Secondo la visione buddhista, la legge fondamentale dell’universo trova la propria manifestazione in ogni singolo essere vivente. “Tutte le forme di vita”, dice Daisaku Ikeda, ch’è tra i più influenti maestri buddhisti dei nostri tempi, “non sono elementi isolati, ma si integrano nella forza vitale cosmica. Posto in altri termini, la parte è il tutto e il tutto è la parte. Gli esseri umani e la natura non umana sono parti integranti della stessa forza vitale cosmica. Sono uniche nelle loro caratteristiche individuali e un tutto dal punto di vista della simbiosi. Sono interrelate in modo indissolubile”. L’eco delle filosofie e della spiritualità orientale si riverbera nella produzione pittorica di Matteo Pannocchia, giovane artista livornese giunto a maturare una visione, una riconoscibilità e una consapevolezza dei proprî mezzi varcata la soglia dei trent’anni, al culmine d’un percorso erratico e tortuoso, votato alla sperimentazione, eppure coerente nella sua apparente mancanza d’ogni linearità. Pannocchia, classe 1990, si forma all’Istituto d’Arte di Pisa studiando grafica e approda alla pittura in un secondo momento, poi l’accantona, ci ritorna, l’approfondisce studiando all’Accademia di Belle Arti di Carrara prima e a quella di Bologna poi, quindi torna a fare altro, decide di sviluppare in parallelo progetti aperti su fronti completamente diversi (è anche musicista, e col suo alter ego De Skape Studio produce beat che pescano dall’hip hop, dal soul, dalla musica ambient: superfluo rimarcare che i suoi brani paiono le traduzioni in note dei suoi dipinti). La fiamma della pittura però continua a bruciare. Non si può domare, non si può spegnere. È quel che accade a ogni pittore vero. E da almeno due o tre anni l’artista livornese sta conoscendo un periodo di copiosa, brillante produttività.
Matteo Pannocchia riconduce le origini della sua pittura a Notorious B.I.G.: la musica rap è da sempre tra i suoi ascolti, così sceglie di dedicare il primo dipinto della sua carriera a uno dei rapper più rilevanti della storia, al padrone della scena hip-hop della East Coast degli anni Novanta, morto ammazzato a ventisette anni ancora da compiere. La piccola tela da cui tutto ha preso avvio è ancora nello studio di Pannocchia, un po’ nascosta: è un ritratto basato su quella ch’è forse la fotografia più celebre di Notorious B.I.G., lo scatto di Barron Claiborne che lo cattura di fronte, qualche mese prima di morire, lo sguardo torvo ma spento, la catena d’oro al collo, in testa la corona messa “sulle ventitré”, come si sarebbe detto qualche decennio fa. Pannocchia smorza i toni della fotografia, pulisce, sbiadisce, dilava tutto stendendo sopra all’immagine del rapper una patina opaca che ce lo fa apparire al contempo più umano e più distante, una specie di fantasma. È la prima opera dichiarata di Matteo Pannocchia, una prova, un test, forse eseguito senza neppure pensarci troppo: eppure s’intravede già in nuce l’evoluzione della sua pittura ch’è fatta di toni opachi e tenui, di composizioni evanescenti e nebulose, di segni sciolti e leggeri, segni quasi grafici (la pittura di Pannocchia, va sottolineato, è sostenuta da un’abbondante produzione grafica, i dipinti spesso nascono da disegni anche piuttosto elaborati: il giovane artista toscano porta con sé tutta la tradizione della sua regione d’origine).
