Spoglia, severa, priva di qualunque ornamento. La chiesetta di San Giorgio che s’erge nella parte bassa dell’incantevole Filattiera, in Lunigiana, è un grosso mucchio di conci squadrati, un ammasso di pietre che poco dopo l’anno Mille vennero impilate sopra una terrazza per dare un edificio di culto agli abitanti del borgo. Dentro non ci sono tavole dipinte, non ci sono cicli affrescati, non ci sono arredi di pregio, non c’è niente. Nell’oratorio di San Giorgio non si entra per vedere opere d’arte: semmai, se si decide di varcare il suo piccolo e massiccio portale di pietra, è per pura curiosità. O, tutt’al più, per provare a capire quale fosse il sentimento religioso di quei tempi così lontani. E in questo senso è una chiesetta romanica come tante. C’è però un elemento che la distingue da tutte le altre. Un elemento unico. È una lastra di marmo ch’è murata in una delle sue pareti, non si sa da quanto tempo e non si sa neanche perché: sappiamo solo che è una delle testimonianze più rilevanti dell’Italia altomedievale. È lei a rendere tanto interessante questa chiesa: una lastra ch’è custode dei segreti più antichi delle terre di Lunigiana. Una traccia di marmo che prova ad accendere un debole lumino nel buio della storia. Quattordici righe in latino che tramandano la memoria d’un tempo in cui i cristiani lottavano per convertire gli ultimi lunensi refrattarî al Vangelo. E, a quanto pare, alla fine ci riuscirono.
La chiamano la “Lapide di Leodegar”, perché nel 1910 uno studioso locale, Pietro Ferrari, per primo leggeva questo nome sull’intonaco a lato della lastra. Leodegar, forse Leodgar, in italiano Leotecario: in realtà, il nome sul muro potrebbe anche non esser riferito all’epigrafe. E su questo punto quasi tutti gli studiosi sono ormai d’accordo, ma la lapide continua a esser chiamata col suo nome convenzionale. Non sappiamo allora quale sia il vero nome del personaggio di cui la lastra racconta la storia. Non sappiamo neppure dove fosse collocata in origine, benché sia evidente che coprisse una tomba, il sepolcro d’un personaggio eminente: i segni dell’usura sono quelli tipici d’un marmo ch’è stato calpestato per secoli. Forse si trovava dentro la pieve di Santo Stefano a Sorano, nel fondovalle del Magra, la più affascinante pieve romanica della Lunigiana. Sappiamo solo che la storia di questa lapide ci riporta indietro nel tempo. All’epoca in cui preti e vescovi erano impegnati a cercare d’indottrinare i pagani ancora rimasti in queste zone, “non senza contrasti”, scrive lo studioso Enrico Giannichedda. Pagani forse nel senso letterale del termine: gli abitanti dei pagi, i villaggi più remoti, nascosti in mezzo ai boschi, tra le montagne, a ore di cammino dagl’insediamenti più vicini alle vie di comunicazione. Ci riporta indietro, se vogliamo esser precisi, di tredici secoli. Al quarto anno del regno di Astolfo. Questa la data incisa sulla lastra, l’anno in cui Leodgar moriva. L’anno 752 dopo Cristo.
