Il Grand Tour, sognando l'Italia nel Settecento. La mostra di Milano


Recensione della mostra “Grand Tour. Sogno d'Italia da Venezia a Pompei”, a Milano, Gallerie d'Italia di piazza Scala, dal 19 novembre al 27 marzo 2022.

L’espressione “Grand Tour” compare per la prima volta nel 1670, nello scritto d’un prete cattolico inglese, Richard Lassels, che quell’anno pubblicava a Parigi un libro, The Voyage of Italy, nel quale erano descritte le città, i monumenti, gli edifici visti durante un viaggio in Italia. Il libro cominciava con una prefazione in cui Lassels elencava i benefici del viaggiare, e tra i varî vantaggi di quest’attività il sacerdote includeva la possibilità di capire meglio la storia che si legge sui libri: “nessuno”, scriveva Lassels, “comprende meglio Livio e Cesare, Guicciardini e Monluc di colui che ha fatto il Grand Tour di Francia e il Giro d’Italia”. Questa distinzione di termini che, curiosamente, richiama moderne vicende ciclistiche, è andata perduta nel tempo, col risultato che s’è andato a indicare come “Grand Tour”, in via più generica, il ben noto “viaggio di formazione della classe dirigente europea”, per adoperare la sintetica definizione di Cesare De Seta ch’è il massimo esperto italiano dell’argomento. Parlare di Grand Tour però non significa parlar soltanto di viaggi: è questo il merito principale della mostra Grand Tour. Sogno d’Italia da Venezia a Pompei, allestita fino al 27 marzo 2022 alle Gallerie d’Italia di piazza Scala a Milano.

Una sorta di rito d’iniziazione dell’Europa moderna, prima ancora che un viaggio che conduceva i giovani dell’aristocrazia e dell’alta borghesia in Italia (e non solo) da tutto il continente. Addirittura un’“istituzione”, secondo De Seta. Un’istituzione le cui radici van fatte risalire a tempi ben più antichi di quelli ai quali comunemente l’associamo, dato che i prodromi del Grand Tour settecentesco potrebbero esser rintracciati addirittura nel regno di Elisabetta I, quando la corona inglese finanziava, e la classe dirigente promuoveva, lunghi viaggi d’istruzione in Europa. Lo stesso Lassels, quando scriveva il suo Voyage, operava in un periodo in cui recarsi in viaggio in Europa era prassi consolidata (il viaggio tipicamente durava tre anni). Nel Settecento sarebbe divenuto un fenomeno molto più diffuso di quanto non lo fosse in precedenza, e avrebbe assunto caratteri ancor più universali. In Italia, s’arrivava per crescere a livello personale e per cominciare a costruire il proprio futuro, la propria carriera. E si tornava al proprio paese con valigie colme di conoscenze, oltre che di voluminosi ricordi.

Quella di Milano non è la prima mostra in assoluto sul tema (varrà la pena ricordare, tra le ultime, la bella rassegna Città del Grand Tour che s’è tenuta a Carrara, a Palazzo Cucchiari, nel 2017), ma di sicuro, volendo escludere la mostra di gestazione inglese Grand Tour. Il fascino dell’Italia nel XVIII secolo, nata alla Tate Gallery di Londra nel 1996 e poi portata al Palazzo delle Esposizioni di Roma l’anno successivo, è la più imponente che si sia mai vista in Italia e la più completa, forte d’un percorso sapientemente articolato in una serie di nove sezioni consequenziali (con le opere che però talvolta si dispongono liberamente lungo le sale). Si potrebbe dire che i tre curatori, ovvero Fernando Mazzocca, Stefano Grandesso e Francesco Leone, abbiano congegnato un itinerario che permette di seguire un ipotetico viaggiatore di fine Settecento (l’epoca d’oro del Grand Tour vien fatta risalire al periodo compreso tra la Pace di Aquisgrana del 1748 e la discesa in Italia delle armate francesi nel 1796) nel suo percorso in Italia, senza tralasciare, in apertura, le motivazioni del viaggio, e accompagnandolo tra le capitali del Grand Tour, facendo conoscenza con gli artisti che avevan deciso di fermarsi in Italia (alcuni di loro sarebbero diventati addirittura antesignani delle odierne guide turistiche), osservando gl’italiani del tempo e soffermandosi a cercare un souvenir prima di tornare a casa. Sulla carta, una mostra difficile: perché l’argomento non è di quelli di maggior appeal per il grande pubblico, perché il materiale sul Grand Tour è sterminato, perché il tema stesso ha confini che potrebbero essere allargati a dismisura (viaggiatori da paesi diversi si recavano in Italia con motivazioni diverse: lo illustrano bene i saggi d’approfondimento in catalogo, che ripercorrono la storia del Grand Tour dall’angolazione di quattro paesi, ovvero Gran Bretagna, Francia, Russia e Spagna, da cui provenivano i tourists). Ma ne è comunque risultata un’esposizione oltremodo coinvolgente, una delle più appassionanti tra quelle che si son viste alle Gallerie d’Italia negli ultimi anni, malgrado la mole di opere che i curatori han saputo radunare.

