Il Parco Sculture del Chianti, il bosco dove l'arte diviene parte del paesaggio


Dal 2004, tra le colline del Chianti, esiste un bosco dove l'arte diventa parte integrante del paesaggio, con cui dialoga in armonia: è il Parco Sculture del Chianti.

Un bosco dove una volta correvano i cinghiali, sul pendio di una collina, non lontano da Siena (la città dista una ventina di minuti d’automobile), ma già nella natura piena: il borgo più vicino, Pievasciata, è una manciata di case a qualche tornante di distanza. Addirittura, se si arriva da nord, l’unica via per giungere sin qui è una cosiddetta “strada bianca”, ovvero una strada sterrata che, dal villaggio di Vagliagli, s’inoltra per quattro chilometri di curve in mezzo agli alberi: così, chi preferisce un cammino più agevole, quello che sale da Ponte a Bozzone, deve fare un po’ di strada in più. Lecci, querce, ulivi e faggi a far da contorno, per non parlare degl’immancabili cipressi, presenza che accompagna il viaggiatore in tutta quest’area della Toscana. È questo il contesto in cui sorge il Parco Sculture del Chianti, uno dei parchi d’arte contemporanea più visitati e celebri della regione: il territorio comunale è quello di Castelnuovo Berardenga, ma la cittadina è a una decina di chilometri. Un percorso di statue di artisti provenienti da tutti i continenti, inserito in sette ettari di bosco, là dove negli anni Novanta si trovava un allevamento di cinghiali: il terreno viene quindi rilevato da due coniugi triestini, Piero e Rosalba Giadrossi, galleristi (Piero è anche artista, nonché curatore del parco), che decidono di convertirlo in un grande giardino d’arte.

I lavori durano cinque anni, e nel 2004 il parco finalmente può aprire al pubblico. Piero e Rosalba Giadrossi volevano un luogo in cui l’integrazione tra arte e natura fosse la più compiuta possibile: per questa ragione, ogni opera è nata site specific, ovvero appositamente realizzata per il contesto in cui è stata collocata all’interno del bosco. Ognuno dei ventisei artisti coinvolti nel progetto ha personalmente visitato la selva e ha lavorato tenendo bene a mente tutti gli elementi che avrebbero interagito con la scultura: la luce, la posizione, i profumi del bosco, i suoi suoni, i suoi colori. Inoltre, i due coniugi si sono preoccupati di dare adeguata rappresentanza a tutti i materiali: vi si trovano opere in ferro, in marmo, in pietra, in legno, in resina, in vetro.

Armonia e connubio con la natura sono i principî fondamentali che hanno guidato la realizzazione del Parco Sculture del Chianti. “Mentre ci sono differenze di soggetti, materiali e stili nel Parco”, ha scritto la storica dell’arte Brenda Moore McCann nell’introduzione al catalogo, “la maggioranza delle sculture mostra una notevole sensibilità all’ambiente naturale circostante con il quale risulta ben integrata. In questa eclettica gamma di opere e temi, ciascuna mantiene la sua autonomia ma l’integrazione fa del Parco un insieme organico e molto creativo”. Evitando dunque il problema che caratterizza diversi altri parchi, quello dell’affastellamento delle opere e della scarsa comunicazione tra i lavori dei varî artisti che vi prendono parte. Qui, al contrario, non ci sono opere che dominano sulle altre: quasi tutte godono del proprio spazio senza che altre interferiscano. Oppure, quando entrano assieme nel campo visivo, lo fanno per tessere un dialogo profondo. Anche per questo ogni anno il sito attrae migliaia di visitatori da tutto il mondo, che vengono sin qui per rendersi conto di come, in Toscana, l’arte rappresenti un mezzo per sottolineare il fecondo e rispettoso rapporto che da secoli lega l’uomo al paesaggio. Sono tante dunque le pubblicazioni che citano il Parco Sculture del Chianti come uno degli esempî più brillanti di arte ambientale, e ovunque si cita la menzione del National Geographic che, nel 2014, lo ha inserito tra i dieci parchi più belli del mondo. Medaglie di cui il Parco va fiero.

