Futurismo: a Pisa, una mostra che racconta il movimento facendo parlare gli artisti con i manifesti


Recensione della mostra “Futurismo”, a Pisa, Palazzo Blu, dall'11 ottobre 2019 al 9 febbraio 2020.

Se oggi ammiriamo fondamentali capolavori dei futuristi nei musei di mezzo mondo, dobbiamo tale possibilità al sostanziale disinteresse (se non all’ostracismo tout court) che il milieu culturale dell’Italia del dopoguerra riservò a Boccioni e colleghi. Molte opere dei grandi artisti che animarono l’unica avanguardia italiana del primo Novecento furono esportate senza che gl’istituti preposti alla tutela opponessero la minima resistenza, e il risultato è oggi sotto gli occhi d’ognuno: dipinti, sculture, disegni, opere su cui il movimento s’è fondato, oggi si trovano in ogni continente. Si potrà comunque pensare che, forse, è andata bene così: se oggi l’importanza del futurismo è universalmente riconosciuta in tutto il globo, andranno ringraziati anche quanti pensavano di colpirlo o di disfarsene semplicemente ignorandolo. Certi schemi, tuttavia, in parte sopravvivono ancor oggi, se si pensa che, in occasione della grande mostra sul futurismo tenutasi nel 2014 al Guggenheim di New York, c’era chi scriveva che l’aeropittura futurista aveva fornito un contributo chiave all’immaginario visivo del regime fascista, malgrado già quarant’anni fa Enrico Crispolti avesse messo la critica in guardia contro scorretti tentativi di liquidazione, soprattutto del cosiddetto “secondo futurismo”. E, seguendo un’impostazione tipica della critica americana, la rassegna statunitense non ha risparmiato di lanciare ancora qualche frecciata contro la presunta misoginia di Filippo Tommaso Marinetti (Alessandria d’Egitto, 1876 - Bellagio, 1944). Tuttavia, la mostra newyorkese ebbe il pregio d’aver ordinato, per la prima volta, una selezione capace di guardare al futurismo come a un movimento sviluppatosi lungo più di trent’anni di storia del Novecento senza soluzione di continuità.

Lo stesso orizzonte temporale, che va dal 1909, data della pubblicazione, da parte di Marinetti, del Manifesto del Futurismo (prima sulla Gazzetta dell’Emilia il 5 febbraio di quell’anno, poi su altre pubblicazioni italiane, e successivamente, il 20 febbraio, su Le Figaro: dal quotidiano francese avrebbe ottenuto quella risonanza internazionale che gli era mancata in precedenza), al 1944, anno della scomparsa del suo grande teorico, è lo stesso adottato dalla mostra Futurismo, a cura di Ada Masoero, allestita nelle sale di Palazzo Blu a Pisa fino al 9 febbraio 2020. La mostra toscana s’inserisce dunque nel solco dei più recenti eventi espositivi, mirati a considerare il futurismo nella sua completezza e non soltanto nell’arco dei suoi primi dieci anni, quelli su cui gli studî si sono maggiormente concentrati. La particolarità dell’esposizione sta nel modo in cui la curatrice ha deciso di costruire l’iter: facendo combaciare le diverse sezioni della mostra con i varî manifesti redatti dagli esponenti del movimento. Ne è scaturito un percorso che, per ammissione stessa di Ada Masoero, intende lasciare la parola agli artisti: e di conseguenza, in mostra sono presenti soltanto opere d’artisti firmatarî dei manifesti, pur con due luminose eccezioni: una è il ritratto di Marinetti dipinto da Rougena Zátková (Praga, 1885 - Leysin, 1923), e l’altro è il significativo Prima che si apra il paracadute di Tullio Crali (Igalo, 1910 - Milano, 2000), il più longevo esponente del movimento (seppur v’avesse aderito senza firmare i manifesti), presente in mostra dacché Marinetti lo ritenne “il più grande pittore del momento” (“primo e finora unico tra gli aeropittori”, avrebbe detto il poeta nel 1940 nel corso d’un’intervista radiofonica, “Crali appare l’acrobata che dipinge i propri stati d’animo e paesaggi capovolti, obliqui, roteanti da lui goduti e rapiti fulmineamente con girante sensibilità nella sua esperienza aviatoria”).