Sala della mostra Grand Tour. Sogno d’Italia da Venezia a Pompei
Sala della mostra Grand Tour. Sogno d’Italia da Venezia a Pompei
Sala della mostra Grand Tour. Sogno d’Italia da Venezia a Pompei
Sala della mostra Grand Tour. Sogno d’Italia da Venezia a Pompei
Sala della mostra Grand Tour. Sogno d’Italia da Venezia a Pompei
Sala della mostra Grand Tour. Sogno d’Italia da Venezia a Pompei
Sala della mostra Grand Tour. Sogno d’Italia da Venezia a Pompei
Sala della mostra Grand Tour. Sogno d’Italia da Venezia a Pompei
Sala della mostra Grand Tour. Sogno d’Italia da Venezia a Pompei
Sala della mostra Grand Tour. Sogno d’Italia da Venezia a Pompei

Si parte con una sala dedicata alle “Capitali del Grand Tour”, che raduna alcune vedute dei principali snodi dei viaggiatori del tempo, individuati in Roma, Firenze, Napoli e Venezia, benché il viaggio dei grand tourists facesse tappa in svariate città, da Ravenna a Mantova, da Bologna a Milano, da Genova a Lucca. Ma non poteva prescindere dalle quattro capitali: di solito i viaggiatori giungevano da nord (o via mare, sbarcando a Genova o Livorno) e raggiungevano Firenze, per poi scendere attraverso Roma fino a Napoli, e poi risalire per far sosta a Venezia prima di riprendere la via di casa. A Firenze (richiamata dalla veduta di Thomas Patch che apre la mostra) ci si fermava per il Rinascimento, per ammirare le collezioni degli Uffizi, per osservare gli esiti del mecenatismo mediceo. Roma stupiva, intanto, per le rovine: la meravigliosa veduta del Colosseo di Gaspar van Wittel, in arrivo da Norfolk, è una delle vette dell’esposizione, e la coppia di vedute di Michelangelo Barberi, una dei fori e una di San Pietro, restituisce con icastica chiarezza il contrasto tra la Roma antica e quella moderna che ammaliava i viaggiatori. E poi, Roma seduceva per l’idea d’un’antica grandezza perduta, attirava per la presenza d’artisti e artigiani che l’avevano resa la maggior piazza dove trovare ricordi del proprio tour. A Napoli ci s’emozionava per il Vesuvio e le sue eruzioni, peraltro numerose tra Sei e Settecento (un’intera sezione della mostra è dedicata proprio al Vesuvio, tanto era il fascino ch’esercitava sui viaggiatori stranieri), e ci si lasciava cullare dall’amenità dei paesaggi. E infine Venezia era la città degli eventi, che viveva il suo irreparabile declino tra feste favolose: l’affollatissima regata sul Canal Grande dipinta dal Canaletto ne è una piena dimostrazione.

