La femme de Claude, il capolavoro di Francesco Mosso: un femminicidio dell'Ottocento


Un artista scomparso a 29 anni ma capace di produrre un capolavoro: La femme de Claude di Francesco Mosso, opera del 1877 conservata alla GAM di Torino, raffigurazione di quello che oggi diremmo un femminicidio, va visto come l’intervento del pittore in uno dei più accesi dibattiti del tempo.

Immenso fu lo sconcerto provocato, nell’agosto del 1877, dalla notizia della morte di Francesco Mosso, talentuoso pittore torinese ch’era mancato all’età di soli ventinove anni. Il tono dei necrologi era sempre lo stesso: chissà cos’avrebbe fatto se il destino gli avesse concesso di vivere più a lungo. Ventinove anni eran stati sufficienti a dipingere un capolavoro. Un’opera su cui Mosso aveva lavorato per cinque anni, tra momenti fulminei d’ispirazione intensa e lunghi periodi d’apatia, rinuncia, malinconia, disperazione. Una sorta di metafora della sua esistenza, l’ansia costante d’ottenere il successo nella pittura, la tensione frustrata dall’avvilimento, dal disinganno, dai lunghi periodi di stasi creativa, di mancanza di motivazioni. “So che la mia vita per ora è proprio inutile. Ma sono pieno d’inquietudini e d’amarezza”: così scriveva nelle memorie raccolte, dopo la sua scomparsa, dall’amico pittore Marco Calderini. Un diario colmo di confessioni a se stesso, la registrazione delle sue frustrazioni, qualche volta sogni di felicità. L’inquietudine dell’esistenza tormentata di Francesco Mosso s’era così irrimediabilmente riflessa nella complessa gestazione de La femme de Claude, opera oggi nota forse soltanto a esperti e appassionati d’Ottocento italiano, e ai visitatori che se la trovano davanti, presenza quasi inattesa, alla Galleria d’Arte Moderna di Torino. Eppure, è un’opera che può esser inclusa nel novero delle pietre angolari del nostro XIX secolo.

Mosso conduce a forza il visitatore nel salotto d’una casa borghese, dove s’è appena consumato un fatto tragico. Un delitto d’onore, si sarebbe detto allora. Un delitto passionale, lo avremmo chiamato fino a qualche anno fa. Oggi diremmo un femminicidio. Stesa su di un divano rivestito con un panno di raso verde a fiori, stessa fantasia del tessuto che copre le pareti per rendere quest’interno ancor più opprimente, giace una donna vestita di bianco, esanime, uccisa con un colpo di rivoltella. Mosso dà forte evidenza alla testa, che è sollevata in maniera innaturale: un rivolo di sangue scorre lungo la tempia, la bocca è ancora aperta, gli occhi sono ancora aperti, lo sguardo è atterrito, evidenziato da profonde occhiaie. Le braccia nude sono distese, le mani anch’esse assumono una tensione irreale. I bracciali d’oro, così come i tessuti, le foglie della dracena e il lampadario servono per costruire il contesto. È un precoce saggio di pittura verista, che prende spunto da un fatto di cronaca, anche se quella di Francesco Mosso non è cronaca: è più una via di mezzo tra attualità e teatro. L’impaginazione del dipinto è teatrale, prescinde dall’idea di restituire al riguardante la descrizione asettica d’una scena del crimine. Gli oggetti sul pavimento, lo sgabello caduto e l’arma gettata a terra servono semmai a raccontare cos’è accaduto e a guidare l’occhio verso la figura della donna, verso i suoi occhi, posizionati al centro esatto della scena, punto di fuga delle linee prospettiche.

Francesco Mosso, L'adultera o La femme de Claude (1877; olio su tela, 201 x 154 cm; Torino, Galleria d'Arte Moderna)
Francesco Mosso, L’adultera o La femme de Claude (1877; olio su tela, 201 x 154 cm; Torino, Galleria d’Arte Moderna)

L’artista torinese aveva cominciato a pensare all’opera nel 1872, si mise al lavoro poco dopo, e nel 1877 il dipinto era terminato: lo aveva esposto alla mostra della Promotrice di Torino, sollevando accese discussioni e destando scandalo, non tanto per il contenuto, dacché l’artista non disvelava alcun rimosso sociale né portava allo scoperto qualcosa di cui l’opinione pubblica non avrebbe voluto sentir parlare, quanto semmai per l’opportunità di dar evidenza a un accadimento di cronaca nera attraverso la pittura, e soprattutto per l’idea di farlo con un racconto così crudo, così aderente al vero, nonostante la costruzione smaccatamente scenografica del dipinto. La femme de Claude di Francesco Mosso era ostile alla pittura di storia che si praticava nelle Accademie, era ostile alla pittura di genere innocua e confortevole, era ostile alla critica salottiera che cercava il “bello” nelle opere d’arte. Per queste ragioni il dipinto fu criticato: erano le stesse obiezioni che, per fare un esempio, dieci anni dopo sarebbero state mosse anche contro la Partita a briscola di Michele Cammarano, resoconto d’una drammatica e sanguinosa rissa scoppiata in una taverna romana. “Dobbiamo riprodurre tutto ciò che avviene nel mondo fisico, qualunque fatto, qualunque fenomeno?”. Questa la domanda che un critico s’era fatto davanti al dipinto di Cammarano. Dieci anni dopo Francesco Mosso.