Una sala della mostra Futurismo a Pisa
Una sala della mostra Futurismo a Pisa


Una sala della mostra Futurismo a Pisa
Una sala della mostra Futurismo a Pisa


Una sala della mostra Futurismo a Pisa
Una sala della mostra Futurismo a Pisa


Una sala della mostra Futurismo a Pisa
Una sala della mostra Futurismo a Pisa


Tullio Crali, Prima che si apra il paracadute (1939; olio su tavola, 141 x 151 cm; Udine, Museo d'Arte Moderna e Contemporanea)
Tullio Crali, Prima che si apra il paracadute (1939; olio su tavola, 141 x 151 cm; Udine, Museo d’Arte Moderna e Contemporanea)

A mo’ di premessa, la mostra di Pisa dispone una prima sequenza d’opere che intendono dar conto degli esordî d’alcuni dei primi futuristi nel segno del divisionismo: esordî che puntualizzano, da una parte, come i varî Umberto Boccioni (Reggio Calabria, 1882 - Verona, 1916), Carlo Carrà (Quargnento, 1881 - Milano, 1966), Luigi Russolo (Portogruaro, 1885 - Laveno-Mombello, 1947), Giacomo Balla (Torino, 1871 - Roma, 1958) e Gino Severini (Cortona, 1883 - Parigi, 1966) fossero aggiornati e al passo con le ultime novità della pittura italiana, e dall’altro quale fosse la cultura nella quale s’erano formati i giovani che avrebbero firmato i manifesti del futurismo. Il fatto che la mostra sottolinei il debito dei futuristi nei confronti del divisionismo è anche espediente per dimostrare come le ricerche di Pellizza e soci (gioverà rimarcare che Balla, il più anziano dei futuristi, trentottenne all’epoca della pubblicazione del manifesto di Marinetti mentre gli altri erano tutti ardimentosi venticinquenni o giù di lì, aveva conosciuto il grande pittore di Volpedo, ed era stato indicato da Severini come “il nostro maestro che ci iniziò alla nuova tecnica del divisionismo, senza tuttavia insegnarcene le regole fondamentali e scientifiche”) avessero ricoperto un’importanza vitale per le future sperimentazioni futuriste su luce e movimento. Ed è in quest’ottica che occorrerà leggere, ad esempio, una straordinaria prova d’un Carrà poco più che adolescente, La strada di casa del 1900, che pur nell’incertezza giovanile trasmette tutto lo spirito d’un Segantini (cui Carrà s’era avvicinato fin da ragazzino ammirandone le opere a Milano), o La madre, pastello di Boccioni in prestito dalle raccolte della Galleria d’Arte Moderna di Milano, dove possiamo ammirare tutto il percorso della luce che penetra dai vetri della finestra (indugia sul volto della donna intenta all’uncinetto, scende giù per i pizzi dello scialle facendo perdere i contorni della figura e imprimendole un delicato dinamismo per tramite d’una pittura quasi puntiforme, e termina rischiarando il pavimento), per arrivare alla tenerezza domestica del Balla ancora al di qua della svolta futurista, che negli Affetti (qui esposti in uno studio preliminare) tratteggia un intenso ritratto della moglie Elisa e della figlia Luce.

