su un fondo verde scuro – piaccia o non piaccia, le luci puntate su quadri che emergono dall’oscurità sono assai di moda –, inoltre le didascalie sui temi principali trattati nel percorso sono esaustive e aiutano a comprendere il valore del protagonista e il suo ruolo nel contesto dell’Italia Settentrionale nel primo Rinascimento. Infine, una menzione di merito va al catalogo pubblicato da Officina Libraria: i testi e le schede sono redatti con un’impostazione accademica, riportando non solo la biografia di Boccaccino e l’analisi delle sue opere, ma anche il dibattito critico, con un ricco apparato di note e una bibliografia completa; utilissimi, in vista di ulteriori ricerche, sono il regesto e la trascrizione dei documenti sull’artista conservati all’Archivio di Stato di Cremona. Decisamente apprezzabili anche l’impaginazione e la grafica: senza fronzoli e senza stranezze (anche queste molto trendy), agevolano la lettura dei contenuti che si sono arricchiti di numerose immagini di confronto.
L'autrice di questo articolo: Marta Santacatterina
Marta Santacatterina (Schio, 1974, vive e lavora a Parma) ha conseguito nel 2007 il Dottorato di ricerca in Storia dell’Arte, con indirizzo medievale, all’Università di Parma. È iscritta all’Ordine dei giornalisti dal 2016 e attualmente collabora con diverse riviste specializzate in arte e cultura, privilegiando le epoche antica e moderna. Ha svolto e svolge ancora incarichi di coordinamento per diversi magazine e si occupa inoltre di approfondimenti e inchieste relativi alle tematiche del food e della sostenibilità.Per inviare il commento devi
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