Edith Gabrielli (Vittoriano e Palazzo Venezia): “faremo un lavoro organico sui due musei”


Edith Gabrielli è stata nominata direttrice del nuovo museo autonomo che a Roma unisce il Vittoriano e Palazzo Venezia. In questa intervista ci ha raccontato come si mostrerà al pubblico il nuovo istituto.

Edith Gabrielli è da settembre la prima direttrice del nuovo museo autonomo che, a Roma, unisce il Vittoriano e Palazzo Venezia. Sono due istituti che Gabrielli conosce molto bene, dal momento che facevano parte del Polo Museale del Lazio, e la neo-direttrice è stata per cinque anni alla guida del polo laziale, fino alla chiamata alla direzione del neonato istituto. Edith Gabrielli ha una lunga carriera nei ranghi del ministero (nel 2010 è diventata la più giovane dirigente del MiBACT) e conosce molto bene sia, da storica dell’arte, i due musei, sia, da esperta dirigente, la realtà dell’amministrazione pubblica. L’abbiamo intervistata per farci spiegare come sarà il nuovo museo autonomo: da Palazzo Venezia come museo votato alle arti applicate a un Vittoriano più unitario che potrà anche contare sull’Ala Brasini (che sarà sotto l’egida del MiBACT), il tutto all’insegna di un lavoro animato da una visione organica. L’intervista è a cura di Federico Giannini.

Edith Gabrielli
Edith Gabrielli

FG. L’istituto Vittoriano e Palazzo Venezia è nato ufficialmente a dicembre 2019, dall’unione di due musei che in precedenza facevano parte del Polo Museale del Lazio e che già comunque erano molto uniti, non solo per via della loro vicinanza, dato che sono uno di fronte all’altro, ma anche perché, per esempio, hanno ospitato alcune mostre in comune: quando il ministro Dario Franceschini diede l’annuncio della nascita di questo nuovo istituto autonomo parlò di due istituti “dalle potenzialità enormi”. Vorrei quindi cominciare questa intervista chiedendoLe quali sono a Suo avviso queste potenzialità e come ha intenzione di svilupparle.

EG. Giusto partire dicendo che già negli ultimi cinque anni, ovvero sotto il Polo Museale, sia Palazzo Venezia che il Vittoriano hanno vissuto una fase di rilancio. Poi, se crede, potrò dire qualcosa di più sui numeri bruti. Ma si può e si deve fare molto di più. La nuova struttura autonoma consente un’impostazione, anzi una visione inedita e molto promettente. Partiamo dalle cose semplici, che pure in questo caso non sono affatto banali. Il nuovo istituto sorge esattamente nel cuore della città, la capitale d’Italia. Più avanti questo centro sarà unito alla rete della metropolitana grazie alla stazione della metro C, ma già adesso può dirsi ben collegato. Altra cosa semplice, ma anche qui non banale. Sia Palazzo Venezia che il Vittoriano sono dotati di vaste aree espositive. Nel Vittoriano mi riferisco alla cosiddetta Ala Brasini, che sarà gestita dal nuovo istituto e che già in passato ha peraltro dato prova di buone capacità attrattive, anche perché prospetta direttamente su via dei Fori Imperiali. Attenzione: i due istituti hanno radici, storie e identità molto diverse. Il tentativo di sopprimerle o anche solo di appiattirle costituirebbe un grave errore. L’idea di collegarli va intesa in un progetto più ampio e museologicamente organico. In una prospettiva del genere Palazzo Venezia e il Vittoriano possono e debbono intendersi come due parti importanti di un solo insieme: questo insieme è Piazza Venezia, attualmente ridotta a uno spartitraffico, ma in realtà a sua volta figlia di un grande progetto, legato al nome dello stesso architetto del Vittoriano, Giuseppe Sacconi. Lavorare in modo sinergico sui due istituti significa, in termini strategici, indicare e perseguire una linea comune, volta a restituire equilibrio, vivibilità e leggibilità a una zona nevralgica della capitale del nostro Paese. Va poi da sé che ciascun istituto assumerà funzioni diverse, in accordo con la rispettiva identità. Vittoriano e Palazzo Venezia, uniti in un solo istituto, racconteranno due momenti, due aspetti diversi della stessa storia, che è poi la storia del nostro paese. Nel Vittoriano prevarranno il racconto delle istituzioni e della società, in Palazzo Venezia l’arte e la cultura. L’idea complessiva è di far diventare il nuovo istituto un luogo imperdibile, dove tornare di nuovo e ancora.