Il momento della fondazione del futurismo arriva tra la seconda e la terza sala: in pressoché tutti gli ambienti della mostra, sono sistemate riproduzioni dei manifesti che scandiscono il percorso espositivo, così da seguire il racconto della mostra guidati dalla voce stessa dei protagonisti di quella nuova temperie culturale. “Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità”, scriveva Marinetti in quello ch’è forse il passaggio più celebre del suo manifesto. “Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia”. Ed eccolo, l’automobile (che per i futuristi era da declinarsi rigorosamente al maschile), che corre in un acquerello di Balla, Automobile + velocità + luce, realizzato appena tre anni dopo lo studio per gli Affetti esposti nella sala prima ma già lontanissimo dalle passate esperienze. E ancora: “noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”. Ed ecco che in corrispondenza con le parole di Marinetti, nella sala si susseguono la Carica dei lancieri di Boccioni, dipinto del 1915 che in un movimento vorticoso esalta la forza e la velocità dei cavalli e il coraggio e la motivazione dei lancieri in una visione fortemente idealizzata della guerra, e il summenzionato ritratto di Marinetti eseguito da Rougena Zátková, una tra le più note donne futuriste, in tutto e per tutto pari ai suoi colleghi uomini: i futuristi aborrivano la donna “divino serbatoio d’amore, la donna veleno, la donna ninnolo tragico, la donna fragile, ossessionante e fatale” (così scriveva, Marinetti, in polemica con l’immagine della donna dei romantici, dei simbolisti e dei decadenti, nel suo manifesto Contro l’amore e il parlamentarismo del 1910: per lui, da disprezzare erano parimenti la donna borghese, condannata a una vita subalterna e insignificante, e la femme fatale che irretisce l’uomo), e al contrario esaltavano la donna forte, indipendente, conscia del proprio talento e della propria intelligenza, capace d’agire, uguale al maschio, e per la quale Marinetti auspicava il diritto di voto e una piena partecipazione alla vita politica del paese.

I fondatori del futurismo (Boccioni, Carrà, Russolo, Balla Severini) avrebbero poi firmato, l’11 febbraio del 1910, il Manifesto dei pittori futuristi, seguito l’11 aprile dello stesso anno dal Manifesto tecnico: e anche qui, la rassegna non si discosta dall’intento di continuare a sancire l’unione tra i testi teorici del movimento e le opere dei loro firmatarî. Recidere i legami con l’accademia, distruggere “il culto del passato, l’ossessione dell’antico, il pedantismo”, esaltare l’originalità anche quando violenta, “considerare i critici d’arte come inutili e dannosi”, “rendere e magnificare la vita odierna”: queste le linee dei cinque giovani “padri” del futurismo, per i quali, come loro stessi avrebbero scritto nel manifesto tecnico, “tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido”. Nella sala dedicata agl’inizî della pittura futurista s’incontrano dunque opere come Ritmo + velocità di Balla, dove protagonista è ancora l’automobile che il pittore osserva nel suo rapido incedere che fende l’aria e solleva la polvere d’una quieta campagna, o L’autobus di Severini, dove il movimento della celebratissima vita urbana (in questo caso della Parigi degli anni Dieci) è parimenti dato, secondo il tipico procedimento futurista, dalla compenetrazione turbinosa tra spazio e oggetti. E un dipinto dagli accenti ancora divisionisti come il celeberrimo Profumo di Russolo del 1910 è forse il dipinto che più d’altri dà evidenza all’assunto teorico secondo cui “sotto la nostra epidermide non serpeggia il bruno, ma [...] vi splende il giallo, [...] il rosso vi fiammeggia, e [...] il verde, l’azzurro e il violetto vi danzano, voluttuosi e carezzevoli”, e “il volto umano è giallo, è rosso, e verde, è azzurro, è violetto”. Nel volto sognante della donna di Russolo fluttua, s’infrange e danza un’onda di pennellate guizzanti che dànno forma all’idea secondo cui “il pallore di una donna che guarda la vetrina di un gioielliere è più iridescente di tutti i prismi dei gioielli che l’affascinano”.

