Fin dal Neolitico, almeno dal 6000 a.C., le isole del Mar Egeo e le terre da esso bagnate risultano abitate. Alle forme politiche, economiche, religiose e artistiche sviluppatesi fino al 2000 a.C. si attribuisce il nome di civiltà cicladica, poiché ebbero il loro centro principale nelle Cicladi. Il periodo compreso tra il 2000 e il 1400 a.C. prende invece il nome di civiltà cretese o minoica, con riferimento rispettivamente all’isola di Creta dell’età del Bronzo e alla figura leggendaria del re Minosse. A seguire, tra il 1400 e il 1000 a.C., si sviluppa invece la civiltà micenea, così chiamata dalla città di Micene, situata nel Peloponneso.
Al centro del Mediterraneo orientale, la civiltà minoica fiorì lasciando dietro di sé rovine imponenti, affreschi e simboli. Tra le immagini più conosciute e giunte fino a noi figura quella di giovani acrobati che si lanciano sul dorso di un toro in corsa. Un atto conosciuto come tauromachia minoica. Ma di cosa si tratta? Praticata sin dall’antichità nel bacino del Mediterraneo, la tauromachia comprende forme di combattimento che coinvolgono bovini tra loro, uomini contro bovini o animali di altra specie. Le prime attestazioni risalgono al II millennio a.C., con una diffusione considerevole anche nella Grecia antica, in particolare in occasione di celebrazioni rituali o festeggiamenti pubblici. Il termine viene oggi utilizzato per indicare anche forme più recenti di confronto con il toro, come la corrida spagnola.
Ad ogni modo, il toro nella religione minoica era una creatura carica di significati. La sua figura compare con insistenza nei manufatti ritrovati nei palazzi di Cnosso, Festo e Malia, in forma di sculture, affreschi, sigilli o rilievi. Le Cornadella Consacrazione, elementi architettonici ricorrenti e dalla forma stilizzata di corna taurine, adornavano i tetti, gli altari, le larnake, le bare in terracotta, e le pareti dei palazzi, segnalando la sacralità degli spazi. Identificate per la prima volta da Sir Arthur Evans (Nash Mills, 1851 - Youlbury, 1941), archeologo britannico che agli inizi del Novecento riportò alla luce il palazzo di Cnosso, le strutture in argilla o pietra apparivano anche nei santuari montani e nei luoghi cerimoniali più importanti della Creta minoica.
Sebbene spesso associate al culto del toro, le corna sacre sembrano aver rivestito significati multipli: il loro orientamento, le connessioni con la luce solare e la loro presenza in punti simbolicamente rilevanti dell’architettura indicano anche legami con il sole, il cielo e la rigenerazione ciclica. Alcuni dei siti più noti in cui sono state rinvenute includono l’ingresso sud del palazzo di Cnosso, dove una grande coppia di corna è ancora visibile; il complesso palaziale di Archanes, dove queste figure erano integrate nelle cerimonie religiose; e il sito archeologico di Nirou Megaron, che presenta una base a gradini sormontata da corna sacre, a indicare un uso rituale ben strutturato.
Alcuni studiosi, come Emilia Banou, avanzano ipotesi che riconducono le Corna della Consacrazione a un simbolismo solare. In particolare, si evidenzia l’affinità formale con alcuni ideogrammi egizi, come quelli di “montagna” e “orizzonte”, associati al dio solare Ra. Le corna minoiche, in questo contesto, potrebbero potuto fungere da dispositivi per l’osservazione celeste, incorniciando precisi allineamenti astronomici o accompagnando riti legati al ciclo solare e al rinnovarsi della fertilità. In alcune raffigurazioni votive, una dea con le braccia alzate appare accostata alle corna, suggerendo un culto femminile connesso alla luce divina, alla rinascita e all’ordine cosmico.
Il loro uso proseguì anche dopo il tramonto della civiltà palaziale, attestando una continuità simbolica e religiosa. Non mancano le raffigurazioni connesse: affreschi e sigilli con scene di tori sacri, rituali e sacrifici; bucrania, teste di toro sacrificate, disposti nei santuari; o le rappresentazioni della doppia ascia incastonata tra due corna, emblema di potere e sacralità. Alcune interpretazioni vedono nelle corna un rimando diretto al bucranio, simbolo di sacrificio, mentre altre ipotizzano che le strutture più grandi fungessero da troni simbolici per divinità o sovrani. Esistono anche manufatti minori a forma di corna, che potrebbero aver avuto una funzione pratica, come supporti per focolari o contenitori votivi. L’ampiezza di contesti e varianti suggerisce dunque che le Corna della Consacrazione rispondessero a molteplici esigenze, sia cultuali che funzionali.
All’interno della civiltà minoico-micenea, il toro è presente in molteplici rappresentazioni artistiche tra cui affreschi (il più noto dei quali si trova nel palazzo di Cnosso), bassorilievi e sigilli. E in molte delle riproduzioni è documentata la pratica cerimoniale nota come taurocatapsia o salto del toro, durante la quale un sacerdote o acrobata affrontava un toro in corsa, lo afferrava frontalmente per le corna e, sfruttando la spinta dell’animale, eseguiva un salto acrobatico oltre il suo dorso. Secondo alcune ipotesi, l’animale poteva essere successivamente sacrificato, ma mai ferito o ucciso durante l’esibizione. Ciò suggerisce che si trattasse di una prestazione rituale o sportiva e non di una lotta.