L’Italia era divenuta meta prediletta del viaggio anche perché era possibile vedervi da vicino, come in nessun altro paese era possibile fare, le rovine di quel passato che andava studiato e conosciuto per poter dire d’aver avuto una formazione completa: la sezione sul “fascino delle antiche rovine” indaga questo aspetto, quasi sempre coincidente con le motivazioni stesse del soggiorno in Italia, con una serie di dipinti tra i quali svettano, oltre al celeberrimo Capriccio del Canaletto conservato al Poldi Pezzoli di Milano, dipinto emblematico e simbolo d’una temperie culturale in quanto capace di fondere antico e moderno e suscitare al contempo sentimenti di stupore e nostalgia, due dipinti meno noti come la veduta ideale di Giovanni Paolo Pannini (Ilaria Sgarbozza in catalogo la definisce “uno dei capricci più belli e significativi” della produzione dell’artista piacentino, “per la qualità sia delle architetture sia dei personaggi e per il notevole stato di conservazione”, senza contar la sua rarità), che allinea una serie di monumenti tutti in realtà molto distanti ma presenti sulla tela in quanto tesi a soddisfare la precisa richiesta d’un committente, e il Capriccio con il Pantheon di Hubert Robert, dalle collezioni dei principi del Liechtenstein. Le rovine del pittore francese, spiega bene Mazzocca in catalogo, “preludono alla visione drammatica e romantica dell’antico, quale testimonianza della caducità delle civiltà e della fragilità degli umani destini”: l’iter cronologico della mostra s’arresta proprio agli albori del romanticismo. C’è poi un interessante gruppo di dipinti che fa quasi da cerniera con la sezione successiva, dedicata ai paesaggi mediterranei dell’Italia: ecco dunque un altro dipinto denso di sensibilità romantica, La tomba di Virgilio al chiaro di luna di Joseph Wright of Derby che ben trasmette il senso d’un paesaggio, quello italiano, che appariva (e appare ancor oggi) “intriso di una memoria storica che oltrepassava le vestigia antiche di cui era disseminato” (così Grandesso), ed ecco le rovine dei templi siciliani (Sicilia che, peraltro, inizialmente era ai margini del Grand Tour, date le difficoltà logistiche per raggiungerla, e fino agli anni Settanta-Ottanta del Settecento era rimasta meta di pochi temerarî, ma presto sarebbe stata riscoperta), che rifulgono sotto la luce calda del sole meridionale nei dipinti di Ferdinand Georg Waldmüller e, quasi senza che ce ne accorgiamo, ci guidano verso il capitolo seguente.

I tourists, del resto, erano attratti anche dalla straordinaria varietà del paesaggio italiano che, scrive Francesco Leone, “regalava set indimenticabili per la loro diversità ma anche per gli intrecci con la cultura classica”. Difficile separare l’attrazione per il paesaggio da quella per il ricordo dei tempi antichi, impossibile pensare all’Italia scindendo il territorio dalla traccia dell’uomo: prima dei padri costituenti, che hanno inserito questo connubio indissolubile nell’articolo 9 della Carta, lo avevano ben inteso i viaggiatori del Grand Tour. Descrivere il paesaggio italiano voleva dire, pertanto, dar conto dell’azione che l’essere umano, spesso costretto a difendersi da una natura avara in tante zone del nostro paese, ha dovuto intraprendere per adattarsi: simbolo della sezione è un quadro di Jakob Philipp Hackert che, seppur inserito tra dipinti appartenenti alla sezione successiva, ben comunica quest’idea, coi faraglioni di Aci Trezza che torreggiano sulla riva del mare e a cui rispondono gli edifici del borgo marinaro sulla costa. Un’intera sezione, che occupa da sola quasi una sala, è dedicata, si diceva, ai bagliori del Vesuvio: data la quantità di testimonianze, lettere e descrizioni di viaggiatori stranieri impressionati dall’attività del vulcano, i curatori hanno pensato di riservargli un capitolo a sé, con dipinti di grande, medio e piccolo formato, alcuni dei quali (come l’Eruzione del Vesuvio alla luce della luna del francese Pierre-Jacques Volaire, specialista del genere) lasciano attoniti anche noi contemporanei, investendoci di quel senso del sublime che doveva animare quei viaggiatori che, in assenza d’ogni comodità e d’ogni mezzo di sicurezza, tentavano la scalata alla cima e si fermavano poi a contemplare lo spettacolo che si parava dinnanzi ai loro occhi meravigliati.