Carlo Carrà, La strada di casa (1900; inchiostro e acquerello su cartone, 25,5 x 35,5 cm; Collezione privata)
Carlo Carrà, La strada di casa (1900; inchiostro e acquerello su cartone, 25,5 x 35,5 cm; Collezione privata)


Umberto Boccioni, La madre (1907; pastello su carta applicata su tela, 72 x 80 cm; Milano, Galleria d'Arte Moderna, Raccolta Grassi)
Umberto Boccioni, La madre (1907; pastello su carta applicata su tela, 72 x 80 cm; Milano, Galleria d’Arte Moderna, Raccolta Grassi)


Giacomo Balla, Studio per Affetti (1910; olio su tavola, 68 x 52 cm; Roma, Collezione privata - courtesy Futur-ism)
Giacomo Balla, Studio per Affetti (1910; olio su tavola, 68 x 52 cm; Roma, Collezione privata - courtesy Futur-ism)


Giacomo Balla, Automobile + velocità + luce (1913-1914; acquerello e seppia su carta, 67 x 88,5 cm; Milano, Museo del Novecento)
Giacomo Balla, Automobile + velocità + luce (1913-1914; acquerello e seppia su carta, 67 x 88,5 cm; Milano, Museo del Novecento)


Umberto Boccioni, Carica dei lancieri (1915; penna e inchiostro nero, tempera e collage su carta applicato su tela, 33,4 x 50,3 cm; Milano, Museo del Novecento)
Umberto Boccioni, Carica dei lancieri (1915; penna e inchiostro nero, tempera e collage su carta applicato su tela, 33,4 x 50,3 cm; Milano, Museo del Novecento)


Rougena Zátková, Marinetti soleil (1921-1922; olio su tela, 100 x 89 cm; Collezione privata)
Rougena Zátková, Marinetti soleil (1921-1922; olio su tela, 100 x 89 cm; Collezione privata)


Gino Severini, L'autobus (1913; olio su tela, 57 x 73 cm; Milano, Museo del Novecento)
Gino Severini, L’autobus (1913; olio su tela, 57 x 73 cm; Milano, Museo del Novecento)


Luigi Russolo, Profumo
Luigi Russolo, Profumo (1910; olio su tela, 65,5 X 67,5 cm; Rovereto, Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, Collezione VAF-Stiftung)

La scarsità di sculture presenti nella sezione dedicata al Manifesto tecnico della scultura futurista, firmato da Boccioni l’11 aprile del 1912, è compensata dalla possibilità d’ammirare l’unica opera a tre dimensioni esposta in sala (un capolavoro dell’artista d’origini reggine: lo Sviluppo di una bottiglia nello spazio, in arrivo dal Museo del Novecento di Milano) accanto ad alcuni disegni che testimoniano la genesi delle idee di Boccioni (a cominciare dalla sua scultura più famosa, Forme uniche della continuità nello spazio). Per Boccioni, scolpire significava essenzialmente tradurre, attraverso la materia, i “piani atmosferici che legano e intersecano le cose”, facendo vivere gli oggetti comunicando al riguardante l’idea della loro disposizione nello spazio (dal momento che un oggetto finisce laddove un altro oggetto comincia, e dal momento che un oggetto è circondato da altri oggetti) e del loro movimento, da rendere in sintesi per continuare ciò che l’impressionismo (Boccioni si riferiva alle sculture di Medardo Rosso) aveva cominciato in via analitica. Sviluppo di una bottiglia nello spazio, del 1912, è anche la prima scultura di Boccioni ed è, per tal ragione, intrisa dei fondamenti teorici formulati dall’autore poco prima della realizzazione dell’opera: la natura morta, tema tipico della tradizione cubista (e nei confronti del cubismo, sottolineava Roberto Longhi, il futurismo è stato come il barocco nei riguardi del Rinascimento), assume nella scultura di Boccioni un movimento inedito che le garantisce anche una dimensione architettonica che quasi la rende monumentale, pur nelle sue piccole dimensioni e pur nell’ordinarietà del soggetto scelto dall’autore. Seguono, come detto, i disegni, che seppur non riconducibili a opere che poi presero effettivamente forma (non vanno dunque considerati come bozzetti preparatorî), sono esemplificativi del modo in cui l’artista guardava al corpo umano in movimento, e anche del modo in cui intendeva il mezzo del disegno (Voglio sintetizzare le forme uniche della continuità nello spazio o Voglio fissare le forme umane in movimento).