In che modo occorrerà lavorare su Palazzo Venezia?

A mio avviso, tutto risiede nel guardare al palazzo in termini organici, complessivi, strategici. Scendo nel concreto. Ancor oggi si suole identificare il palazzo con il museo al suo interno, il Museo Nazionale di Palazzo Venezia. Ora, il museo ha certamente un suo valore e una sua dimensione, su cui tornerò subito, ma tale identificazione si traduce in un errore, perché in realtà il museo costituisce solo una parte di un tutto assai più ampio, che è appunto l’intero palazzo, un monumento di ricchezza e complessità davvero rimarchevoli. Se vogliamo avere risultati sul piano della conoscenza, della divulgazione e del pubblico tutto il complesso deve compiere un passo in avanti, anzi spero più d’uno. In una visione del genere anche il museo dovrà naturalmente cambiare. Vede, il Museo Nazionale di Palazzo Venezia troppo spesso è stato nutrito dall’ambizione di assumere il ruolo di galleria nazionale, ovvero di un istituto capace di spiegare, di illustrare in modo completo e convincente l’intera parabola dell’arte italiana, nell’antico o nel moderno, attraverso un percorso generalmente inquadrato per fasi cronologiche successive. A parte il fatto che solo a Roma esistono già diversi istituti del genere (capaci peraltro di assolvere assai meglio tale funzione) la natura e le dimensioni delle raccolte del Museo di Palazzo Venezia suggeriscono qualcosa di differente: la vera forza consiste nella sua capacità di rappresentare le arti applicate, un tempo per fortuna lontano dette “arti minori”. Un settore trainante in parecchi musei esteri e invece in Italia per lungo tempo trascurato. Il nuovo percorso del museo di Palazzo Venezia sarà curvato verso i materiali e le tecniche dell’arte: di conseguenza, tenderemo a raccontare quella lunga vicenda che dal Fatto-in-Italia (ovvero dalla tradizione artistica e artigianale di tanti centri grandi e piccoli della penisola) è giunta fino ai nostri giorni, all’attuale Made in Italy. Sia l’uno che l’altro meritano un approfondimento e una contestualizzazione adeguati alla loro importanza nella storia e nell’attualità del paese. Spiegare a tutti, studenti e adulti, come si realizza un’opera d’arte, utilizzando come chiave di lettura la tradizione italiana, dal Medioevo ai giorni nostri, cioè senza fratture temporali precostituite, ma anche nel fermo rispetto dei singoli momenti: ecco quale sarà la nuova missione del Museo. Francamente ritengo che vi siano diversi elementi su cui vale la pena riflettere.

Il cortile di Palazzo Venezia
Il cortile di Palazzo Venezia


Artista del Nord Italia, Ercole e Anteo (1470 circa; affresco; Roma, Palazzo Venezia, Sala di Ercole)
Artista del Nord Italia, Ercole e Anteo (1470 circa; affresco; Roma, Palazzo Venezia, Sala di Ercole)


Giorgione, Doppio ritratto (inizi del XVI secolo; olio su tela, 76,3 x 63,4 cm; Roma, Palazzo Venezia, Inv. 902)
Giorgione, Doppio ritratto (inizi del XVI secolo; olio su tela, 76,3 x 63,4 cm; Roma, Palazzo Venezia, Inv. 902)

Lei poco fa ha fatto riferimento al progetto di valorizzazione del Vittoriano, che ha tra gli obiettivi, se non come obiettivo principale, quello di conferire un carattere unitario al monumento, che a lungo si è presentato al pubblico con spazi molto frammentati. Le chiederei di illustrarci a grandi linee questo progetto e come sta procedendo.