A quel tempo, la Lunigiana era territorio della Diocesi di Luni, fondata probabilmente trecento anni prima, grosso modo: forte era la presenza dei cristiani in territorio lunense e rilevante doveva essere la loro comunità, dacché è attestato che i vescovi di Luni avevano preso parte, più volte, ai sinodi romani tra quinto e sesto secolo. Una presenza però non così pervasiva da aver abbattuto tutti gli adoratori di idoli. Non sappiamo chi fossero: forse ostinati pagani, montanari che non volevano saperne di Cristi e Madonne, indomabili gentili che vivevano nelle aree più remote e impervie della Lunigiana. Forse gente che non voleva farsi convincere ad abbracciare quel cristianesimo al quale pure i romani s’erano convertiti, elevandolo con Teodosio a unica religione ufficiale dell’impero, nell’anno 380, con l’editto di Tessalonica. Undici anni dopo, i culti pagani sarebbero stati addirittura vietati. In Lunigiana c’era però chi opponeva una qualche forma di resistenza al cristianesimo, tanto che nel 599 papa Gregorio Magno scriveva a Venanzio, vescovo di Luni, per fargli presente che sarebbe stato il caso di consacrare nuovi preti per allontanare gli abitanti di queste montagne dall’idolatria, per contrastare i culti pagani ancora diffusi nella sua terra. Non abbiamo molte idee su quali fossero questi culti: sta di fatto che il Leodegar della lastra s’era trovato a combatterli durante la sua opera di evangelizzazione della Lunigiana. In quelle quattordici righe scritte in latino su marmo sta il sunto della sua vita, la vita d’un uomo che non conobbe altro che la totale devozione al proprio credo. Un sunto che comincia così: “Non curandosi del pericolo di morte, aveva spezzato gli idoli pagani, convertì i peccatori, soccorse i bisognosi, sfamò del suo pane i pellegrini, distribuì ogni anno le decime riscosse, fondò l’ospedale di San Benedetto con la sua cappella, costruì una chiesa dedicata a San Martino”. Il ritratto d’un missionario infaticabile, d’un predicatore votato all’azione, d’un uomo che, con tutta evidenza, aveva anche ampî poteri decisionali, tant’è che s’è pensato che il Leodegar della lapide fosse il Leothecarius vescovo di Luni vissuto tra il settimo e l’ottavo secolo e citato negli Acta sanctorum. E s’è pensato che doveva esser sepolto non nella chiesa di San Giorgio, ma più a valle: nella pieve di Santo Stefano a Sorano.
Qui, ancora nel settimo secolo, si trovava un insediamento bizantino, un forte che si chiamava “Kastron Soreon” e che sorgeva sulla piana del Magra, la valle che oggi è attraversata dalla statale che percorre in lunghezza tutta la Lunigiana, partendo da Sarzana e arrivando fino alla Cisa per poi proseguire verso la Pianura Padana. Era la più importante base militare bizantina a nord di Luni. Che quest’area sia stata un presidio bizantino è comunque evidente anche dal nome stesso di Filattiera (che deriva dal greco Phylakterion, “fortezza”), e dal fatto che il santo titolare della chiesa del borgo, Giorgio, fosse il santo patrono dell’esercito bizantino. Passava di qui il sistema difensivo della Provincia Maritima Italorum, il nome che i bizantini diedero alla Liguria dopo averla conquistata nel 538 durante la guerra gotica, che sarebbe finita quindici anni dopo con la vittoria dei bizantini sugli ostrogoti. Riuscirono a tenerla per poco più di cent’anni: già nel 643 il re longobardo Rotari finiva l’opera di conquista della Liguria bizantina. Forse però un primo edificio di culto era già stato costruito quando arrivarono i bizantini. Ed era anche quello in cui, in epoca longobarda, forse venne sepolto Leodegar.
Più tardi, tra undicesimo e dodicesimo secolo, l’antico oratorio altomedievale venne sostituito con l’attuale pieve: doveva diventare uno dei più importanti edifici di culto della Diocesi di Luni. Venne interamente costruita con sassi di fiume: la Lunigiana è terra abbondante d’acque, di fiumi, rivi, ruscelli. E non era difficile procacciarsi la materia prima. Ciottoli levigati dall’acqua, tutti di forme e dimensioni diversi, legati con grossi strati di malta a formare una pieve d’impianto basilicale: tre ampie, austere navate, senza transetto, con un presbiterio sopraelevato, precedute da una facciata tripartita, a salienti, in mezzo alla quale s’apre un rosone a quattro lobi che ricorda la forma d’una croce, che però potrebbe esser frutto d’un intervento molto posteriore all’epoca in cui la pieve venne costruita. Anzi, è evidente che la facciata sia stata rimaneggiata più e più volte, tanto che quel che si conserva della facciata originale non è che una porzione di quanto si vede: secondo Giannichedda, si può ridurre tutto a “una porta secondaria, parte del portale centrale ad arco, forse una finestrella, ampi tratti della muratura conservata in altezza per circa due metri e su cui si impostarono le fasi successive”. Si parla, del resto, d’una pieve dalla ricca stratificazione. Di fianco, un campanile squadrato, alto e tozzo, con grandi finestre ad arco, murate: forse nasceva come torre di guardia e venne poi riadattato. Dietro, ecco le tre absidi, anch’esse in sassi di fiume, ingentilite da grandi arcate cieche, alcune decorate con losanghe. E sopra anche un piccolo, insolito campanile a vela, non così comune da trovare su di un’abside. Il tutto coperto da grosse lastre d’ardesia.