Le sezioni che seguono esplorano i diversi ambiti in cui i futuristi furono attivi: la letteratura (e la poesia in particolare), l’architettura, la pubblicità, con un intermezzo (dovuto a ragioni cronologiche) sulla guerra. Marinetti torna nella sezione centrata sul Manifesto tecnico della letteratura futurista (e sviluppi successivi): le parole in libertà, com’è noto, furono il principale contributo che il futurismo introdusse in campo letterario. Per Marinetti e per gli altri poeti futuristi, occorreva “distruggere la sintassi disponendo i sostantivi a caso”, usare il verbo all’infinito, abolire l’aggettivo (“perché il sostantivo nudo conservi il suo colore essenziale”, e in più l’aggettivo, conferendo una “sfumatura” al sostantivo, impone una pausa contraria ai principî di dinamismo dei futuristi), abolire l’avverbio, abolire la punteggiatura e introdurre i segni matematici per indicare accentuazioni e direzioni, formare reti d’immagini: in mostra, le composizioni di Carrà, Balla e dello stesso Marinetti compongono una piccola costellazione di creazioni a metà tra la poesia e l’arte. Nella sezione seguente trova spazio una cospicua raccolta di disegni di Antonio Sant’Elia (Como, 1888 - Monfalcone, 1916), in arrivo da una collezione privata, due dei quali dànno forma all’avveniristica utopia della “Città nuova” del giovanissimo architetto lombardo: edifici alti e privi di ornamenti (visti come inutili orpelli: la bellezza doveva derivare soltanto dall’armonia delle forme e delle linee), realizzati nei materiali della modernità (il cemento, il vetro e l’acciaio), intercomunicanti, dotati di ascensori (Sant’Elia teorizzava l’abolizione delle scale), con strade che corrono tra i palazzi comunicando con tapis roulant per i pedoni e con corsie su livelli diversi destinate al traffico di biciclette, veicoli privati e mezzi pubblici. La Città nuova di Sant’Elia, ha scritto Silvia Evangelisti in un suo saggio in occasione della mostra Universo futurista tenutasi alla Fondazione Cirulli di San Lazzaro di Savena nel 2018, “sembra tradurre, in un linguaggio più razionale ‘condizionato’ dalle competenze specifiche di urbanistica e di architettura, la spinta ottimistica e positiva che troviamo nella Città che sale di Boccioni”, uno dei principali capolavori del futurismo.