Le condizioni amministrative sono adesso obiettivamente più favorevoli. Il nuovo istituto autonomo avrà due terzi di tutte le superfici espositive sotto la sua gestione, inclusi il Museo Centrale del Risorgimento e, come si è detto, l’Ala Brasini. Ma ancora una volta attenzione: la nostra idea è di collaborare in modo sinergico con gli altri due soggetti presenti nel Vittoriano, il Ministero della Difesa e l’Istituto per la Storia del Risorgimento. Sono soggetti forti, le cui identità e competenze meritano rispetto. Già in passato, ai tempi del Polo Museale, abbiamo lavorato molto esattamente in tale direzione. Con il Ministero della Difesa i protocolli d’intesa sono già pronti. Continueremo a lavorare affinché il visitatore possa fruire di un percorso completo e unitario e perciò comprendere il monumento nella sua complessità, riunificando gli spazi e garantendo un unico orario di apertura e chiusura: i visitatori non capiscono, anzi odiano la frammentazione dei percorsi di visita e la chiusura degli spazi. Laddove possibile, come accennavo, sarò lieta di accogliere e a mia volta proporrò progetti comuni. Il futuro del Vittoriano, ripeto, passa anche attraverso una più ampia e stretta collaborazione sia con la Difesa, sia con l’Istituto per la Storia del Risorgimento.

Nonostante la loro vicinanza, i numeri sono molto diversi. Facendo riferimento ai dati del 2019, il Vittoriano è stato visitato da tre milioni di visitatori, mentre Palazzo Venezia da poco più di cinquantamila persone paganti. Ci sarà modo di lavorare dunque per far crescere i numeri di Palazzo Venezia?

La Sua domanda mi permette di fare riferimento a quanto stavo dicendo all’inizio, cioè di tornare al passato prossimo dei due istituti e ai loro numeri effettivi, al tempo del Polo Museale del Lazio. Mi consenta allora di affermare che non soltanto uno, ma entrambi i monumenti hanno attraversato una tendenza nettamente positiva. Partiamo dai numeri bruti. Nel 2014 il Vittoriano contava meno di un milione di spettatori: alla fine del 2019 oltre tre milioni. Su Palazzo Venezia dobbiamo compiere, come dicevo prima, una distinzione tra Museo e palazzo. Nel 2014 il palazzo, eccezion fatta per poche e determinate occasioni, era chiuso al pubblico. Quanto al Museo, esso contava meno di 9.000 spettatori paganti. Cinque anni più tardi la riapertura di Palazzo Venezia ha visto confluire nel cortile e negli spazi contigui mezzo milione di spettatori. Questo flusso ha certamente contribuito a migliorare il rendimento del museo, che nel 2019 ha fatto registrare oltre 20.000 paganti. C’è dell’altro. Il giardino stesso del palazzo, la loggia inferiore, quella superiore e altri spazi hanno ospitato un congruo numero di iniziative e di eventi culturali, in questo caso a pagamento e per lo più inseriti in un progetto museologico chiamato ArtCity, organizzato dal 2017 al 2019. In tal modo Palazzo Venezia ha dato un contribuito importante a raggiungere nell’estate 2019 un milione di fruitori. Francamente lo giudico già adesso un buon risultato, ma, ripeto, possiamo fare e faremo di più. Vede, per vari motivi, che in parte ho già esposto, il Museo Nazionale di Palazzo Venezia si è rivelato nella storia incapace di sviluppare un’attrazione forte e costante. Per questo sarà necessario intervenire, e in profondità. Ma il cambiamento sarà legato anche al contesto, cioè al palazzo stesso, che a sua volta è cambiato, sta cambiando e ancor più cambierà. Quanti abitano intorno se ne sono già accorti, eccome. Per questo nutro una grande fiducia in palazzo Venezia. È un edificio per molti aspetti straordinario. Ha solo bisogno di cure e soprattutto di essere ben raccontato, ben comunicato. Il palazzo, il suo cortile, i suoi spazi verdi sono diventati un luogo molto frequentato, un riparo dal traffico. Funzionano, di nuovo. E quando funzionano bene per chi li conosce, per chi vi abita o vi lavora accanto significa che si è sulla buona strada.