Parco Sculture del Chianti
Parco Sculture del Chianti. Ph. Credit Alessandro Pasquali - Danae Project


Parco Sculture del Chianti
Parco Sculture del Chianti. Ph. Credit Alessandro Pasquali - Danae Project


Parco Sculture del Chianti
Parco Sculture del Chianti. Ph. Credit Alessandro Pasquali - Danae Project


Parco Sculture del Chianti
Parco Sculture del Chianti. Ph. Credit Alessandro Pasquali - Danae Project


Parco Sculture del Chianti
Parco Sculture del Chianti. Ph. Credit Alessandro Pasquali - Danae Project


Parco Sculture del Chianti
Parco Sculture del Chianti. Ph. Credit Alessandro Pasquali - Danae Project

Il percorso comincia con La casa nel bosco, opera in travertino del giapponese Kei Nakamura (Takorozowa, 1976): era in origine la biglietteria del parco, reminiscente dell’architettura classica, qui ridotta nelle sue forme più elementari, ovvero due elementi verticali che ne sostengono uno verticale. È una sorta di dichiarazione d’intenti: i colori, le forme (c’è anche una finestra a forma di foglia) e il materiale richiamano il bosco, mentre la struttura rimanda inequivocabilmente all’azione dell’uomo. Nakamura stesso voleva un’opera in grado d’immergersi nel paesaggio, “ma che allo stesso tempo fosse una scultura in interessante contrasto con la natura”, ha detto. Dalla solidità dell’architettura alla natura sfuggente dell’acqua, dall’antichità classica ai canali di Venezia: il viaggio prosegue con The Blue Bridge della danese Ursula Reuter Christiansen (Treviri, 1943), l’unica opera non realizzata specificatamente per il parco, dacché fu eseguita per la Biennale di Venezia del 2001, in aperto richiamo ai ponti e ai canali di Venezia (e alle sue attività manufatturiere: l’armatura in vetro regge infatti 213 tessere di vetro), fusi in un unico elemento. Qui, nel Chianti, ha assunto un’altra valenza: “rappresenta”, scrive Brenda Moore McCann, “una metafora che connette Venezia ad un bosco nel cuore delle colline del Chianti o più semplicemente un posto ad un altro”, ma anche “persone e culture”, oltre a essere un’allegoria “del viaggio di ogni visitatore”.

Poco più avanti, a catturare il visitatore è Energy di Costas Varotsos (Atene, 1955), una monumentale scultura alta otto metri, interamente realizzata in vetro con un lungo tubo di ferro a sostenere il fragile materiale, e la cui forma richiama subito quella dei cipressi tipici della regione e si fonde alla perfezione con gli alberi poco distanti, mutando peraltro i colori a seconda delle condizioni di luce: la sua posizione, al centro di una piccola radura, le permette di concedersi ai raggi del sole in ogni momento della giornata. “Questo lavoro”, afferma Moore McCann, “si colloca sullo stesso livello dello spettatore e piuttosto che commemorare un evento passato o una persona, fornisce un’esperienza visiva che coinvolge anche fisicamente”. Un fascio d’energia, in breve, che sale dalla terra a ricordarci la potenza delle forze della natura. Una potenza che sembra possa sprigionare da un momento all’altro anche La pietra sospesa di Mauro Berrettini (Buonconvento, 1943), realizzata in travertino cavato a Rapolano, non lontano da qui. Uomo e natura di nuovo si lambiscono, in un portale liscio e austero che regge una pietra grezza: il masso incombe su chi varca il portale, quasi voglia dissuadere dal varcare fisicamente la soglia (come se non bastassero, peraltro, le altre tre pietre inserite verticalmente), e invitare a oltrepassarla anzi mentalmente, spiritualmente. Una sorta d’invito a rispettare la natura, instaurando con lei un rapporto di felice scambio.

Superate alcune installazioni (Balance di Christoph Spath, Harmonic divergence di Jaya Schuerch, Faith and Illusion di Dolorosa Sinaga, Limes di Johannes Pfeiffer e Falling leaf di Yasmina Heidar) ci s’inoltra nel folto della selva e si raggiunge la scultura più imponente del parco, The Keel del turco Kemal Tufan (Istanbul, 1962), opera in lava vulcanica raffigurante lo scheletro d’una nave. Un’enorme vanitas che ricorda all’uomo di essere in balia della natura, dato che è la forza del mare ad aver ridotto la maestosa nave in un’ossuta struttura inerte, adagiata sotto gli alberi. Ma è anche simbolo di rigenerazione: i resti della nave diventano opera d’arte e sono pronti a vivere una nuova vita sotto una nuova forma. Di fronte all’opera di Tufan, ecco comparire l’Edificio incompiuto dell’olandese Cor Litjens (Nimega, 1956), che incornicia The Keel con la sua struttura che ricorda di nuovo un portale: questa volta però la scultura è collocata al centro del sentiero, costrigendo il visitatore a superarla per renderlo partecipe dell’opera. Una partecipazione che lo sprona a immaginare come sarebbe quell’edificio, se fosse compiuto: un po’ come accaduto a tante grandi opere della storia dell’arte, a cominciare dal Duomo Nuovo di Siena, la monumentale cattedrale che non vide mai la fine dei suoi lavori e che ha ispirato la scultura di Litjens. I colori della natura fanno il resto, divenendo simboli del tempo che agisce su ciò che l’uomo non ha terminato.