Le immagini della guerra (si vedano, ad esempio, i Cannoni in azione di Severini o il retorico Forme grido viva l’Italia di Balla) segnano una cesura tra il primo e il secondo futurismo, anche se i prodromi degli sviluppi che il movimento avrebbe assunto dopo il primo conflitto mondiale sono da ravvisare nel manifesto Ricostruzione futurista dell’universo, firmato l’11 marzo del 1915 da Balla e dal trentino Fortunato Depero (Fondo, 1892 - Rovereto, 1960), quest’ultimo tra i principali esponenti del secondo futurismo. Il manifesto per la Ricostruzione si fondava su di una precisa linea: dare corpo all’invisibile, trovando equivalenti astratti di tutti gli elementi dell’universo, secondo l’idea per la quale il futurismo avrebbe dovuto pervadere ogni aspetto dell’esistenza e dar forma anche all’impalpabile (uno dei capolavori di questa fase, Pessimismo e ottimismo di Balla, si prefiggeva lo scopo di trovare un equivalente pittorico per i due contrastanti sentimenti). È un nuovo filone di ricerca: intanto, significava creare un oggetto totalmente nuovo, e Balla avrebbe rincorso quest’obiettivo con la creazione di “complessi plastici” (l’unico che sopravvive, il Complesso plastico colorato di frastuono + velocità, di privata collezione romana, è stato portato in mostra) che sarebbero stati somma di pittura, scultura, colori e movimento, concreto e astratto, forme e linee, materiali più disparati e mai sondati in precedenza da altri artisti. Una delle conseguenze della Ricostruzione futurista dell’universo è la necessaria contaminazione della vita quotidiana, il cui esempio più evidente è la pubblicità (sono esposti alcuni dei più noti lavori di Depero), ma che s’apprezza anche nei divertenti giocattoli futuristi immaginati dallo stesso Depero (come gli spassosi Rinoceronti o le bambole per bambine) in ottemperanza a quanto lui e Balla avevano scritto nella Ricostruzione proprio a proposito dei giocattoli, che dovevano essere concepiti per abituare il bambino a ridere, a essere elastico, creativo, sensibile, coraggioso e pronto anche alla guerra. Non solo: il giocattolo, scrivevano i due artisti nel manifesto, sarebbe stato utilissimo anche all’adulto “poiché lo manterrà giovane, agile, festante, disinvolto, pronto a tutto, instancabile, istintito e intuitivo”.

Nelle ultime due sezioni, la mostra pisana esplora l’ultimo ventennio del futurismo: si comincia con il Manifesto dell’arte meccanica futurista del 1922, firmato da Enrico Prampolini (Modena, 1894 - Roma, 1956), Ivo Pannaggi (Macerata, 1901 - 1981) e Vinicio Paladini (Mosca, 1902 - Roma, 1971), col quale i tre giovani artisti, tutti poco più che ventenni, ripartivano dalla lode marinettiana alla macchina per auspicare un’arte capace di rendere lo “spirito” della macchina più che la sua forma esteriore, oltre alle sue forze, ai suoi ritmi e alle sue analogie. Ed è proprio nella resa di questo spirito che i giovani Prampolini, Pannaggi e Paladini intendevano distinguersi dai firmatarî dei primi manifesti: “la pittura futurista”, scrive Masoero in catalogo, “si sarebbe espressa con incastri di forme nette, ora piatte, ora illusoriamente tridimensionali, ma sempre di segno astratto-geometrico” (il quasi surrealista Automa quotidiano di Prampolini è forse l’opera più rappresentativa di questa fase). Il Manifesto dell’aeropittura (ovvero la pittura che celebra l’esperienza del volo, l’entusiasmo per gli aeroplani, la visione del mondo dall’alto d’una cabina: il tutto in un’epoca in cui l’esaltazione per il volo non era esclusivo appannaggio dei futuristi), testo di Marinetti poi aggiornato e firmato da altri sette artisti, conclude la sezione ultima e più “politica” della rassegna, dacché parlare d’aeropittura significa fare i conti con gli episodî di collusione tra il futurismo e il fascismo, a proposito dei quali la mostra non fa mistero, proponendo le celebrazioni retoriche dei trasvolatori d’Italo Balbo (Celeste metallico aeroplano di Giacomo Balla, unica prova dell’artista nel campo dell’aeropittura) o l’imperioso ritratto del duce circondato d’aerei di Gerardo Dottori (Perugia, 1884 - 1977). Molti studiosi (Crispolti, Duranti e diversi altri) hanno a lungo chiarito i rapporti tra futurismo e fascismo, stabilendo definitivamente che il futurismo non è classificabile come arte di regime, anche perché il regime, nei confronti dei futuristi (che avevano un loro programma politico, tanto che Marinetti, nel 1918, fondò anche un “Partito Politico Futurista”), mantennero sempre un atteggiamento ambiguo, che può anche in parte spiegare il perché della loro mancata ammissione alla Biennale di Venezia del 1924 (solo due anni dopo il futurismo riuscì a farsi riconoscere “ufficialmente” dalla critica con l’esordio alla manifestazione lagunare, con circa sessanta opere di diciannove artisti in uno spazio, ha scritto Duranti, “sempre nello spirito della tolleranza che si riserva a soggetti sostanzialmente facinorosi”). Sui rapporti tra aeropittura e fascismo è sempre Duranti a definire con chiarezza i confini della questione: “non basta, per un giudizio meditato sull’Aeropittura riferirsi a certa iconografia fascista. Gli aeropittori in particolare, non dipinsero solo ritratti di Mussolini e battaglie aeree [...]. I paesaggi visti dall’alto, distorti e dilatati, le simultaneità e le compenetrazioni, le spinte cosmiche e trasfiguratrici non hanno nulla di celebrativo, bensì sono esiti importanti di una volontà innovatrice del linguaggio artistico”. E in mostra non mancano gli esempî in tal senso, come Aeropittura di Tato (Guglielmo Sansoni; Bologna, 1896 - Roma, 1974) o lo splendido trittico dell’Aurora umbra dello stesso Dottori.