Parliamo di mostre: ricordavamo prima che in passato Palazzo Venezia e il Vittoriano sono stati teatro di mostre importanti, mi viene in mente ad esempio Voglia d’Italia sul collezionismo di fine Ottocento. Cosa c’è allo studio per quello che riguarda l’attività espositiva dell’istituto, tanto più che ora il Vittoriano potrà contare sull’Ala Brasini?

Voglia d’Italia è stata molte cose. Fra l’altro, ha contribuito a riportare l’attenzione su un periodo del nostro paese per troppo tempo e ingiustamente trascurato. Sotto il profilo della museologia la mostra può anche leggersi come una sorta di prova generale, in vista della concezione unitaria dei due monumenti. Vale ricordare che era divisa in due sezioni, l’una in Palazzo Venezia, l’altra nel Vittoriano. Nell’occasione l’architetto Benedetta Tagliabue ed io studiammo anche il modo in cui far percorrere al visitatore la strada che separa i due monumenti proprio per dare l’idea di un percorso. Non solo Voglia d’Italia, ma praticamente tutte le mostre che abbiamo fatto nel Polo si sono caratterizzate per una linea di sutura molto precisa tra la qualità scientifica, l’impegno didattico e divulgativo (ovvero la cura a trasmettere in modo semplice e chiaro i risultati della ricerca) e infine la capacità di attrarre il grande pubblico. Continuo a pensarla esattamente allo stesso modo. Ma Lei mi chiede giustamente dell’oggi e del domani del Vittoriano e di Palazzo Venezia. Ci arrivo subito. Per farlo occorre insistere un poco sul concetto di programma. Vede, se parliamo di una singola mostra tutto può sembrare relativamente semplice. Ma una rondine non fa primavera, o almeno non sempre. Il difficile viene subito dopo. Cioè proseguire lungo la buona strada. Per farlo programmare diventa indispensabile. Esattamente per questo stiamo pensando, anzi abbiamo già pensato, a una programmazione di medio e lungo periodo. Il piano prevede mostre di diverso livello e approccio, quindi grandi mostre di forte impegno ma anche mostre di media e piccola proporzione, con cui indagare fenomeni circoscritti eppure altrettanto interessanti, in modo da avere un luogo in cui la programmazione trovi una sua continuità. Sulle singole mostre, adesso. Tengo a ripeterlo, la linea di crinale rimarrà identica: faremo mostre in grado di tenere unite la ricerca, la didattica e la capacità di suscitare interesse. Chi mi conosce sa che sono una grande sostenitrice della riflessione metodologica italiana nel campo dei beni culturali: credo che ci siano alcuni concetti in cui il nostro paese ha dato un enorme contributo alla riflessione internazionale. Bastino qui il concetto di tutela territoriale o quello di conservazione programmata. Tutto questo però non esclude la comunicazione e anche la capacità di essere veramente seri nel programmare, ovvero per esempio di scartare quelle idee che, per quanto valide sul piano teorico, nella realtà per vari motivi non riuscirebbero a catturare l’interesse del pubblico. All’esatto opposto, dobbiamo valutare con estremo rigore e se necessario accantonare quelle proposte che, sebbene possano far cantare le sirene della convenienza economica, non presentano i requisiti scientifici necessari. A tutto questo aggiungo un terzo piano, che è quello dell’educazione. Potremo veramente incidere come istituti culturali solo se lavoreremo su questo punto. È una delle cose alle quali mi sto dedicando di più in questa fase di progettazione e di programmazione. Se riusciremo in questo, potremo veramente contribuire al rilancio di Roma come una capitale dove si viene non solo una volta nella vita per vedere i monumenti imperdibili, ma anche dove si deve ritornare perché promotrice di un’attività culturale che merita di essere scoperta ogni volta.