Anche la pieve di Sorano all’interno è disadorna. Imponente, sobria, grave. Ma anche qui c’è qualcosa che rompe l’equilibrio: subito dopo l’ingresso non si potrà far a meno di notare le due statue stele che sono state messe qui tra gli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila. Una presenza che sembra stridere: una chiesa medievale con dentro due idoli pagani? Idee moderne. Eppure, quelle due statue paiono quasi voler scortare chiunque entri nella chiesa, sembrano voler recitare fino in fondo il loro ruolo di testimoni dimessi della storia d’una terra abitata in tempi remoti da un popolo duro e fiero, che seppe tener testa ai romani e non volle rinunciare al culto delle proprie divinità. Forse neanche dopo che l’impero crollò: i liguri apuani non c’erano più da tempo, ma gli abitanti della Lunigiana forse continuarono a riverire quelle statue che per secoli furono dimenticate e che vennero riscoperte soltanto nell’Ottocento, epoca in cui a Novà di Zignago, in Val di Vara, non lontano da qui, venne trovata la prima statua stele della quale s’abbia notizia. E qui, a Sorano, di statue stele ne son state trovate sette, segno che in quest’area della valle del Magra, a pochi metri dal grande fiume, doveva esserci un’area di culto importante. La prima statua mai trovata a Sorano è qui, dentro la pieve: è una stele femminile rinvenuta negli anni Venti, due metri e mezzo sotto il pavimento della chiesa. Era a faccia in giù, senza testa, con segni di danneggiamenti deliberati: qualcuno, secoli fa, le ha tolto i seni, sicuramente perché quella statua serviva come materiale da costruzione, doveva entrare nella parete d’una vasca, e allora andava resa liscia. Poi, quando la vasca non fu più necessaria e venne smontata, la statua fu sotterrata. La seconda statua stele dentro la pieve è la “Sorano V”: alle statue stele si dànno i nomi del luogo di ritrovamento, seguito da un numero romano progressivo che indica l’ordine cronologico del suo rinvenimento. È meglio conservata rispetto alla sua sorella più piccola: intanto, la sua testa è integra, è quasi tonda e non ha la forma a mezza luna ch’è comunemente associata alle statue stele, perché venne rilavorata in epoca più tarda, più di mille anni dopo la sua realizzazione, con tutta probabilità in un momento storico in cui i liguri apuani avevano forse cominciato ad avere contatti con gli etruschi e cercavano di dare ai loro idoli fattezze più realistiche. Riconosciamo nettamente che è un uomo e che porta con sé diverse armi (una scure nella mano sinistra, due giavellotti nella destra, una daga attaccata alla cintura), tanto che oggi questa statua è nota a tutti come “il Guerriero di Sorano”. Le sue armi, però, niente poterono contro il pastorale di Leodegar e contro la cristianizzazione forzata degli abitanti di queste valli.