Umberto Boccioni, Sviluppo di una bottiglia nello spazio (1912; bronzo, 38 x 59 x 32 cm; Milano, Museo del Novecento)
Umberto Boccioni, Sviluppo di una bottiglia nello spazio (1912; bronzo, 38 x 59 x 32 cm; Milano, Museo del Novecento)


Umberto Boccioni, Voglio fissare le forme umane in movimento (1913; inchiostro nero, tempera bianca e matita, su carta, 87 x 57 cm; Milano, Civiche Raccolte Grafiche e Fotografiche, Gabinetto dei Disegni, Castello Sforzesco)
Umberto Boccioni, Voglio fissare le forme umane in movimento (1913; inchiostro nero, tempera bianca e matita, su carta, 87 x 57 cm; Milano, Civiche Raccolte Grafiche e Fotografiche, Gabinetto dei Disegni, Castello Sforzesco)


Giacomo Balla, Rumoristica plastica BALTRR (1914; inchiostro, collage e supporti misti su carta appoggiati su tela, 116 x 98 cm; Roma, Collezione M. Carpi)
Giacomo Balla, Rumoristica plastica BALTRR (1914; inchiostro, collage e supporti misti su carta appoggiati su tela, 116 x 98 cm; Roma, Collezione M. Carpi)


Antonio Sant'Elia, La città nuova. Casa a gradinata con ascensori esterni (1914; inchiostro e matita neri su carta, 56 x 55 cm; Collezione privata)
Antonio Sant’Elia, La città nuova. Casa a gradinata con ascensori esterni (1914; inchiostro e matita neri su carta, 56 x 55 cm; Collezione privata)


Giacomo Balla, Forme Grido Viva l'Italia (1915; olio su tela, 134 x 187 cm; Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea)
Giacomo Balla, Forme Grido Viva l’Italia (1915; olio su tela, 134 x 187 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)


Giacomo Balla, Pessimismo e Ottimismo (1923; olio su tela, 115 x 176 cm; Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea)
Giacomo Balla, Pessimismo e Ottimismo (1923; olio su tela, 115 x 176 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)


Giacomo Balla, Complesso plastico colorato di frastuono + Velocità (1914 circa; legno, cartone e lamine di stagno colorate ad olio su legno, 52 x 60 x 7 cm; Roma, Collezione privata)
Giacomo Balla, Complesso plastico colorato di frastuono + Velocità (1914 circa; legno, cartone e lamine di stagno colorate ad olio su legno, 52 x 60 x 7 cm; Roma, Collezione privata)


I giocattoli futuristi di Fortunato Depero
I giocattoli futuristi di Fortunato Depero (in prestito dal Mart - Museo d’Arte Contemporanea di Trento e Rovereto)


