Pietro Aretino, uno dei personaggi più importanti e considerati del ‘500. Intervista a Paolo Procaccioli


Pietro Aretino non fu solo un grande letterato, ma fu un uomo tenuto in grande considerazione dai politici, dagli scrittori e dagli artisti del tempo. Del suo ruolo nel contesto politico e culturale del tempo abbiamo parlato con Paolo Procaccioli.

Ancora sulla mostra monografica dedicata a Pietro Aretino (Arezzo, 1492 - Venezia, 1556), intitolata Pietro Aretino e l’arte del Rinascimento, che si terrà nell’Aula Magliabechiana della Galleria degli Uffizi dal 27 novembre 2019 al 1° marzo 2020. La scorsa settimana abbiamo pubblicato l’intervista a due dei tre curatori della rassegna, Anna Bisceglia e Matteo Ceriana. Pubblichiamo oggi l’intervista al terzo curatore, Paolo Procaccioli, uno dei massimi esperti di letteratura italiana rinascimentale, docente di Letteratura Italiana all’Università della Tuscia, per tracciare un profilo di Pietro Aretino e di come veniva considerato al suo tempo dai contemporanei. Intervista a cura di Federico Giannini, direttore responsabile di Finestre sull’Arte.

FG. In che modo la mostra racconterà la figura di Pietro Aretino e quale approccio è stato scelto per presentare al pubblico un personaggio dalla personalità e dalla vicenda così complessa?
PP. C’è un problema preliminare: questa è una mostra che ha due facce. Da un certo punto di vista è una mostra facilissima perché di fatto il catalogo è già tutto pronto, nel senso che le opere di Aretino (soprattutto le lettere ma anche il resto) sono una cronaca della vita artistica italiana dagli anni Venti fino alla metà degli anni Cinquanta del Cinquecento. Il problema semmai è la selezione: quindi, da questo punto di vista, non abbiamo avuto nessun problema nel giustificare la presenza delle varie opere. La difficoltà naturalmente sta nell’altro aspetto: il perché organizzare una mostra nel nome di Pietro Aretino. Ci sono ancora, purtroppo (anche se non sono più così assoluti come erano fino a trent’anni fa), grossi pregiudizî relativamente all’autore. Si tratta di pregiudizî che prima erano di tipo moralistico (adesso li abbiamo rimossi: questo, per lo meno, nella maggior parte delle persone di cultura), ma rimangono sempre pregiudizî molto forti relativi al peso, al ruolo, al senso della sua presenza sulla scena del Cinquecento. E questo è un problema esclusivamente nostro, perché per i suoi contemporanei la sua presenza era ovvia. Basti pensare che si contendevano la parola di Aretino personaggi come il re di Francia e l’imperatore, e se la contendevano a suon di regali estremamente impegnativi e significativi come potevano essere all’epoca le collane e com’erano le pensioni. Se noi consideriamo che nel 1536 Aretino ha dall’imperatore una pensione annuale, mentre fino a quel momento era stato sempre in orbita francese, in qualche modo titolare dell’immagine pubblica di Francesco I in Italia, questo della pensione diventa un fatto estremamente significativo, riprova di una campagna acquisti in atto che vede l’imperatore prendere posizione direttamente senza che Aretino avanzi una candidatura. Dire che l’imperatore lo scippa al re può sembrare un’espressione forte, a effetto, ma la sostanza è questa. Nella circostanza Aretino cambia parte ma lo fa alle sue condizioni, la prima delle quali è di non essere un dipendente dell’imperatore ma un osservatore super partes che s’incarica di dire la verità. Naturalmente la verità sarà soprattutto quella di parte spagnola, però nel gioco dei ruoli comportamenti come quelli (quello dell’imperatore e quello dello scrittore) sono significativi di un ruolo pubblico che viene riconosciuto. In risposta a questo, un paio di anni dopo, nel 1538, Francesco I, il patrono precedente, offre ad Aretino un compenso che corrispondeva a quanto Aretino aveva già avuto dall’imperatore. Ho ricordato questo episodio per dimostrare che Pietro non era personaggio che passava inosservato, e questo sulla scena politica nazionale e internazionale. Lo stesso succede sulla scena letteraria, dove Aretino può vantare rapporti molto stretti con Bembo ed è elogiato da Ariosto. Noi siamo abituati a vedere queste figure come alternative allo scrittore di Arezzo, come rappresentanti di modi opposti di vivere la lingua, la letteratura, la poesia: questo è il punto di vista che la storia ci ha consegnato, ma poi i fatti raccontano altro e ci mostrano questi autori concordi e nell’atto di elogiarsi reciprocamente. Sul versante artistico, basti ricordare che Aretino ha rapporti strettissimi tanto con Raffaello e il suo mondo, a cominciare da Giulio Romano e Marcantonio Raimondi, quanto con il mondo di Michelangelo, con Sebastiano del Piombo; così come, più tardi, con Tiziano, Sansovino, Tintoretto, Vasari, Leone Leoni. Insomma, praticamente tutta l’arte della prima metà del Cinquecento, esclusi pochissimi nomi. Queste sono un po’ le ragioni di fondo della mostra, poi riuscire o meno a far passare questo discorso è un’altra cosa.