Kei Nakamura, La casa nel bosco
Kei Nakamura, La casa nel bosco. Ph. Credit Alessandro Pasquali - Danae Project


Ursula Reuter Christiansen, The Blue Bridge
Ursula Reuter Christiansen, The Blue Bridge. Ph. Credit Alessandro Pasquali - Danae Project


Costas Varotsos, Energy
Costas Varotsos, Energy. Ph. Credit Alessandro Pasquali - Danae Project


Mauro Berrettini, La pietra sospesa
Mauro Berrettini, La pietra sospesa. Ph. Credit Alessandro Pasquali - Danae Project


Kemal Tufan, The Keel
Kemal Tufan, The Keel. Ph. Credit Alessandro Pasquali - Danae Project


Cor Litjens, Edificio incompiuto
Cor Litjens, Edificio incompiuto. Ph. Credit Alessandro Pasquali - Danae Project

Qualche passo più avanti, si troverà la prima scultura interattiva del parco: è Dialogue dell’australiana Anita Glesta (New York, 1958), composta da due parti distinte che si trovano su due rupi che si fronteggiano, separate da un torrentello. Sono due sedili, uno in travertino e l’altro in marmo (in particolare in marmo bianco e verde, la bicromia tipica delle antiche architetture senesi), dove ci si può sedere per ammirare il bosco, in uno dei punti più scenografici del parco. Un dialogo tra le due zone del bosco, un dialogo tra il visitatore e il parco. E un dialogo all’insegna dell’interazione che prosegue poco dopo, quando ci s’imbatte nel Labirinto del britannico Jeff Saward, specialista dei labirinti, sui quali lavora ininterrottamente dal 1976. Il labirinto da secoli caratterizza l’arte toscana: dagli etruschi (ne sono stati trovati incisi sul vasellame prodotto dalla popolazione che in antico abitò la Toscana) passando attraverso l’arte medievale (celeberrimo è quello che s’ammira sulla facciata del Duomo di San Martino a Lucca) fino ad arrivare all’arte contemporanea, col labirinto realizzato nel 1980 da Robert Serra per il parco di Villa Celle a Pistoia. Il Labirinto di Saward è l’ultimo arrivato in regione e vuol essere un viaggio alla scoperta del sé: terminato il percorso all’interno del labirinto, in forma ottagonale e realizzato in tessere di vetro, il visitatore troverà una seduta e uno specchio. Il confronto, qui, sarà con se stesso.

Tra le presenze più sorprendenti del bosco figura Rainbow Crash di Federica Marangoni (Padova, 1940): artista e designer, è una specialista del vetro nota a livello internazionale (per lei anche una partecipazione alla Biennale di Venezia), e per il Parco del Chianti ha ideato un arcobaleno che s’interrompe a metà, cadendo e frantumandosi al suolo (i frammenti di vetro dell’arcobaleno rotto si trovano tutti disseminati alla base della statua). Con una particolarità: in luogo dei sette veri colori dell’arcobaleno, l’artista ne ha usati otto, a simboleggiare ulteriormente il carattere artificiale del suo intervento. La fragilità suggerita da Rainbow Crash vuole porci di fronte all’estrema delicatezza del nostro legame con la natura: la storia recente ci ha dimostrato come spesso questo equilibrio sia stato messo in discussione o minacciato dagli avanzamenti della tecnologia e dal consumismo, e l’opera di Federica Marangoni intende ricordarcelo. Dalla natura si passa alla città, con una particolarissima installazione sonora, Off the beaten track dell’inglese William Furlong (Woking, 1944), costituita da sedici cubi d’acciaio posti su due lati di un sentiero che devia leggermente da quello principale. Camminando tra i cubi, dopo qualche secondo si potranno ascoltare i suoni della città: le campane del Duomo di Siena, il vociare dei turisti, una banda che passa per la strada, la sirena di un’ambulanza. Un effetto straniante: in mezzo alla calma assoluta di un bosco lontano da qualsiasi frastuono, si piomba nella frenesia cittadina.