Di lì in avanti è stato un continuo sperimentare prima di giungere a quella ch’è oggi la sua pittura, una pittura a olio ottenuta con ritmi di lavoro lenti: potrebbe apparire una contraddizione rispetto a un’arte che sembra invece istintiva e gestuale, ma senza lentezza non esisterebbero i dipinti di Matteo Pannocchia. “La lentezza”, mi spiega, “la intendo come ritmo e come processo. Non ‘lento’ nel senso di essere chiusi nella propria comfort zone: nella mia personale esperienza, è una crescita, avere pazienza e seguire il proprio percorso”. E aggiunge una frase che s’è appuntato sul telefono cellulare: “Seminare ed annaffiare, nel bene o nel male poi qualcosa viene fuori”. Nel suo caso, il raccolto ha cominciato da qualche tempo a elargire frutti rubicondi, maturi. Si può prendere a esempio, tra i primi segni di quest’avvenuta maturazione, un dipinto che s’intitola Better to stay outside: una scena apparentemente banale, una ragazza seduta nel giardino di casa sua, il cane sull’erba che incede verso l’edificio sullo sfondo, un albero oltre la staccionata dei vicini, appare intrisa di tutta l’inquietudine che si cela dietro il quotidiano più dimesso. Lo sguardo della ragazza è perso nel vuoto, il giardino pare un lago acido, il cielo è tinto di viola, la casa ha proporzioni irreali, l’albero ha le sembianze d’uno scheletro. Pannocchia interviene su forme e colori per trasmettere all’osservatore quel senso d’alienazione ch’è proprio della sua, della nostra generazione. Talvolta subentra anche un’aria di sospensione che sembra giungere da una riflessione profonda su certa arte statunitense che va da Edward Hopper a Richard Diebenkorn: Don’t worry too much è forse il dipinto che più s’avvicina all’immaginario hopperiano, con quella stanza spoglia e umile dove tornano la ragazza e il cane, e dove un’apertura indefinita lascia entrare una luce dorata, irreale, metafisica. Sulla superficie della tela si mescolano immagini concrete, ricordi, motivi che vengono dall’inconscio dell’artista, per il quale la pittura, mi dice, è anche una sorta di autoanalisi, un’indagine introspettiva: è anche per questa ragione che il suo attrezzario pare richiamare più la dimensione del sogno e del ricordo che quella della realtà.
Non esiste però, nella pittura di Matteo Pannocchia, una ricerca meditata sui soggetti. L’artista livornese si lascia guidare dall’ispirazione del momento. Può essere un istante del quotidiano, può essere un ricordo, può essere un video guardato su Instagram o su YouTube, può essere anche una canzone. La partenza è però quasi sempre il disegno. L’arrivo è una scena ch’è fondata su di uno spiccato senso della figura e su di un impianto compositivo solido e meditato, e che cerca però una mediazione tra la figurazione e l’astrazione, pur propendendo verso la prima e pur assumendo quasi sempre le sembianze del miraggio, del ricordo, dell’allucinazione. Il risultato è conseguito attraverso un rigoroso lavoro sul colore e sulle forme. I colori sono freddi, delicati, impalpabili, sempre irrealistici. E alle forme Pannocchia applica un processo di costante sottrazione e appiattimento: ne vengono fuori figure che sfiorano la bidimensionalità delle stampe ukiyo-e giapponesi, altro suo riferimento, spesso anche per le inquadrature fortemente scorciate, oblique. “Matteo predispone la sua particolare narrazione per immagini”, ha scritto Jacopo Suggi, “affidandosi a tagli e alle inquadrature fotografiche, e a una tavolozza peculiare fatta di colori tersi, nebbiosi, talvolta solitamente da singole figure, rese ancora più solitarie da un’epurazione dei dettagli, sottraendo tutto ciò che non è ritenuto necessario a veicolare un messaggio, rivendicando la volontà del pittore di affidare al pubblico opere di grande immediatezza e intelligibilità, significato spesso rinforzato anche dalla presenza di scritte e slogan”. Può del resto capitare che la fonte che ha ispirato il dipinto venga resa esplicita: non di rado Pannocchia riempie i suoi dipinti con frasi che vengono dalla letteratura, dal cinema, dalla musica. “Sono uno strano uomo, che può frequentare solo te, abbracciami”: il verso d’una canzone di Piero Ciampi copre l’immagine lieve, eterea, incorporea d’un calessino sul quale siede una coppia d’innamorati e ch’è trainato da un cavallo: la scenetta d’altri tempi trasporta il riguardante sul lungomare d’una Livorno d’inizio Novecento che pare venir fuori da un dipinto d’un Guglielmo Micheli o d’un Renato Natali, investita dal rosa acido d’un tramonto che torna spesso nella produzione di Pannocchia. Un