Jean Clouet, Ritratto di Francesco I (1530 circa; olio su tavola, 96 x 74 cm; Parigi, Louvre)
Jean Clouet, Ritratto di Francesco I (1530 circa; olio su tavola, 96 x 74 cm; Parigi, Louvre)


Juan Pantoja de la Cruz, Ritratto di Carlo V, copia da un originale perduto di Tiziano (1605; olio su tela, 183 x 110 cm; Madrid, Prado)
Juan Pantoja de la Cruz, Ritratto di Carlo V, copia da un originale perduto di Tiziano (1605; olio su tela, 183 x 110 cm; Madrid, Prado)

Abbiamo detto in prima battuta che uno dei problemi principali della mostra è stato quello di operare una selezione tra le opere da presentare al pubblico: in che modo si è proceduto?
Ci sono da una parte dei vincoli oggettivi, opere che non sono trasportabili, affreschi, opere vincolate da altre mostre (in questo periodo per esempio sono in cantiere importanti mostre su Raffaello e Giulio Romano, tutti interlocutori forti di Aretino), quindi qualche pezzo non si è potuto avere per questo tipo di ragioni, ma sono ragioni fisiologiche. Quello che è stato scelto, e che non è poco, sono oggetti (quadri, statue, medaglie, disegni, incisioni) che dànno conto delle fila principali dei rapporti di Aretino sia con gli artisti che con i potenti. Si tratta di oggetti che Aretino ha ricevuto in dono o che ha donato, che ha visto e celebrato, che ha commissionato, che ha sollecitato, che ha procurato per questo o quel potente. La politica del dono che lui ha perseguito per tutta la vita è una politica che poteva essere portata avanti solo con l’appoggio (a me piace parlare di complicità) degli artisti. Questo è un altro dettaglio che mi sembra interessante da sottolineare: la parola di Aretino è vissuta dagli artisti (questo ci dicono i fatti) come una parola interna al loro mondo, alla loro categoria. E questo sulla base di dati di fatto anche biografici: si pensi che la prima opera a stampa di Aretino è una raccolta di poesiole di tipo petrarchesco, pubblicata nel 1512, che si intitola Opera Nova. Nel frontespizio quel testo è detto Opera Nova di Pietro pittore Aretino. Dunque al suo esordio lui si presenta come pittore. Questo vuol dire che faceva pratica di pittura quando era a Perugia? Non si sa; l’autore di una poesia anonima scritta contro di lui a Venezia nei primi anni Trenta dice che sarebbe stato meglio per lui se fosse rimasto a fare il pittore: quindi, o vera o falsa che fosse, girava voce che Aretino avesse avuto un noviziato da pittore. L’ultima opera che viene pubblicata con il suo nome nel frontespizio, nel 1557 (Aretino era morto da un anno), e prima che con l’Indice dei libri proibiti il suo nome diventasse impronunciabile, è il Dialogo della pittura intitolato l’Aretino di Lodovico Dolce. Quindi questo personaggio, da quando apre bocca nel 1512 a quando parla per l’ultima volta, lo fa nel nome dell’arte rivendicando una competenza diretta, esplicita, riconosciuta dagli altri. Nel primo caso se l’era detto da solo firmandosi “pittore”, nell’ultimo uno scrittore che riflette sulla pittura del primo Cinquecento sostenendo le ragioni di Tiziano e dei veneziani contro quelle di Vasari fa tutto questo nel nome di Aretino, che tra l’altro era amico di Vasari ed era un toscano. Non si poteva dare riconoscimento più pieno della sua autorevolezza.