Veduta del Vittoriano
Veduta del Vittoriano


Il Vittoriano
Il Vittoriano

Proprio su questo aspetto, un altro punto al quale Lei ha rivolto l’attenzione durante il Suo incarico al Polo Museale del Lazio è rappresentato dalle attività rivolte al pubblico più giovane, quello dei bambini e dei ragazzi. Nei loro confronti in che modo si porrà l’istituto e quali sono le attività su cui avrà modo di lavorare?

La ringrazio del riconoscimento. In effetti ai tempi del Polo Museale abbiamo fatto molto in questa direzione. Ricordo soltanto l’impegno con le molte migliaia di alunni delle scuole medie superiori, coinvolte attraverso il progetto Alternanza Scuola-Lavoro. Ma veniamo all’oggi e al domani. Il nuovo istituto ha dalla sua una significativa rilevanza sul piano storico-artistico. È anche vero che quando si ha a che fare con il Vittoriano bisogna tenere presente un forte valore istituzionale. Anche per questo, quando parliamo di educazione all’arte e al patrimonio, lo facciamo come una forma, e tra le più elevate, di educazione alla cittadinanza. Stiamo lavorando sulle varie fasce di pubblico. Giusto pensare che l’educazione si rivolga principalmente ai bambini e ai ragazzi. Ho detto principalmente, non unicamente. Dobbiamo andare anche oltre. Penso ad esempio agli italiani di seconda generazione, cioè ai cosiddetti ‘nuovi italiani’. Vi abbiamo riflettuto molto già sotto il Polo Museale del Lazio. Lessico italiano. Volti e storie del nostro paese è stata una mostra importante sotto questo profilo. Curata da me personalmente per la parte museologica, ma con a fianco una squadra di psicologi e filosofi del linguaggio, Lessico italiano ha costituito un passaggio importante nel mettere a fuoco in termini espositivi i meccanismi della nostra identità e, insieme, comunicarli in termini positivi quanto attuali ai cittadini di oggi. Facciamo poi l’esempio concreto di Palazzo Venezia e del suo museo, così come vogliamo cambiarlo in un museo curvato sulle arti applicate, cioè sui materiali e le tecniche delle arti. Bene: tutto questo passa per me attraverso un forte impegno didattico. Rimango convinta che gran parte del pubblico e quasi tutti i ragazzi in età scolastica non conoscano in che modo siano stati prodotti un affresco, una tavola, una scultura in legno, per tacere di un sigillo o di una spada. E allora, come trasmettere loro tutto questo? L’intenzione è di lavorare su due livelli. Il primo livello può essere fruito da remoto: metteremo a disposizione del pubblico, attraverso il nostro sito web, materiali scaricabili, tali da preparare la visita e ovvero approfondirla a posteriori, una volta effettuata. Un secondo livello è in presenza: studieremo attività specifiche, anche a carattere laboratoriale, così da spiegare concretamente come nascono le singole opere, attraverso le rispettive tecniche di lavorazione. Non va dimenticato che l’arte nasce anche da una pratica, da un mestiere, da una consapevolezza. Attenzione qui: l’aspetto materico e tecnico rappresenta un ponte, uno fra i molti possibili, per accedere all’arte e ai suoi aspetti linguistici. Ritengo che un approccio del genere possa rivelarsi vincente sul piano della didattica: molti spettatori ce lo richiedono, talora sotto la spinta dell’esperienza del restauro.