Si guadagna nuovamente il sentiero principale e si completa il giro dell’anello: tuttavia, prima di andare, è impossibile non dare dapprima un’occhiata alla Milk Factory di Vincent Leow (Singapore, 1961), le coloratissime mucche in ferro sagomato che vogliono spingere i visitatori a riflettere sull’urbanizzazione che prende il sopravvento sulla natura e sul fatto che anche la natura debba sottostare alle logiche della produzione di massa, ed è altrettanto impossibile non fermarsi per un attimo nel teatro all’aperto, costruito nel 2009 su progetto did Luciano Cortigiani e Piero Giadrossi. Viene adoperato per la stagione musicale che ogni estate si tiene al parco, da giugno ad agosto, ma lo stesso teatro è un’opera d’arte: sugli spalti sono infatti presenti figure di spettatori illustri (Charlie Chaplin, Stanlio e Ollio, Federico Fellini, Alfred Hitchcock, ma anche una madre col suo bambino) e il contrasto dei materiali coi quali sono state realizzate le quinte del palcoscenico, ovvero il marmo bianco di Carrara e il granito nero dello Zimbabwe, propongono un incontro tra due luoghi lontani, tra due culture diverse.

Jeff Saward, Il labirinto
Jeff Saward, Il labirinto. Ph. Credit Alessandro Pasquali - Danae Project


Federica Marangoni, Rainbow Crash
Federica Marangoni, Rainbow Crash. Ph. Credit Alessandro Pasquali - Danae Project


William Furlong, Off the beaten track
William Furlong, Off the beaten track. Ph. Credit Alessandro Pasquali - Danae Project


Vincent Leow, Milk Factory
Vincent Leow, Milk Factory. Ph. Credit Alessandro Pasquali - Danae Project


Il teatro di Piero Giadrossi e Luciano Cortigiani
Il teatro di Piero Giadrossi e Luciano Cortigiani. Ph. Credit Alessandro Pasquali - Danae Project


Adriano Visintin, Xaris
Adriano Visintin, Xaris. Ph. Credit Alessandro Pasquali - Danae Project


Benbow Bullock, Omaggio a Brancusi
Benbow Bullock, Omaggio a Brancusi. Ph. Credit Alessandro Pasquali - Danae Project

La visita al parco, in realtà, non termina nel bosco, ma dall’altra parte della strada che vi conduce: lì si trova infatti la galleria La Fornace, nel cui giardino s’ammirano altre opere. Un’eleganza minimalista e scientifica è quella che ispira Xaris di Adriano Visintin (Sagrado, 1955), scultura che, scrive Brenda Moore McCann, “rappresenta su larga scala quello che è il motivo conduttore nel modo di fare arte” dello scultore friulano, ovvero “il piegarsi e il curvarsi plastico della figura che rimanda ad una astratta figura femminile danzante”. Quasi una ballerina che si piega per toccarsi le punte dei piedi, e che assume la forma di una parabola (nell’arte di Visintin sono frequenti le figure che s’ispirano a forme geometriche, e questa non fa eccezione, fin dal titolo: la X è la lettera che identifica l’incognita in matematica, mentre la parola aris sta per “gioia” in greco). Gli appassionati d’arte del Novecento non faticheranno a trovarvi tracce dell’arte di Hans Arp, lo scultore svizzero tra i padri del dadaismo, secondo il quale “tutta la terra è arte”, così come coglieranno subito l’Omaggio a Brancusi dello statunitense Benbow Bullock (St. Louis, 1929), scultura collocata proprio di fronte alla Xaris di Visintin. L’obbligo nei confronti della Colonna infinita del grande scultore rumeno è evidente, ma c’è anche la volontà di omaggiare la forma dei ricorrenti cipressi: un omaggio finale alla terra che ospita queste opere d’arte contemporanea.

Diversità di linguaggi, pratiche differenti e in arrivo da ogni parte del mondo, interventi in aperto confronto e dialogo col territorio, l’opportunità di adoperare la scultura come mezzo per comunicare a un pubblico internazionale le specificità della Toscana, da sempre terra d’arte, che neppure nella nostra epoca si sottrae al suo ruolo e alla sua nomea: sono queste le chiavi di lettura per interpretare un parco che, da anni, si pone come luogo in cui l’arte incontra la natura, dove le opere interagiscono con la foresta che le avvolge, dove ogni singolo materiale è stato scelto in funzione del luogo che accoglie l’opera, per consentire al visitatore un’esperienza artistica per la quale risulta davvero difficile parlare di ordinarietà.


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