Ludovico Dolce, Dialogo della Pittura di M. Lodovico Dolce, intitolato l'Aretino. Nel quale si ragiona della dignità di essa Pittura, e di tutte le parti necessarie, che a perfetto Pittore si acconvengono; con esempi di pittori antichi, & moderni: e nel fine si fa mentione delle virtu e delle opere del Divin Titiano (1557; edizione originale stampata in Venezia da Gabriel Giolito de' Ferrari; collezione privata)
Ludovico Dolce, Dialogo della Pittura di M. Lodovico Dolce, intitolato l’Aretino. Nel quale si ragiona della dignità di essa Pittura, e di tutte le parti necessarie, che a perfetto Pittore si acconvengono; con esempi di pittori antichi, & moderni: e nel fine si fa mentione delle virtu e delle opere del Divin Titiano (1557; edizione originale stampata in Venezia da Gabriel Giolito de’ Ferrari; collezione privata)

È molto interessante il discorso sugli esordî di Pietro Aretino, perché quando pensiamo a Pietro Aretino solitamente ce lo immaginiamo all’apice della sua fortuna e della sua gloria, in rapporto con i politici, con gli artisti, con i grandi letterati. Della sua infanzia e dei suoi inizî sappiamo poco, ma cosa possiamo dire e come la mostra affronterà questo problema?
Sappiamo molto poco, soprattutto quello che ci dice lui nelle lettere nelle quali costantemente rievoca gli anni e le amicizie di Perugia, cose delle quali parla sempre in termini estremamente positivi, commossi, e sono amicizie che riconducono a un mondo che era a cavallo tra letteratura e arte. Questo è un elemento importante; sembra vago, ma al contrario è un elemento forte perché questi riferimenti potevano essere smentiti. Una delle caratteristiche della scrittura epistolare di Aretino è che quei testi non vengono pubblicati alla fine di una carriera come si faceva di solito: sono lettere pubblicate entro poco tempo dall’invio (ogni quattro anni lui pubblicava un libro di lettere), quindi il rischio di essere smentito o di essere superato da se stesso era forte. Lui questo rischio lo corre e non abbiamo notizia di nessuna lettera (delle oltre tremila da lui pubblicate) che sia stata contestata: nessuno, neanche i nemici che ha avuto (i più accaniti sono stati letterati suoi ex amici), mai, neanche una volta, lo ha accusato di aver pubblicato una lettera falsa. Fatti come questo ci aiutano a capire che le lettere che lui scriveva e nelle quali rievocava le stagioni del passato sono lettere che hanno un tasso di realtà e di veridicità piuttosto alto. Poi si può interpretare e sottoporre ad analisi il fatto che lui tiri le cose a suo favore, ma questo è inevitabile in ogni testo militante. Questo per quanto riguarda la documentazione. Poi c’è un altro dettaglio: quando Aretino arriva a Roma (e non sappiamo quando lascia Perugia per Roma) ci arriva e di fatto viene accolto in circoli che erano esclusivi, come il circolo raccolto intorno ad Agostino Chigi e quello intorno a Leone X. In grazia di che cosa Aretino vi viene cooptato? Noi conosciamo soprattutto le sue amicizie artistiche. A lungo lo si è presentato come un mezzo buffone, uno dei tanti dei quali si attorniava papa Leone, ma nessuno di quelli era destinato a percorrere una carriera paragonabile a quella di Pietro. E quando poi prenderà la parola come Pasquino, quella parola sarà una parola importante dal punto di vista politico: la forma era buffonesca e comica, ma se noi pensiamo che quei testi venivano trascritti da agenti e ambasciatori, si capisce che quella parola aveva un peso politico forte, e allora dato che soltanto Aretino ha avuto il coraggio di presentarsi come Pasquino e nessuno ha messo in discussione quell’identificazione, mi pare che le cose si presentino in una maniera tale da restituirci un’immagine forte di questo personaggio. La mostra asseconderà le fila dei rapporti e delle amicizie e mostrerà la differenza delle frequentazioni, altissime quelle artistiche a fronte di rapporti letterari inesistenti o quasi.