E a proposito di attività in remoto, negli ultimi tempi sul Vittoriano è stato fatto anche un buon lavoro sul digitale, perché il Vittoriano ha un sito che ha molti contenuti e che è anche molto apprezzato non solo dal pubblico ma anche dagli addetti ai lavori che si occupano di comunicazione. In che modo il nuovo istituto intenderà comunicare attraverso gli strumenti del digitale?

Lei ricordava giustamente che il Vittoriano è stato dotato poco meno di un paio di anni fa, nel giugno 2019, di un nuovo sito ufficiale. Bene: quel sito si è guadagnato una menzione d’onore agli Webby Awards, che per chi lavora nel settore equivalgono agli Academy Awards per i film o ai Grammy per la musica. Mi permetto di ricordare anche l’applicazione, o app, che è scaricabile dal sito e correlata al sito. Vede, l’app del Vittoriano, oltre che molto innovativa, è stata studiata per ottenere un risultato niente affatto scontato, guidare il visitatore secondo un percorso, così da non fargli perdere nulla, e nello stesso tempo evitare di farlo sentire in una gabbia, un effetto particolarmente sgradito a tutti e ancor più ai giovani. Continueremo a lavorare in questa direzione. Il nuovo istituto avrà naturalmente bisogno di un proprio sito, che in parte riprenderà l’esperienza positiva del Vittoriano. Il sito del Vittoriano e Palazzo Venezia consentirà un accesso rapido e intuitivo alle pagine relative ai vari istituti che lo compongono, compresa la Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte. Su questo vorrei aprire una parentesi. Com’è noto, la Biblioteca, da tutti detta BIASA, è destinata a trasferirsi in un’altra sede: un progetto davvero rimarchevole, che di sicuro contribuirà al suo rilancio, da tanto tempo atteso dagli utenti. D’altro canto, almeno fino a quando resterà dentro Palazzo Venezia abbiamo l’intenzione di lavorarvi in modo positivo, appunto perché la riteniamo una risorsa fondamentale per gli studiosi e per gli studenti. La sua presenza ‘forte’ nel nuovo sito va in questa esatta direzione. Per tornare alla domanda principale, ovvero se e quanto vogliamo fare nel digitale, abbiamo in programma un’app anche per Palazzo Venezia, e un’offerta estremamente ricca di contenuti. L’idea consiste nell’organizzare una redazione, capace di mettere a disposizione del pubblico contenuti anche da remoto. Il digitale sarà utile, come ho detto, anche all’interno dei laboratori didattici e dei percorsi di visita. Penso alle sue potenzialità nel racconto della storia dei singoli edifici e anche del territorio circostante: il progetto presentato alla selezione internazionale prevede di destinare gli spazi ipogei dei monumenti che saranno collegati attraverso la stazione della Metro C all’intero tessuto urbano di piazza Venezia. Ovviamente tutto questo a condizione che il digitale sia usato correttamente. La pandemia ha insegnato e ci sta insegnando anche questo. Dico ‘usato correttamente’ laddove, a mio avviso e senza togliere nulla a quanti hanno pensato diversamente, il digitale dovrà affiancare, mai sostituire la visita reale: al centro dei nostri musei deve rimanere l’esperienza viva e diretta degli oggetti.

Mi allaccio a quest’ultima riflessione sul rapporto col territorio per chiudere l’intervista con una domanda che riguarda proprio questo argomento: un tema diventato all’ordine del giorno con l’emergenza covid, dato che si dice che i musei dovranno lavorare molto con il territorio, molto più di prima. Come direttrice del Polo Museale del Lazio Lei, oltre ad aver lavorato ovviamente già con Palazzo Venezia e col Vittoriano, ha lavorato anche molto sulle comunità locali, dato che il polo assommava diversi musei soprattutto del territorio. In questo senso come dovrà Suo avviso lavorare il nuovo istituto?