rosa che deriva dalla lezione di Philip Guston e che l’artista livornese ha fatto suo con l’obiettivo di donare leggerezza ai suoi dipinti. È del resto la ricerca della leggerezza una delle principali preoccupazioni della sua arte. Un po’ per calcolo pratico: parliamo pur sempre d’un oggetto che una persona si mette in casa, mi dice. E non è semplice trovare un artista che abbia voglia di considerare il prodotto del suo talento anche per ciò che sarà per chi lo comprerà: un pezzo dell’arredamento. E siccome pochi vogliono appendere alla propria parete un dipinto opprimente, meglio star leggeri. Ma la leggerezza che Pannocchia cerca è anche un riflesso del suo modo d’intendere la vita. Non è una “percezione della vita superficiale”, mi spiega, “ma piuttosto è una conseguenza di un lavoro interiore personale. È un modo di vivere fiducioso e ottimista, una specie di consapevolezza del proprio valore e potenzialità e che tutto, pure nei momenti più difficili della vita, possono essere trasformati in qualcosa di positivo”. “Leggerezza” è forse il sostantivo più ricorrente mentre mi fa vedere i dipinti nel suo studio, un piccolo fondo aperto sulla strada che pare un po’ una galleria in miniatura e un po’ un pied-à-terre, nel mezzo della Livorno ebraica, appena dietro al Fosso Reale nel quale leggenda vuole Modigliani abbia scagliato le proprie teste, nel cuore d’un quartiere ch’è sempre stato frequentato dagli artisti negli ultimi duecento anni, una zona della città dove quella leggerezza pare di sentirla nei rumori delle strade, di vederla nelle persone, di respirarla nel vento, di viverla anche su se stessi anche se non si è mai stati prima da queste parti, perché qui si vive così. Lentamente. Con quella leggerezza fresca, giovane e anche un poco malinconica che Giorgio Caproni, lontano dalla sua Livorno, cercava di recuperare via da casa nei Versi livornesi, la leggerezza che tentava di rievocare, verso la quale voleva ritornare (“Mia mano, fatti piuma: / fatti vela; e leggera / muovendoti sulla tastiera, / sii cauta. E bada, prima / di fermare la rima, / che stai scrivendo d’una / che fu viva e fu vera. // Tu sai che la mia preghiera / è schietta, e che l’errore / è pronto a stornare il cuore. / Sii arguta e attenta: pia. / Sii magra e sii poesia / se vuoi essere vita. / E se non vuoi tradita / la sua semplice gloria, / sii fine e popolare / come fu lei – sii ardita / e trepida, tutta storia / gentile, senza ambizione”).
Ci sono opere, nella produzione di Matteo Pannocchia, che sembrano evocare questo senso di leggerezza in maniera più immediata rispetto ad altre, anche per via del ricorso a un non finito ch’è presente in quasi tutti i suoi lavori recenti. Per esempio Close to the sea, una sorta d’autoritratto in un locale sul lungomare di Livorno. La sua città, la città che proprio quest’estate a furor di popolo lo ha votato come miglior artista in un’estemporanea organizzata in piazza Garibaldi, che ha radunato diversi giovani artisti della zona. Oppure certi dipinti ambientati su spiagge che evocano un po’ la Toscana, un po’ la California (anche se le palme, possiamo starne certi, non sono quelle dell’Ocean Boulevard di Long Beach, ma sono quelle del viale Italia di Livorno, nella zona della Terrazza Mascagni). E poi piscine, campi da tennis, viali alberati, interni domestici, parchi acquatici, l’immagine d’una Livorno contemporanea trasognata e sfumata. Quella di Matteo Pannocchia è anche una leggerezza esistenziale, un modo per rispondere all’ansia del quotidiano, all’ansia tipica d’una generazione, quella dei nati tra gli anni Ottanta e Novanta, che ha affrontato crisi economiche, crisi immobiliari, una pandemia, la rivoluzione dei mezzi di comunicazione di massa, il riaffacciarsi di scenarî di guerra nel mezzo dell’Europa, il crollo del sistema di valori ch’era stato costruito nel dopoguerra che s’è abbattuto sui giovani diventati oggi trentenni e che come nessun’altra generazione prima e dopo di loro hanno sperimentato cambiamenti così forti, così radicali, così imprevedibili, a una velocità così sostenuta. Un giornalista americano, Michael Hobbes, in un longform pubblicato nel 2023 sull’Huffington Post, animato da una grafica che riprende lo stile dei primi videogiochi, ha scritto nel che i millennial oggi stanno “affrontando il più spaventoso futuro finanziario di qualunque generazione fin dai tempi della Grande Depressione”: una generazione che si sente messa all’angolo, soverchiata, quasi annichilita. In una parola: che si sente fregata. La leggerezza diventa allora una necessità.