Aretino si inserisce perfettamente in questi circoli (abbiamo citato quello di Agostino Chigi e quello di Leone X), e diventa subito un personaggio abbastanza controverso. Ma qual è il giudizio che i contemporanei dànno di Aretino? Che figura emerge da quello che i suoi contemporanei pensavano di lui?
Parto da due esempî. Nei primi anni Venti, Aretino è in rapporti strettissimi con il marchese di Mantova (poi diventerà duca ma negli anni romani era marchese) e con la cerchia francese. E lo era al punto che Francesco I chiedeva a Giovanni dalle Bande Nere di portare con sé Aretino perché lo voleva conoscere. Se i politici guardavano a lui con considerazione e ritenevano la sua una parola efficace, degli artisti è inutile parlare. Bastino anche qui due riferimenti: nel 1524 Aretino si trova effigiato da Sebastiano del Piombo e contemporaneamente oggetto di un’incisione di Marcantonio Raimondi, cioè da una parte di un rappresentante, il più alto, del circolo, tra l’altro ristrettissimo, di Michelangelo, e dall’altra di uno degli incisori della bottega di Raffaello. Tutti e due ritraggono Aretino in veste non di Pasquino ma di un perfetto cortigiano. Il risultato è che i due artisti, espressioni di mondi in competizione, su Aretino dicono la stessa cosa, ed è una cosa tutt’altro che ovvia. E la cosa poi continuerà per tutto il Cinquecento, perché Aretino avrà tre ritratti di Tiziano (uno è andato perduto ma due sono rimasti), avrà ritratti del Moretto, avrà una serie infinita di medaglie, per non parlare poi di due ritratti di destinazione pubblica che sono estremamente significativi e che però non possono essere in mostra: uno è l’affresco di Vasari in Palazzo Vecchio, nella sala di Leone X, che presenta Aretino accanto ad Ariosto nel momento in cui Leone X fa il suo ingresso a Firenze (la cosa è inverosimile dal punto di vista storico ma estremamente significativa da quello ideale). Questo affresco è all’incirca del 1558, quindi risale a due anni dopo la morte di Aretino, a un momento in cui si vuole celebrare una gloria cittadina di casa Medici come era papa Leone X, e Aretino è un personaggio che sta lì presente, riconoscibilissimo, e lo dice Vasari stesso nelle sue Ricordanze. Quindi a Firenze, nei luoghi pubblici, post mortem, quella faccia poteva tranquillamente essere esibita. La stessa cosa a Venezia, dove nel 1564 viene collocata, nella sagrestia di San Marco (quindi in un luogo tra quelli di maggior prestigio pubblico) la porta di Sansovino sulla quale ci sono varî pannelli rettangolari, e uno di questi presenta ai quattro angoli delle testine: sono quelle dello stesso Sansovino, del figlio Francesco, di Tiziano e di Aretino. Certo, la porta era stata realizzata qualche decennio prima, attorno agli anni Quaranta, ma viene innalzata nel 1564, quando Aretino era all’Indice già da cinque anni. E non era una faccia sconosciuta: era la faccia del cittadino più ritratto del Cinquecento. Nonostante fosse all’Indice, sulla porta della sagrestia della chiesa più importante della città questo personaggio stava lì a indicare un ruolo. Questi sono fatti che nel Cinquecento mettevano d’accordo tutti quanti: non escludo che non ci possano essere state voci contrarie, ma non sono registrate, e dobbiamo presumere che la presenza a Firenze e a Venezia di questo personaggio in quegli anni non ha rappresentato un problema, anzi è stata vissuta come una cosa naturale. Dal mio punto di vista lo scopo della mostra è restituire naturalezza a associazioni come quelle, all’epoca ovvie e scontate: dagli anni Venti ai Sessanta del Cinquecento nessuno si sarebbe meravigliato, parlando di arte, per il fatto che Aretino figurasse tra gli addetti ai lavori. Noi adesso ci meravigliamo, al punto che forse per qualcuno una mostra del genere potrà sembrare una provocazione, ma se riusciamo a recuperare i punti di vista del tempo, tutto diventa estremamente logico.