Thomas Patch, Veduta di Firenze da Bellosguardo (1767; olio su tela, 111,5 x 224,5 cm; Firenze, Fondazione CR Firenze)
Thomas Patch, Veduta di Firenze da Bellosguardo (1767; olio su tela, 111,5 x 224,5 cm; Firenze, Fondazione CR Firenze)
Gaspar van Wittel, Veduta del Colosseo con l'arco di Costantino (1716; olio su tela, 54,5 x 114,3 cm; Norfolk, The Earl of Leicester and the Trustees of the Holkham Estate)
Gaspar van Wittel, Veduta del Colosseo con l’arco di Costantino (1716; olio su tela, 54,5 x 114,3 cm; Norfolk, The Earl of Leicester and the Trustees of the Holkham Estate)
Canaletto, Regata sul Canal Grande (1740 circa; olio su tela, 117,2 x 186,7 cm; Londra, The National Gallery)
Canaletto, Regata sul Canal Grande (1740 circa; olio su tela, 117,2 x 186,7 cm; Londra, The National Gallery)
Canaletto, Capriccio architettonico con rovine ed edifici classici (1756-1757; olio su tela, 91 x 108,6 cm; Milano, Museo Poldi Pezzoli)
Canaletto, Capriccio architettonico con rovine ed edifici classici (1756-1757; olio su tela, 91 x 108,6 cm; Milano, Museo Poldi Pezzoli)
Giovanni Paolo Pannini, Veduta ideale con il Pantheon, la Colonna Antonina, la statua equestre di Marco Aurelio e altri monumenti romani (1734; olio su tela, 98 x 135 cm; Londra, Collezione Ugo e Chiara Pierucci)
Giovanni Paolo Pannini, Veduta ideale con il Pantheon, la Colonna Antonina, la statua equestre di Marco Aurelio e altri monumenti romani (1734; olio su tela, 98 x 135 cm; Londra, Collezione Ugo e Chiara Pierucci)
Hubert Robert, Capriccio con il Pantheon davanti al parco di Ripetta (1761; olio su tela, 102 x 146 cm; Vaduz, Liechtenstein The Princely Collection)
Hubert Robert, Capriccio con il Pantheon davanti al parco di Ripetta (1761; olio su tela, 102 x 146 cm; Vaduz, Liechtenstein The Princely Collection)
Joseph Wright of Derby, La tomba di Virgilio al chiaro di luna (1782; olio su tela, 101,6 x 127 cm; Derby, Derby Museum and Art Gallery)
Joseph Wright of Derby, La tomba di Virgilio al chiaro di luna (1782; olio su tela, 101,6 x 127 cm; Derby, Derby Museum and Art Gallery)
Jakob Philipp Hackert, I faraglioni di Aci Trezza (1793; olio su tela, 143 x 218 cm; Caserta, Reggia di Caserta)
Jakob Philipp Hackert, I faraglioni di Aci Trezza (1793; olio su tela, 143 x 218 cm; Caserta, Reggia di Caserta)
Pierre-Jacques Volaire, Eruzione del Vesuvio alla luce della luna (post 1774; olio su tela, 260 x 385 cm; Maisons-Laffitte, Château de Maisons)
Pierre-Jacques Volaire, Eruzione del Vesuvio alla luce della luna (post 1774; olio su tela, 260 x 385 cm; Maisons-Laffitte, Château de Maisons)