L’esperienza del Covid-19 lascia un dato molto significativo: quando abbiamo riaperto a maggio, i musei delle grandi città (io parlo soprattutto dei musei di Roma) hanno avuto un crollo verticale delle visite, mentre i musei del territorio in alcuni casi hanno registrato un incremento di visitatori, in taluni casi dell’ordine del 20-25%. La spiegazione? Il Covid ha prodotto un incremento del cosiddetto turismo di prossimità, cioè fatto da persone provenienti da altri comuni o regioni d’Italia. Se ne è parlato poco, forse perché le priorità erano altre, eppure non mi sembra un dato trascurabile. Vede, nella mia esperienza a contatto con il territorio, prima in Piemonte, poi nel Lazio, ho sentito spesso invocare dalle amministrazioni locali l’ambizione al grande turismo internazionale. In alcuni casi circoscritti e determinati quest’ambizione si è tradotta in realtà. Nella più parte delle volte invece si è trattato di un sogno, di un mito. Quel che resta è la collaborazione fra chi gestisce grandi musei, come appunto lo Stato, e le singole comunità locali, fino a creare un rapporto di sinergia reale, diretta e costruttivo. L’obiettivo finale è rendere quel monumento parte del territorio. O, compiendo il percorso contrario, ma per ottenere lo stesso risultato, convincere i cittadini dei comuni piccoli e grandi che quel palazzo, quel parco, quella villa, quell’area archeologica sono innanzitutto parte delle loro rispettive identità. Che i primi a doversene appropriare, a doverlo vivere sono proprio loro. Non è sempre facile, dipende da molte cose, ma a mio avviso questa era e rimane l’unica strada seria da percorrere. Il mio album da Soprintendente del Piemonte e da Direttore del Polo Museale del Lazio abbonda di esperienze del genere. Basti una per tutte. Nel 2015 diversi fra i musei e luoghi della cultura dati in gestione al Polo erano chiusi, talvolta da molti anni. Rammentarli tutti non è utile, ma vi assicuro che erano almeno dieci. Fra questi rientrava la cosiddetta Torre di Cicerone nella zona alta di Arpino, nei pressi di Frosinone. Il sindaco della cittadina laziale mi venne a trovare e insieme decidemmo che era venuto il momento di riaprirla. Ripeto: insieme. Alle volte basta davvero un poco di buona volontà da entrambe le parti. La cerimonia d’inaugurazione si tenne in contemporanea con il Certamen, la ben nota gara di traduzione dal latino che ogni anno si svolge esattamente lì, sul luogo di nascita di Cicerone e che raccoglie il fior fiore dei filologi classici di domani. Io stessa ero stata fra loro, nell’anno della maturità. Bene: vedere il prato che circonda la torre stracolmo dei cittadini di Arpino e insieme di questi circa quattrocento ragazzi, provenienti da ogni parte d’Europa, resta nel mio personale album di ricordi. Questo discorso può andare bene anche nel periodo post-Covid, spero quanto mai prossimo. Non mi stupirei affatto se il primo moto di affetto verso i nostri musei venisse proprio da lì, dalle persone e dalla comunità che sono loro vicine. Qualcosa di simile contrassegna anche il progetto sul nuovo istituto. In questo progetto, come ho detto, una parte del museo verrà destinata anche a raccontare il contesto, la piazza, il luogo, perché questi due monumenti vanno proprio letti all’interno del tessuto urbano. Peraltro se c’è una cosa che l’Atto d’indirizzo del 2001 ha chiarito è che i musei italiani hanno una missione in più rispetto agli altri: la connessione con il territorio. Tale connessione con il territorio risulta abbastanza palmare quando si tratta di musei e aree archeologiche che si trovano in contesti extraurbani, ma lo è anche nelle grandi città: anche i grandi musei per funzionare al meglio hanno bisogno di stabilire rapporti con il tessuto che li circonda. Per questo il mio primo pensiero nello sgomberare il cortile di Palazzo Venezia dalle automobili è stato proprio per chi abita e frequenta questa zona.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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