La spiaggia come “cosa mentale”. La Versilia di Carlo Carrà


Nel 1926, alla ricerca di nuove fonti d’ispirazione, Carlo Carrà passò la sua prima estate in Versilia. Da allora non abbandonò più questa terra che diventò oggetto delle sue marine, a metà tra paesaggio reale e astrazione mentale.

Fu il carrarese Arturo Dazzi a convincere Carlo Carrà a passare l’estate del 1926 in Versilia. I due s’erano incontrati alla Biennale di Venezia di quell’anno: coetanei, artisti dal percorso ormai consolidato, stavano attraversando due momenti profondamente diversi nelle rispettive carriere. Dazzi s’avviava all’apice del successo, non c’era mostra internazionale dove non esponesse, le commissioni ufficiali si susseguivano senza conoscere interruzioni. Carrà aveva finito da tempo di veleggiare tra le onde irruenti del futurismo, e cominciava a considerare la possibilità di orientare verso nuove direzioni la strada metafisica che, già durante gli anni della prima guerra mondiale, aveva imboccato, alla ricerca d’un linguaggio più rigoroso, più solido, per certi versi anche più intimo. Non gli bastava: il suo desiderio era più alto. Era alla ricerca d’una pittura che fosse in grado di rivelare un equilibrio più elevato, uno “stato superiore dell’essere”, per adoperare le sue stesse parole: Carrà era convinto di trovare nell’ordinario l’espressione poetica della sua creatività. Una sorta di risonanza tra spirito dell’artista e realtà oggettiva: un percorso che la pittura francese e italiana aveva cominciato a saggiare nell’ultimo scorcio dell’Ottocento. Carrà però voleva andare oltre: gli interessava esplorare gli elementi alla base della stessa attività artistica.

Nel 1926 decise allora di partire. Da allora non si sarebbe più staccato dalla Versilia, che avrebbe continuato a frequentare per tutte le estati della sua vita: vi aveva trovato quella dimensione che andava cercando almeno a partire dal Pino sul mare, il dipinto che inaugura questa fase della pittura di Carrà, a lungo conservato in collezione privata e dal 2022 entrato nella raccolta degli Uffizi. Le atmosfere che aveva esplorato pochi anni prima in Liguria vivevano, per Carrà, una dimensione ancor più intensa in una Versilia che a quel tempo somigliava più alla terra splendida e solitaria del D’Annunzio alcionio che all’Arcadia intellettuale che sarebbe divenuta nel dopoguerra, luogo di ritrovo di poeti e letterati tra bagni e ombrelloni.

Per Carrà fu una stagione durevole: ogni estate tornava a Forte dei Marmi per dipingere la massa uniforme della sua spiaggia, gli arbusti che punteggiano di verde le dune, i capanni e le cabine indagati nelle loro forme essenziali, parallelepipedi che si ergono sulla sabbia ma che non riescono a impedire la vista del mare. La Marina della Collezione Giovanardi di Milano esprime appieno le aspirazioni del Carrà post-metafisico. Di quella breve stagione, Carrà conserva l’atmosfera sospesa e rarefatta. Non c’è mai figura umana che intervenga nei suoi paesaggi. Diverso è però il senso del paesaggio. Carrà non dà voce a vedute oniriche, a realtà trasfigurate o misteriose. Semmai è il sogno che entra nel paesaggio, non accade il contrario. Il paesaggio è quello vero, quello dell’amata Versilia, la Versilia che fece innamorare Carrà “della spiaggia ancora selvaggia, delle pinete silenziose come cattedrali, con i monti dolomitici alle spalle, ma più ancora di quella luce versiliese singolarissima che ha il dono di rendere magici forme e colori”, come avrebbe ricordato il figlio Massimo. Subisce però il filtro delle sue astrazioni mentali, che lo conducono a quelle vedute così essenziali, così intrise di poesia, tracciate quasi sempre en plein air, perché Carrà ammetteva il fascino che vedere il mare esercitava sul suo spirito creatore. Ecco che allora anche la Marina versiliese diventa una specie di proiezione lirica, con gli oggetti indagati nella loro essenza: la spiaggia che diventa una massa grigiastra, le cabine che diventano cubi, solidi regolari, in mezzo il pennone di una bandiera che dà luogo a una linea retta, di fianco un altro capanno, un cespuglio che è somma di tratti di pennello rapidi e regolari, sul fondo il mare rigorosamente ripartito, con la spuma bianca sotto e la distesa azzurra sopra, l’orizzonte segna una divisione netta tra mare e cielo, con la massa celeste appesantita da toni gravi, da fine stagione.

Carlo Carrà, Marina (1940; olio su cartone telato, 40,2 x 50,2 cm; Milano, Collezione Augusto e Francesca Giovanardi)
Carlo Carrà, Marina (1940; olio su cartone telato, 40,2 x 50,2 cm; Milano, Collezione Augusto e Francesca Giovanardi)

“Le mie aspirazioni”, avrebbe ricordato il pittore parlando della sua esperienza a Forte dei Marmi, “erano dunque improntate al realismo, ma non ho certo abbandonato il concetto che la pittura è ‘cosa mentale’, come ebbe a definirla Leonardo. In tal modo l’orgogliosa intelligenza non operava più sopravvalutandosi ma si accordava col vivente esempio delle cose. Anche l’esecuzione è così spontaneamente condotta alla ragione costruttiva, la quale a sua volta si accorda alle sensazioni che trovano luce e proprietà in un ordine plastico che io definisco scopo supremo della mia fatica”. Si potrebbe pensare che Carrà fosse rimasto affascinato dalla lezione di Cézanne: anche la pittura di Carrà diventa, sostanzialmente, una pittura di volumi. Le radici della costruzione del suo ordine sono però da cercare anche nella pittura del Quattrocento, nelle geometrie di Piero della Francesca, nelle arditezze prospettiche di Paolo Uccello, ma si potrebbe guardare pure più indietro, risalendo al rigore spaziale di Giotto. E poi, dalla lezione dei maestri antichi Carrà ricava anche il senso d’una pittura che supera il dato reale per cercare una dimensione superiore: una dimensione che Carrà trova nella poesia trasecolata e calma che pervade le sue marine. E una poesia che separa Carrà da Cézanne, come aveva già notato Longhi: “Carrà s’apre una strada diversa e rifiutandosi di riassumere quei precedenti come sufficienza di tecnica sistematica, li riscopre poeticamente come brani, giunture ed accenti da comporre in un canto che ha da trovare il tono in una inclinazione dell’animo”.

Quello di Carrà, ha suggerito la storica dell’arte Elena Pontiggia, è un procedimento simile a quello che negli stessi anni, in letteratura, veniva sperimentato da Ungaretti: come il poeta, nella volontà di lasciarsi alle spalle quell’“epoca di sfacelo e di esageramenti” segnata dalle esperienze del futurismo e del frammentismo, intendeva recuperare la parola come mezzo per trasformare le sensazioni in espressioni, adoperando forme semplici ma caricate d’intense tangenze, allo stesso modo Carrà trasforma la realtà, scrive Pontiggia, in “archetipi, modelli primordiali di ciò che a un certo punto entrerà nel flusso del tempo”. Una poesia fatta di forme semplici ed elementari, che aleggia sotto il cielo plumbeo d’una giornata di fine estate sulle spiagge della Versilia.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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