Forse è proprio alle statue stele che si riferisce la lapide di San Giorgio quando parla di “idoli spezzati”. Queste misteriose statue, simboli degli antichi culti dei Liguri Apuani, testimoni della loro cultura, della loro apertura, del loro modo di vivere, vennero sistematicamente distrutte durante l’Alto Medioevo, oppure reimpiegate. Lo stesso Guerriero di Sorano ebbe una fine ingloriosa: diventò l’architrave di una delle porte della pieve, con la parte scolpita rivolta verso l’alto, in modo che fosse irriconoscibile. E così rimase fino al luglio del 1999, anno in cui il Guerriero venne scoperto e rimosso da quella collocazione che gli aveva tolto ogni dignità: oggi dunque è lì, all’ingresso della pieve, pronto a raccontare la sua storia a chiunque abbia voglia di sentirla.
Quando Leodegar girava per la Lunigiana a predicare il suo dio, a convertire pagani, a soccorrere bisognosi e a fondare chiese e ospedali, c’erano ormai poche statue stele ancora in circolazione. Gran parte di questi antichi monumenti era già finita sotto terra. Alcune però rimanevano ancora orgogliosamente e ostinatamente visibili, e anche se i loro antichi adoratori non esistevano più, è possibile, ha scritto Michele Armanini, uno dei massimi studiosi dei liguri apuani, che “ancora in epoca altomedievale parte della popolazione della Lunigiana praticasse un culto legato a questi manufatti”. Anche secondo lo storico dell’arte medievale Guido Tigler gli “idoli spezzati” di Leodegar altro non sono che le statue stele dei Liguri Apuani. Feticci da abbattere. O, tutt’al più, da inglobare. Da riusare come materiali da costruzione, avendo cura che nessuno potesse più vederli, che potesse capire cosa fossero, facendo in modo che di quei culti e dei loro totem non rimanesse la minima traccia.
Certo, sugli “idoli spezzati” sono state poi formulate le ipotesi più varie. C’è chi ha creduto poco all’idea d’una sopravvivenza di forme di culto preromane in epoca tardoantica, e ha spiegato la storia raccontata dalla lapide sulla base d’una qualche forma d’idolatria praticata dai longobardi (così ha pensato Ubaldo Mazzini, che richiamava un culto degli alberi e uno delle fontane), oppure, hanno ipotizzato Romolo Formentini e Sandro Santini, dai mercenari goti che prestavano servizio nel castrum bizantino e ch’erano fonte di preoccupazione per le popolazioni locali. Ad ogni modo, è certo che gli evangelizzatori di queste terre vollero far sparire ogni residuo, che gli abitanti lo volessero o no. La storia dei liguri apuani è dunque rimasta sepolta per secoli, fino ai ritrovamenti dell’Ottocento. E che a Sorano, dove ora sorge la pieve, ci fosse un’area di culto significativa, lo s’è scoperto in tempi ancora più recenti. Ecco dunque l’idea di sistemare le statue stele dentro la chiesa, dentro al tempio di chi le aveva volute cancellare. Una sorta di riparazione, se vogliamo. Le statue ch’erano state utilizzate come pareti e architravi tornano al loro posto, per render evidente a tutti la natura di questo luogo, sacro per i liguri apuani prima, per i romani poi, per i cristiani alla fine. Una sorta di continuità, nonostante tutto. Una continuità che ha travalicato le epoche, e che oggi vive in quelle due statue. Si potrebbe dire che c’entrano poco con la chiesa, che in antico nessuno le avrebbe mai messe dentro la pieve, e per di più all’ingresso. Basta poco però ad abbattere ogni sicurezza: si vada al centro della navata centrale guardando l’altare, e si alzi lo sguardo verso sinistra. Si noterà un rilievo. Dall’aspetto molto familiare. Non è ancora chiara la sua cronologia, né sappiamo cosa di preciso raffiguri, né cosa voglia dire. Probabilmente una figura apotropaica, o un’allegoria di qualcosa. Qualunque cosa significhi, ci si accorgerà di una vistosa somiglianza con le statue stele: è evidente che chi ha scolpito quel rilievo aveva ben presenti quegli antichissimi idoli pagani. Sì, erano stati spezzati. Ma in qualche modo avevano continuato a sopravvivere.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).