Marcantonio Raimondi, Ritratto di Pietro Aretino, da Tiziano (1517-1520 circa; incisione, 21,3 x 15 cm; New York, Metropolitan Museum)
Marcantonio Raimondi, Ritratto di Pietro Aretino, da Tiziano (1517-1520 circa; incisione, 21,3 x 15 cm; New York, Metropolitan Museum)


Tiziano, Ritratto di Pietro Aretino (1545; olio su tela; Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti)
Tiziano, Ritratto di Pietro Aretino (1545; olio su tela; Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti)


Tiziano, Ritratto di Pietro Aretino (1537 circa; olio su tela, 101,9 x 85,7 cm; New York, The Frick Collection)
Tiziano, Ritratto di Pietro Aretino (1537 circa; olio su tela, 101,9 x 85,7 cm; New York, The Frick Collection)

Relazioni che al tempo erano naturali ma che non sono state ritenute così scontate successivamente. Abbiamo parlato anche dei pregiudizî di tipo moralistico che hanno oscurato nei secoli a venire la figura di Aretino, e del pregiudizio relativo al suo ruolo, al suo peso sulla scena del Cinquecento che in certi versi ancora permane. Come si è arrivati a superare definitivamente i pregiudizî moralistici sull’opera di Pietro Aretino e cosa si farà per superare anche quelli relativi al suo ruolo sulla scena del Cinquecento?
La storia è relativamente semplice: si tratta di fare un vero restauro. Ma non un restauro per ridare tono a qualche fisico un po’ cadente, qui si tratta semplicemente di recuperare le parole originali. Per l’Aretino scrittore questo è stato fatto con l’edizione nazionale delle opere. Adesso la maggior parte delle sue opere è disponibile in rete ma fino a pochi decennî fa per leggerlo bisognava andare in biblioteca. Il fatto che non ci fossero neanche le opere principali era già un giudizio. Ad Aretino, mettiamola così, non era riconosciuto il diritto di parola. Quindi l’edizione nazionale ha avuto la funzione di restituire questa parola e restituirla nei suoi termini originali, senza le superfetazioni che poi il tempo ha associato, perché l’effetto dell’Indice dei Libri Proibiti è un effetto che colpisce intanto eliminando (sono pochissime le edizioni anteriori rimaste e sono soprattutto fuori d’Italia), ma colpisce anche in un altro senso: se se ne parla, se ne deve parlare in un certo modo. Per cui anche le cose ovvie, positive, vengono tradotte in negativo. Allora recuperare il senso originario è l’aspetto che viene prima di tutti gli altri. Questo è stato fatto con l’edizione nazionale, che è quasi completa, mancano pochissimi testi. Da un punto di vista storico è stato invece necessario rivitalizzare i rapporti di questo personaggio con i potenti: il problema, per quanto riguarda questo aspetto, è che i lavori non sono stati portati avanti dagli storici di professione, fino a qualche anno fa sono stati piuttosto diffidenti e non hanno dato il rilievo giusto a categorie come la propaganda, che noi sappiamo essere sempre importantissima. Prima facevo riferimento al fatto che l’imperatore e il re si litigavano questo personaggio e che i loro ambasciatori a Venezia gli facevano la corte. Si pensi che quegli ambasciatori erano personalità di altissimo livello, in genere erano classicisti armati di competenze filologiche e dottrinarie di primissimo piano. Ecco, oltre che le lettere di Aretino e le dediche dei suoi libri sono i carteggi conservati negli archivi (di Mantova, di Firenze, di Simancas... ) a dirci che questi personaggi frequentavano la casa di Aretino e che Aretino frequentava la loro casa. Ascoltare quelle voci è la precondizione per interpretare la parola di Aretino e recuperarne il ruolo pubblico.