Appeso a una parete dello studio di Matteo Pannocchia c’è un dipinto recente, Early Morning, raffigura un ragazzo disteso su di un letto assieme al suo cane, con uno scorcio forte e ardito, una specie di Cristo morto del Mantegna alla rovescia, visto dalla testa. In fondo, la camera s’apre su di un esterno, su di una proiezione dove si vede un soldato con una tromba (un “brigadiere”, lo chiama l’artista). Pannocchia non riesce a spiegare bene cosa significhi questo dipinto, ma non è importante: un artista non è tenuto a dare spiegazioni del suo lavoro. E chi da un artista vuole una spiegazione, non sta cercando di capire, di leggere quello che ha davanti, d’interpretarlo, ma vuole semplicemente farsi raccontare una storia. Quel che è certo è che Pannocchia la intende come un’opera sulla disobbedienza, ma il tema bellico c’entra poco: potremmo leggerla come una disobbedienza a qualsiasi chiamata alle armi, a qualunque aspettativa. Una voglia d’essere gli unici a disporre della propria vita come meglio si crede. Magari “trovando una comunione con gli animali”, come notava Jacopo Suggi nel suo scritto che ha accompagnato la mostra Arterie in cui Matteo Pannocchia ha esposto i suoi lavori nel 2023 alla galleria Extra Factory di Livorno.
Si torna dunque da dove siamo partiti: questa leggerezza, nell’arte di Matteo Pannocchia, non coinvolge soltanto gli esseri umani, è leggerezza che anima un flusso d’energia. Il cane, presenza talvolta concreta, talaltra più immateriale, mistica, spirituale (come sembra essere quello di Stretched dog, è il cane che l’artista aveva da bambino, mi dice, e torna dunque a manifestarsi in un lavoro recente dopo un ricordo), pare quasi elevarsi ad animale simbolo di questa forza vitale che si manifesta in tutti gli esseri viventi. Se una società ha perso i punti di riferimento, se una generazione è rimasta senza niente in cui riconoscersi, allora per Matteo Pannocchia la strada per ricostruire un rapporto con se stessi e con tutto quello che si ha attorno non può esser altro che un ritorno alla natura, a un’energia primigenia, a uno stato di totale leggerezza d’animo, a una forma di liberazione che si sostanzia nel ritorno a una semplicità consapevole e piena, verso cui tendere con una profonda riflessione su se stessi, che può essere mediata o meno dal ricorso a una qualche disciplina filosofica o spirituale. Sembra emergere, al di là della superficie di molti dei dipinti di Matteo Pannocchia, un clima, una temperatura che sfiora il misticismo.
“Credo nel nostro essere persone comuni”, mi dice mentre mi parla della Scorciatoia, un dipinto nostalgico, l’istantanea d’un’automobile che s’inoltra lungo una strada secondaria, una strada provinciale, al calare del sole, sotto un cielo rosa, sopra una strada rosa, quel rosa che oggi associamo al ricordo degli anni Ottanta per chissà quale motivo, dato che non c’era all’epoca tutta quest’abbondanza di rosa (forse per i neon, forse per i colori dell’abbigliamento, forse per i primi videogiochi che mandavano solo immagini in ciano e magenta, forse per le tinte che assumono le cartoline sbiadite). È un dipinto in cui sembra di leggere una sorta di riassunto dell’ancor giovane carriera di Matteo Pannocchia: un percorso che, a dispetto del nome del dipinto, non ha niente di diritto, lineare, rapido. Tutt’altro: è un itinerario sinuoso, pieno di curve, da percorrere però con lentezza e con la consapevolezza del viaggio. Osservando il paesaggio. Comprendendo che spesso per arrivare alla meta non ci sono autostrade. Pensando sì alla destinazione, ma con la contezza che poi una volta arrivati potrebbe darsi la necessità di dover ripartire, perché si scopre che l’itinerario non è ancora finito.
E oggi, arrivato a una maturità artistica piuttosto definita, Matteo Pannocchia può esser tranquillamente accostato a quella nuova giovane figurazione italiana che raduna un eterogeneo nucleo d’artisti nati tra gli anni Ottanta e Novanta (vi possiamo includere, giusto a titolo d’esempio, pittori come Francesca Banchelli, Romina Bassu, Fabrizio Cotognini, Rudy Cremonini, Alice Faloretti, Andrea Fontanari, Patrizio Di Massimo, Diego Gualandris, Davide Serpetti) in grado di muoversi tra realtà e sogno, tra impressione ed espressione, pittori che spesso guardano all’America (talvolta forse pure troppo) comprendendo però che rimanere legati alla tradizione del nostro paese è l’unico modo per emergere, artisti che stanno aprendo (anzi, si può dire che abbiano già aperto) una nuova, importante, feconda stagione per la pittura italiana. Alcuni di loro hanno già carriere ben avviate, hanno già esposto in contesti nazionali e internazionali, altri invece hanno iniziato da poco a farsi notare, è un movimento da sostenere e incoraggiare. Di sicuro, per Matteo Pannocchia quel viaggio lento, incerto e pieno di curve ch’emerge dai suoi dipinti non è che appena cominciato.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).