Secondo Sir Arthur Evans, la tauromachia sarebbe stata parte del culto religioso incentrato sul toro. Lo stesso mito del Minotauro, elaborato in epoca posteriore nella cultura greca, conserva l’eco dei riti, trasfigurandoli nel racconto mitico di un mostro mezzo uomo e mezzo toro imprigionato nel Labirinto.
Nel saggio Bronze Age Representations of Aegean Bull-Games, III pubblicato nel 1995 per l’Università di Liegi, John Younger propone invece una lettura sfumata: la tauromachia sarebbe stata anche una forma di spettacolo pubblico, con funzioni sociali e politiche. Younger osserva infatti che la disposizione degli affreschi e delle arene nei palazzi minoici suggerisce la presenza di spettatori e quindi una dimensione performativa collettiva.
Ma è solo attraverso le immagini che il mondo della tauromachia prende forma: affreschi, vasi, placche d’oro e d’avorio conservano con estremo rigore le pose degli atleti, la tensione muscolare del toro, la coreografia precisa del salto. Quella della Tauromachia è una grammatica che si ripete nei secoli, con leggere variazioni, dimostrando la centralità del bull-leaping, il salto sul dorso del toro.
Ed è qui che ci viene in aiuto una delle immagini più conosciute dell’arte minoica: l’Affresco della Taurocatapsia, conservato al Museo Archeologico di Heraklion, a Creta. Younger individua infatti nell’opera tre principali modalità iconografiche attraverso cui l’arte rappresenta i gesti. La prima, forse la più antica, mostra l’atleta che si afferra alle corna dell’animale per farsi sollevare e poi volare oltre. È una sequenza dinamica, ma rara, che si ritrova solo nei primi esempi del Tardo Minoico. Più diffuso, e quasi codificato, è invece il cosiddetto schema del tuffatore: l’atleta parte da un’altezza sopraelevata, si lancia in avanti con le mani verso il collo del toro, e dopo un perfetto capovolgimento atterra dietro l’animale. In questo caso, la postura del corpo si ripete con tale regolarità da far pensare all’esistenza di regole precise nella rappresentazione, se non addirittura nell’evento stesso.
Il terzo schema, forse il più enigmatico, è quello del leaper sospeso a mezz’aria: una figura umana orizzontale, con una mano sulla nuca del toro e l’altra sul corno, come in un istante eternamente fermo. Il salto fluttuante, presente soprattutto nei sigilli, evocare meno un gesto reale che un’idea: quella di dominio, di equilibrio tra forza animale e controllo umano.
Nell’antica Roma invece, l’incontro tra uomo e toro assumeva diverse forme, dalla competizione fisica nei giochi pubblici al sacrificio simbolico nei culti religiosi. Inizialmente, gli spettacoli dipendevano dalla natura addomesticata del bestiame, allevato per fuggire e non per caricare. In ambito rituale, l’animale divenne protagonista di rappresentazioni dal potente valore simbolico. È il caso della tauroctonia, elemento centrale della religione mitraica greco-romana, in cui la divinità Mitra, detto tauroctonos (uccisore del toro), veniva raffigurato nell’atto solenne di sacrificare un toro. L’immagine, sempre uguale nello schema, occupava il fulcro di ogni Mitreo, luogo sotterraneo destinato al culto iniziatico. Accanto a questa, un altro rito, il taurobolio, prevedeva il sacrificio reale di un toro nel quadro della venerazione alla Grande Madre, con finalità purificatrici e rigenerative.
Ben diversa, ma parallela nella centralità dell’animale, era la tradizione iberica. Prima delle guerre puniche, le popolazioni celtibere conoscevano bene la natura selvaggia del proprio bestiame. Trasformarono la caccia in un gioco, e il gioco in strategia militare: durante l’assedio cartaginese del 228 a.C., gli abitanti di una città si difesero lanciando contro il nemico una mandria di tori selvatici, le cui corna erano state imbracciate con legna resinoso e torce accese. La mandria devastò le linee cartaginesi e nella confusione cadde lo stesso Amilcare Barca, padre di Annibale.
I Mori ripresero questa pratica legando fiaccole accese alle code dei tori per trasformarli in armi mobili. E anche in tempo di pace, la figura del toro restava centrale. I racconti parlano di uomini che, armati di asce o lance, sfidavano pubblicamente l’animale, dimostrando coraggio e destrezza con l’uso di pelli o mantelli, strumenti che anticipano il capote moderno.
La lunga dominazione visigota plasmò una nuova forma di spettacolo: un confronto diretto, quasi brutale, tra forza umana e forza animale. I musulmani, introdussero invece una netta separazione dei ruoli: i nobili a cavallo eseguivano le manovre decisive, mentre gli assistenti a terra controllavano i tori. Da questa tradizione nacquero i tornei di uccisori di tori, che si svolgevano nelle plazas cittadine o negli spazi aperti appena fuori dai centri urbani, le stesse piazze che daranno il nome alle arene della corrida. Già alla fine dell’XI secolo, i giochi erano diventati parte stabile del calendario festivo. La più nota sopravvivenza è la Fiesta de San Fermín di Pamplona, dove ogni anno la corsa dei tori riconsegna alle strade un rituale che affonda le sue radici nel mito, nella guerra e nella religione.
L'autrice di questo articolo: Noemi Capoccia
Originaria di Lecce, classe 1995, ha conseguito la laurea presso l'Accademia di Belle Arti di Carrara nel 2021. Le sue passioni sono l'arte antica e l'archeologia. Dal 2024 lavora in Finestre sull'Arte.Per inviare il commento devi
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