In ultima battuta, per avviarci verso la conclusione: perché il pubblico dovrebbe visitare la mostra?
Direi soprattutto per restituire un senso compiuto a un Rinascimento artistico nel quale, non parlo ovviamente per gli specialisti, la figura di un protagonista come Pietro Aretino non figura. Al tempo stesso perché racconta una storia vissuta in prima persona. La storia di un’arte incarnata, fatta amicizia e politica ma né cieca né sorda, e per questo viva, in grado di penetrare le ragioni delle botteghe e di renderle familiari al grande pubblico dei lettori del tempo. È una storia intrisa di passioni e di interessi, e dunque non pura, ma onesta nel dichiarare il proprio punto di vista, e nella quale, per la prima volta, le vicende degli artisti e con loro dell’arte conquistano il primo piano. Diventano una delle fila più importanti attraverso le quali tessere la tela che ci consegna una stagione per la penetrazione della quale anche noi non sapremmo fare a meno di quel filo. Pietro Aretino non è il primo scrittore a parlare d’arte, ma lo fa con una parola personalissima che non è quella asettica e distaccata del trattatista. Questo fa sì che le ‘sale’ che abbiamo immaginato potranno essere attraversate come altrettante mostre sul rapporto letteratura-arte nel Rinascimento, sui ritratti e sulle loro sottili implicazioni, sulle cosiddette arti minori, sulla diplomazia del dono nella società d’ancien régime, sulla polarizzazione artistica Roma-Firenze-Venezia, sulla nascita della critica d’arte. Il che ci consentirà di liberarci degli stereotipi nati intorno al personaggio e di recuperare un punto di vista sul Rinascimento interno al Rinascimento stesso, un punto di vista privilegiato perché era un punto di vista condiviso dagli artisti e dai loro committenti. Se il punto di vista di Aretino non fosse stato efficace, rispondente alle priorità del momento, né gli artisti lo avrebbero assecondato, né i committenti si sarebbero rivolti a lui per avere un rapporto privilegiato con gli artisti. Il successo che lui ha avuto in vita è, credo, la dimostrazione dell’efficacia della sua parola e del suo ruolo. Quindi questo ci garantisce, se non altro, la possibilità di entrare in quel mondo lungo una strada che all’epoca era riconosciuta come legittima. Non si tratta di uno dei tanti percorsi che possiamo escogitare, non è un frutto della fantasia mia o degli altri curatori o del direttore degli Uffizi: è la presa d’atto di una realtà. Se la parola stessa “Rinascimento” continua a essere a livello universale, e non solo italiano, una di quelle che più affascinano (tanto che ogni volta che crediamo di essere di fronte a una qualche forma di eccellenza parliamo di “Rinascimento”), se noi continuiamo a pensare al Rinascimento in questi termini, non possiamo dimenticare che la parola di Pietro Aretino è una delle interpreti che proprio il Rinascimento ha riconosciuto come autorevole. Ignorarla, credo, può solo darci di quella civiltà una visione non saprei dire se meno vera, di certo più povera. In tutto questo ci sono, credo, le premesse perché la mostra susciti un interesse diffuso, ma saranno naturalmente i fatti (i numeri) che le confermeranno o smentiranno.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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