Fortunato Depero, Al teatro dei piccoli / Balli plastici (1918; tempera su tela, 99,5 x 73,5 cm; Roma, Collezione privata - courtesy Futur-ism)
Fortunato Depero, Al teatro dei piccoli / Balli plastici (1918; tempera su tela, 99,5 x 73,5 cm; Roma, Collezione privata - courtesy Futur-ism)


Enrico Prampolini, L'automa quotidiano (1930; olio e collage su tavola, 100 x 80 cm; Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea)
Enrico Prampolini, L’automa quotidiano (1930; olio e collage su tavola, 100 x 80 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)


Giacomo Balla, Celeste metallico aeroplano (1931; olio su compensato, 280 x 150 cm; Bracciano, Museo Storico dell'Aeronautica Militare)
Giacomo Balla, Celeste metallico aeroplano (1931; olio su compensato, 280 x 150 cm; Bracciano, Museo Storico dell’Aeronautica Militare)


Gerardo Dottori, Il duce (1933; olio su tavola, 100 x 106 cm; Milano, Museo del Novecento)
Gerardo Dottori, Il duce (1933; olio su tavola, 100 x 106 cm; Milano, Museo del Novecento)


Gerardo Dottori, Aurora umbra, trittico (1931; olio su tela, 80 x 90, 80 x 75 e 80 x 90 cm; Milano, Museo del Novecento)
Gerardo Dottori, Aurora umbra, trittico (1931; olio su tela, 80 x 90, 80 x 75 e 80 x 90 cm; Milano, Museo del Novecento)

È forse su questi rapporti che la mostra di Pisa segna qualche punto debole, dal momento che, pur non nascondendo che in alcuni casi il futurismo celebrò il regime, l’argomento è affrontato in maniera forse troppo sbrigativa: è vero che i termini del problema sono già stati chiariti, ma in una mostra destinata a un grande pubblico quale quella di Palazzo Blu, un affondo sull’argomento sarebbe stato da salutare in maniera molto positiva (c’è però da dire che il saggio in catalogo di Sileno Salvagnini, dedicato alla parabola di Marinetti, in parte offre un rimedio). E, a proposito del catalogo, altro punto debole da segnalare è la mancata riproduzione dei manifesti che costituiscono le tappe del percorso: sono loro i protagonisti principali della rassegna, sono loro che hanno dettato la scelta delle opere, sono loro che guidano il pubblico attraverso l’itinerario espositivo, e per tali ragioni sarebbe stato naturale trovare i testi integrali nella pubblicazione a corredo della mostra.

Il ritratto ch’emerge dall’esposizione, pur concentrandosi (come del resto è naturale che sia) sul primo futurismo, riesce nondimeno a restituire tutta l’irruenza, la vitalità, la violenza, la novità, l’unicità della più longeva avanguardia del primo Novecento (oltre che della coerenza dei suoi esponenti), facendo parlare gli artisti e limitando gl’interventi della curatrice entro poche zone. Una prospettiva non dissimile da quella che Germano Celant aveva adottato per la sua Post Zang Tumb Tuuum alla Fondazione Prada due anni or sono: allora, s’accusava il critico d’aver messo da parte il suo giudizio, mentre per Futurismo il rischio non si corre, dal momento che, laddove occorre intervenire, Ada Masoero non rimane in silenzio. In un periodo in cui le mostre sui futuristi s’affastellano senza sosta (e talvolta senza pregio), l’esperimento di far assurgere i testi (e dunque il tempo) ad assoluti protagonisti, capaci di curare quasi in autonomia una mostra mettendo in un angolo la figura del curatore, è da osservare con sicuro interesse, specie se, come a Pisa, supportato da un ottimo allestimento e da una selezione di buon livello, con opere da prestatori tutti italiani.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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Il Surrealismo del 1929 in mostra a Pisa: buona l'idea, meno la messa in pratica
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