Coronavirus, l'emergenza non deve diventare una scusa per limitare la libertà d'espressione


L’emergenza sanitaria per coronavirus non deve diventare una scusa per limitare la libertà d’espressione. Lo chiede la National Coalition Against Censorship.

L’emergenza coronavirus che è ormai diventata planetaria può costituire una minaccia alla libertà d’espressione? È quanto, negli Stati Uniti, si chiede la National Coalition Against Censorship (NCAC, Coalizione Nazionale contro la Censura), organizzazione fondata nel 1974 con lo scopo di combattere la censura in ogni sua forma. Per la NCAC la minaccia è reale: “durante una crisi sanitaria globale”, scrivono oggi in una nota (la traduzione è nostra), “le esigenze mediche rappresentano, comprensibilmente, la priorità. Ma le nostre necessità hanno molte sfaccettature, e mentre il governo lavora per limitare la diffusione del Covid-19, dobbiamo vigilare per proteggere il nostro diritto alla libertà d’espressione e difendere la nostra capacità di condividere e accedere all’informazione”.

Mentre le scuole e gli istituti culturali chiudono, l’impegno dev’essere quello di continuare l’impegno civile e la promozione dell’espressione artistica e culturale. Ma quali sono, secondo la NCAC, le minacce più realistiche? Al primo posto, la possibilità che le istituzioni non siano trasparenti: negli Stati Uniti, per esempio, le riunioni dei CDC, i centri per il controllo e la prevenzione delle malattie, si sono tenute nella riservatezza, e questo, secondo la NCAC, impedisce che gli esperti di medicina, di legge e di altri settori interessati all’emergenza possano partecipare al dibattito pubblico. E secondo l’organizzazione, i cittadini hanno il diritto di conoscere, con la massima trasparenza, quanto è estesa la minaccia del coronavirus e che cosa comporta per le nostre vite.

Un’altra minaccia è quella del controllo sull’informazione: “in tempi di crisi”, scrive la NCAC, “ci può essere chi è propenso a bollare il dissenso come pericoloso. Ma la nostra democrazia richiede partecipazione, e occorre che ci venga permesso di accedere a visioni dissenzienti e ad esprimere il nostro parere. Il disaccordo e il dibattito sono fondamentali per giungere a decisioni ponderate”. È dunque necessario mettere in discussione le risposte dei governi all’emergenza sotto ogni punto di vista. L’esempio più clamoroso è quello della Cina: diversi media, primo su tutti il New York Times, hanno riportato di come Pechino abbia censurato chi ha espresso il proprio dissenso tramite internet (e spesso chi esprimeva posizioni contrarie a quelle del governo si è visto arrivare la polizia a casa). Inoltre, il governo cinese ha anche espulso alcuni giornalisti americani dal paese.

Ancora, la NCAC teme la censura per fini politici delle ricerche scientifiche: è il caso, per esempio, di quanti hanno minimizzato le preoccupazioni sul coronavirus. E potrebbero ripetersi copioni già seguiti in precedenza, come quando l’amministrazione Trump, come la NCAC stessa denuncia, ha posto in essere dei tentativi per bandire alcuni termini (come “diversità”, “transgender”, “feto”) dai comunicati dei centri per il controllo e la prevenzione delle malattie. “Gli scienziati e i medici”, scrive la NCAC, “devono essere liberi di poter condividere le loro conoscenze e le loro raccomandazioni, anche se queste esercitano una pressione sui governi”.

C’è poi il capitolo delle restrizioni sui viaggi, che negli USA, com’è noto, sono anche un problema politico da quando Trump ha elevato i cosiddetti travel bans contro alcuni paesi considerati nemici. L’emergenza sanitaria ha portato molti paesi a emanare restrizioni sui viaggi: la pandemia di Covid-19 è un motivo ragionevole e serio per limitare i viaggi, ed è dunque comprensibile che i paesi si attrezzino in questo senso, però, fa sapere la NCAC, “dobbiamo assicurarci che le restrizioni siano esclusivamente una necessità medica e che seguano esclusivamente le raccomandazioni degli esperti”. Il timore, infatti, è che le restrizioni sui viaggi vengano estese anche oltre l’emergenza e manipolate politicamente.

Altro motivo di preoccupazione è la sorveglianza a cui possono essere sottoposti i cittadini: in alcuni paesi (come la Corea del Sud, e per certi aspetti anche l’Italia) sono state adottate tecnologie di sorveglianza e monitoraggio degli spostamenti nell’ambito delle strategie per contenere il diffondersi dell’epidemia. “Questi metodi”, afferma la NCAC, “possono essere utili e necessari”, ma, citando un documento dell’Electronic Frontier Foundation (EFF, un’organizzazione internazionale fondata nel 1990 che si occupa di tutela dei diritti soprattutto nel campo dell’informatica e delle telecomunicazioni), “ogni misura straordinaria adoperata per gestire una crisi specifica non deve diventare permanente e non deve lasciare adito a intrusioni dei governi nelle nostre vite quotidiane”. La EFF sostiene che la sorveglianza per contenere la diffusione del Covid-19 deve attenersi ad alcuni principi ben delineati: le intrusioni nella privacy devono essere necessarie e proporzionate; i dati devono essere raccolti su basi scientifiche, non sulla base di preconcetti; i programmi invasivi devono essere ridotti una volta che la crisi è stata contenuta; le istituzioni devono essere trasparenti nel comunicare al pubblico le loro policy; devono essere garantiti giusti processi.

Infine, l’ultimo capitolo riguarda i social media, che devono vigilare affinché le fake news, la disinformazione e l’hate speech non proliferino. Da un lato ci sono gli aspetti positivi: “piattaforme come Facebook o Twitter”, fa sapere la NCAC, “sono state lodate per come hanno gestito le informazioni che potrebbero danneggiare la salute pubblica e per aver garantito un mezzo di connessione sociale in un periodo di disconnessione fisica”. Ma c’anche l’altra faccia della medaglia: “le aziende social hanno una relazione complicata con la libertà d’espressione. In quanto aziende private, sono libere di utilizzare le loro linee guida e i loro standard. Ma poiché sono anche spazi pubblici, molti, inclusa la NCAC, credono che i social media abbiano la responsabilità di rispettare i principi della libertà d’espressione e di proteggere il diritto dei loro utenti a esprimersi”. Occorre anche che i social media considerino che gli strumenti di moderazione automatica spesso prendono decisioni sbagliate, che magari un moderatore umano non avrebbe preso. “La scarsità di esseri umani che prendano le decisioni”, conclude la NCAC, “complica inevitabilmente dei processi che sono già difficili”.

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