Quanto alle due sezioni successive, quelle dedicate ai viaggiatori e agli artisti (forse le meno interessanti per il grande pubblico), val la pena soffermarsi, più che sulle storie personali dei singoli personaggi che s’incontrano sulle pareti, su alcuni episodî (come lo splendido ritratto della famiglia Tolstoj di Giulio Carlini, che torna in Italia a cinque anni di distanza dalla mostra carrarese di cui s’è detto, nonostante sia lontanissimo nel tempo essendo opera del 1855, o come il singolare dipinto di Franz Ludwig Catel che, a Napoli, ritrae Karl Friedrich Schinkel alla finestra, simbolo per eccellenza del Sehnsucht e del sentimento romantico) e su alcuni acuti che i curatori hanno saputo inserire in queste sale per ravvivare una sezione che rischia di rimanere indigesta se non si nutre una forte passione per l’argomento, o per la ritrattistica settecentesca. Primo: la possibilità d’osservare la nascita d’un nuovo genere artistico, inventato dal grande Pompeo Batoni, pittore ben noto alla critica, tra i più grandi italiani del secolo XVIII, ma molto sottovalutato dal pubblico. Una riforma a pieno titolo esemplificata da tutti i suoi ritratti presenti in mostra, che raffigurano gentiluomini stranieri in piedi, spesso in compagnia del loro cane, vicino a monumenti antichi o statue: Batoni imponeva così, spiega Grandesso, “un modello sofisticato che incontra le aspettative di gusto e le ambizioni di autorappresentazione del rango più elevato dell’aristocrazia”. In pratica, Batoni riusciva a fondere un genere ritenuto troppo imitativo come il ritratto con suggestioni paragonabili a quelle della pittura di storia, creando souvenir d’altissimo livello e prodotti innovativi allo stesso tempo. Secondo: la nascita del neoclassicismo. Ci si trattiene a lungo dinnanzi a due dipinti del rivale di Batoni, il tedesco Anton Raphael Mengs, che al contrario del più anziano lucchese aveva voluto e saputo farsi interprete degl’ideali d’imperturbabilità e di compostezza di Johann Joachim Winckelmann, soggetto di uno dei due ritratti di Mengs in mostra (l’altro è invece Mengs stesso, in uno degli autoritratti più belli del tempo). Terzo: il femminile. Ci si lascia incantare dalla freschezza e dalla delicatezza dell’autoritratto di Louise-Élisabeth Vigée-Le Brun, autrice d’una pittura ricca e intensa che rivaleggiava con quella di Angelica Kauffmann, che invece è presente nella sezione successiva, dedicata alla “bellezza italiana”.

Per la prima volta si vede dunque in mostra l’Italia del tempo, l’Italia moderna, con la quale molti artisti inevitabilmente si trovavano a misurarsi. “Le attrazioni della vita moderna”, scrive Grandesso, “comprendono anche gli aspetti della vita sociale, ad esempio legati ai teatri, dunque alla musica e alle esibizioni delle celebri poetesse improvvisatrici, dall’altro alle feste popolari, il carnevale romano con la corsa dei cavalli berberi e i moccoletti, la girandola dei fuochi a Castel Sant’Angelo, l’ottobrata, il gioco della palla col bracciale e le corride al teatro Corea”. Protagonisti di questi dipinti sono personalità altolocate, come le belle Domenica Morghen e Maddalena Volpato dipinte come due muse nella campagna da Angelica Kauffmann, ma sono anche i popolani dei Primi passi dell’infanzia di Jacques-Henri Sablet, pittore francese particolarmente interessato a questi momenti di vita quotidiana trasfigurati in composte scene di genere, o i poveri ma dignitosissimi Pellegrini di Roma di Paul Delaroche, dipinto dove siamo catturati dal fiero orgoglio della madre al centro, sporca e stanca, e ovviamente sì idealizzata in modo quasi irreale, ma bellissima nel suo piglio severo. L’atto finale della mostra, prima di giungere alle due appendici, è una scena di vita siciliana catturata in Alle porte del monastero da Waldmüller, pittore austriaco alieno da qualunque volontà di denuncia sociale (molti viaggiatori, specialmente nelle opere scritte, non avevan potuto fare a meno di sottolineare lo stridore tra i fasti del passato e le miserevoli condizioni in cui molti versavano nel presente), e autore d’un dipinto efficacemente riassunto da Elena Lissoni come un quadro capace di catturare catturare “insieme all’incanto della natura mediterranea e dei monumenti antichi anche la bellezza del popolo siciliano, dei suoi costumi e di una vita all’aria aperta, che ancora conservava un ritmo primordiale e una religiosità semplice”.