Opera di straripante modernità, dunque: Mosso aveva cominciato a pensarci dopo aver letto L’Homme-femme di Alexandre Dumas figlio, pamphlet con cui lo scrittore rispondeva a un articolo del giornalista Henri d’Ideville, scritto mentre tutta Parigi discuteva d’un fatto occorso nel giugno del 1872. Un uomo, tale Arthur Leroy Du Bourg, ricco proprietario, era andato a processo per aver ucciso sua moglie, rea d’averlo tradito. Il fatto aveva scatenato un’accesa discussione sul tema dei diritti delle donne, forse addirittura la prima della storia della Francia. Ideville aveva avviato il dibattito pubblico con un pezzo pubblicato su Le Soir il 15 maggio de 1872, e pur coi limiti imposti dalla mentalità del tempo (nonostante la sua visione sostanzialmente progressista, Ideville era convinto che la donna fosse più debole rispetto all’uomo, e dunque più scusabile), sosteneva che il Codice Civile francese, che non prevedeva condanna per l’uomo responsabile dell’assassinio della propria moglie in conseguenza di un adulterio, fosse una legge barbara, da riformare. Dumas figlio rispondeva affermando che un matrimonio si regge sull’amore puro, elevato, fecondo, un amore che dev’essere sacro sia per l’uomo sia per la donna, che l’uomo dev’essere lui per primo irreprensibile per non dare alcuna scusa alla donna, e che un uomo che abbia fatto tutto per la sua donna, in caso d’adulterio commesso dalla moglie (“l’adulterio dell’uomo non ha mai l’importanza e non può mai avere tutte le conseguenze di quello della donna”, scriveva nel suo opuscolo) è giustificato a ucciderla, dal momento che la donna adultera in questi casi non è più neanche un essere umano, ma “un essere puramente animale”, una guénon, ovvero una scimmia. “Tue-la”, “uccidila”: così Dumas figlio rispondeva alla questione sollevata da Ideville, se perdonare o punire la moglie adultera. Con questo grido, che qualche anno dopo Zola avrebbe definito “così bestiale, così ingiusto”. L’anno dopo, Dumas, forse per dare ulteriore sostanza alle proprie convinzioni, avrebbe scritto la pièce teatrale La femme de Claude, storia d’una donna frivola e infedele, Cesarina, che tradisce il laborioso marito Claudio, inventore d’armi, e che finirà per vendere i suoi progetti a una spia al soldo d’una potenza straniera, costringendo Claudio a ucciderla nel finale.

Il titolo scelto da Mosso, combattuto se chiamarla così oppure L’adultera, non serviva dunque né a nascondere né a nobilitare il soggetto del suo dipinto: era, semmai, funzionale a sottolineare la sua partecipazione a una discussione che lo affascinava. Nelle sue memorie, Mosso sintetizza L’Homme-femme, definendolo “un libretto assai ben fatto, molto arguto, molto elegante, pieno di foga comunicativa, ma piuttosto paradossale, basato molto sull’inverosimile”. L’artista, pur prendendo le distanze da certe affermazioni di Dumas, ebbe a scrivere che “una donna caduta è sempre guasta, anche nella sua riabilitazione compiuta, statua di bronzo dai piedi di argilla essa è sempre soggetta a ricadere al primo colpo della passione”. Tuttavia, le conclusioni di Dumas erano deboli, secondo Mosso, che nelle sue memorie si domanda tra le righe se, anziché giungere a conclusioni drastiche, non si farebbe piuttosto meglio a parlare di divorzio, riecheggiando dunque le conclusioni cui era giunto Ideville.

La femme de Claude, quel dipinto che l’artista immaginò dopo aver visto “vibrare in un canto un bel raggio di sole sopra un sofà antico, coperto di raso chiaro”, come avrebbe ricordato Calderini, va considerato né come una denuncia, né come una manifestazione di vicinanza, né come una cronaca, piuttosto come una sorta d’intervento dell’artista in un dibattito di vivissima attualità. Un dibattito che di lì a poco avrebbe portato la Francia a dotarsi, nel 1884, d’una nuova legge sul divorzio. E nonostante le polemiche della critica più retriva, la modernità del dipinto di Mosso venne immediatamente recepita: il Comune di Torino acquistò subito il dipinto, che tre anni dopo fu nuovamente esposto. Poi, nel 1884, uno dei più grandi artisti del tempo, Angelo Morbelli, se ne ricordò per il suo Asfissia, altro dipinto ispirato da un episodio di cronaca, dove la protagonista giace inerte sul divano nella stessa posa della femme del collega scomparso sette anni prima. Francesco Mosso era tra i pionieri d’una nuova pittura.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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