Prima d’uscire dalle Gallerie d’Italia, ci s’aggira per le ultime due sezioni, che chiudono la mostra a guisa d’appendici, come detto. Una è dedicata a souvenir, oggetti d’arte e manifatture del lusso: grandi vasi di porfido, statuette in bronzo dorato, piani di tavolo di pietre dure, vaschette di marmo e anche un incredibile centrotavola (quello di Giovanni Volpato, con Trionfo di Bacco e Arianna, Apollo e le Muse che s’ammira nel salone centrale) erano alcuni degli oggetti che i grand tourists traevano con sé dalle loro peregrinazioni. Spicca, nel mezzo della sala della ritrattistica, anche un curioso tavolo a mosaico di Michelangelo Barberi, decorato a smalto con vedute di Roma: un lavoro di altissimo livello forse eseguito addirittura per il futuro zar Alessandro II, che ventenne compì il suo Grand Tour tra il 1838 e il 1839, e al 1839 risale l’opera. Attorno al salone centrale si dispone poi una serie di statue, antiche e moderne, che lasciano il visitatore con la suggestione che la passione per l’antico doveva infondere a chi non vedeva l’ora d’arrivare in Italia. Statue, come il Laooconte che aveva ispirato lo stesso Winckelmann e alcune delle sue pagine più celebri, che si ponevano come modello da celebrare e copiare: nasceva un nuovo gusto collezionistico ben rappresentato da uno dei capolavori di Canova, l’Amorino alato eseguito per il principe russo Nikolaj Jusupov, innamorato di Roma e dell’arte classica, e in prestito dall’Ermitage di San Pietroburgo.

Pompeo Batoni, Ritratto di Henry Peirse (1774-1775; olio su tela, 249 x 175 cm; Roma, Gallerie Nazionali d'Arte Antica, Palazzo Barberini)
Pompeo Batoni, Ritratto di Henry Peirse (1774-1775; olio su tela, 249 x 175 cm; Roma, Gallerie Nazionali d’Arte Antica, Palazzo Barberini)
Anton Raphael Mengs, Ritratto di Johann Joachim Winckelmann (1777 circa; olio su tela, 63,5 x 49,2 cm; New York, The Metropolitan Museum of Art)
Anton Raphael Mengs, Ritratto di Johann Joachim Winckelmann (1777 circa; olio su tela, 63,5 x 49,2 cm; New York, The Metropolitan Museum of Art)
Louise-Élisabeth Vigée-Le Brun, Autoritratto (1800; olio su tela, 78,5 x 68 cm; San Pietroburgo, Ermitage)
Louise-Élisabeth Vigée-Le Brun, Autoritratto (1800; olio su tela, 78,5 x 68 cm; San Pietroburgo, Ermitage)
Angelica Kauffmann, Ritratto di Domenica Morghen come musa della tragedia e di Maddalena Volpato come musa della commedia (1791; olio su tela, 125 x 158 cm; Varsavia, Muzeum Narodowe w Warszawie)
Angelica Kauffmann, Ritratto di Domenica Morghen come musa della tragedia e di Maddalena Volpato come musa della commedia (1791; olio su tela, 125 x 158 cm; Varsavia, Muzeum Narodowe w Warszawie)
Jacques-Henri Sablet, I primi passi dell'infanzia (1789; olio su tela, 150,5 x 203,5 cm; Forlì, Museo Civico San Domenico, Pinacoteca)
Jacques-Henri Sablet, I primi passi dell’infanzia (1789; olio su tela, 150,5 x 203,5 cm; Forlì, Museo Civico San Domenico, Pinacoteca)
Paul Delaroche, I pellegrini di Roma (1842; olio su tela, 164 x 205 cm; Poznan, Muzeum Narodowyn w Poznaniu)
Paul Delaroche, I pellegrini di Roma (1842; olio su tela, 164 x 205 cm; Poznan, Muzeum Narodowyn w Poznaniu)
Ferdinand Georg Waldmüller, Alle porte del monastero (1846; olio su tavola, 61 x 79 cm; San Pietroburgo, Ermitage)
Ferdinand Georg Waldmüller, Alle porte del monastero (1846; olio su tavola, 61 x 79 cm; San Pietroburgo, Ermitage)
Michelangelo Barberi, Giornate romane (1839; smalto su bronzo, mosaico romano, rilievo dorato e metallo fuso, altezza 79 cm, diametro 103 cm; San Pietroburgo, Ermitage)
Michelangelo Barberi, Giornate romane (1839; smalto su bronzo, mosaico romano, rilievo dorato e metallo fuso, altezza 79 cm, diametro 103 cm; San Pietroburgo, Ermitage)
Antonio Canova, Amorino alato (1794-1797; marmo, 142 x 54,5 x 48 cm; San Pietroburgo, Ermitage)
Antonio Canova, Amorino alato (1794-1797; marmo, 142 x 54,5 x 48 cm; San Pietroburgo, Ermitage)

Rispetto ad altre occasioni espositive che in passato hanno ripercorso la storia del Grand Tour, la mostra delle Gallerie d’Italia si concentra, più che sull’aspetto storico e cronologico in sé (che comunque viene ben evidenziato laddove necessario, specialmente in avvio), sulle singole tappe del viaggio, sulle storie dei viaggiatori e degli artisti, sulle ragioni che muovevano i grand tourists, sulle sensazioni che il soggiorno in Italia suscitava sui loro animi. Sotto il profilo delle vicende storico-artistiche, l’aspetto forse più significativo della mostra è l’aver rimarcato che l’Italia fu centro di produzione artistica di livello europeo, dove si continuava a sperimentare e a innovare: nel percorso questa attitudine emerge dalle opere di Batoni, di Canaletto, di Piranesi, di Canova, oltre che dei tanti che li seguirono. L’obiettivo che i curatori si son prefissati, dichiarandolo nella premessa di catalogo, ovvero quello di smentire il pregiudizio secondo cui l’Italia, nella seconda metà del Settecento, non avrebbe prodotto un’arte all’altezza del suo passato, è dunque ben centrato, dimostrato dalle opere che testimoniano un vitalismo fecondo, e lo stesso Grand Tour, in questo panorama, offrì un contributo non secondario.

Chi vorrà, potrà infine leggere sottotraccia l’idea di Grand Tour come “specchio” che sta alla base di uno dei libri più celebri di Cesare De Seta, per quanto la rassegna di Palazzo Anguissola Antona Traversi si focalizzi più sul punto di vista dei viaggiatori che su quello degli abitanti. Un punto di vista ch’era stato comunque fondamentale per la formazione di quella coscienza di sé che l’Italia assumeva “nello specchio del Grand Tour”, scriveva De Seta. Una coscienza che s’è formata anche col contributo dei viaggiatori stranieri, “attraverso la loro diretta esperienza che ha il vantaggio di essere volta a larghe parti della penisola, così come si evince dalle fonti letterarie, dai diari di viaggio, dalle guide pratiche, fino alle ponderose opere erudite sulla storia d’Italia”. I paesaggi, le città con le loro piazze e i loro palazzi, i monumenti antichi e moderni, le rovine del passato sono gli elementi che compongono quello specchio in cui si rifletteva il viaggiatore, “e questi a sua volta nelle sue letture e interpretazioni riflette la cangiante immagine del paese”. E il Grand Tour assume così la dimensione di momento fondamentale della storia nazionale.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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