Quella pacca sul sedere di Marte a Venere. Un “apice erotico” di Lavinia Fontana


Attribuito di recente a Lavinia Fontana, il singolarissimo “Marte e Venere” di Madrid propone un'iconografia decisamente particolare. Lo storico dell'arte Enrico Dal Pozzolo ha di recente indagato sul dipinto per cercare di inquadrarlo.

Tra le più interessanti acquisizioni recenti del catalogo di Lavinia Fontana (Bologna, 1552 - Roma, 1614) figura un’opera singolare, dall’iconografia unica: Marte e Venere, opera di proprietà della Fundación Casa de Alba e conservata a Madrid, a Palazzo Liria. I protagonisti, il dio della guerra e la dea dell’amore, sono raffigurati seduti sopra un letto a baldacchino, con le tende di seta rossa che s’aprono a mo’ di sipario, e con il dio Amore, nella consueta iconografia del puttino alato con l’arco, che dorme sopra al cuscino. A terra si vedono una brocca, le pantofole di Venere, lo scudo e la spada di Marte. Ciò che però rende unico e senza precedenti il dipinto (almeno per quel che ci è al momento noto) è il gesto di Marte, colto mentre palpeggia la natica sinistra di Venere. Lui, con indosso un elmo da soldato dell’epoca della pittrice, la guarda in faccia, mentre lei, che non sembra disturbata dal gesto, guarda invece verso l’osservatore, tenendo nella mano destra un narciso. Sono entrambi nudi: a lui sono rimaste addosso solo le braghe, mentre lei non indossa altro che una collana di perle e un paio d’orecchini d’oro e cristallo di rocca.

Spetta allo storico dell’arte Enrico Maria Dal Pozzolo il merito di aver attribuito (in maniera molto convincente) il quadro a Lavinia Fontana e quello d’aver cercato per primo di far luce sul significato di un’iconografia inusitata: al quadro ha dedicato un volume, Un apice erotico di Lavinia Fontana, pubblicato da ZeL Edizioni (116 pagine, 20 euro, ISBN 9788887186260). Il quadro, come detto, si trova nelle collezioni dei duchi di Alba, il cui primo nucleo fu costituito verso la fine del Cinquecento da Fernando Álvarez de Toledo y Pimentel, detto “el Gran Duque de Alba”, uno dei personaggi più eminenti della Spagna del tempo, che ricoprì praticamente tutte le più alte cariche statali: fu viceré di Napoli, del Portogallo, governatore di Milano, dei Paesi Bassi. Non si deve però a lui l’ingresso di Marte e Venere nella raccolta: vi entrò nel 1816, quando fu acquistato da Carlos Miguel Felipe Maria Fitz-James Stuart, XIV duca di Alba, che in quegli anni, poco più che ventenne, stava compiendo il suo Grand Tour in Italia. L’opera, all’epoca ritenuta di Paolo Veronese, fu acquistata in data 27 febbraio a Napoli e inviata poco dopo a Madrid (nel 1911 subì un cambio d’attribuzione: non più di Paolo, ma del figlio, Carletto Caliari). Solo di recente però il patrimonio della casa di Alba è stato fatto conoscere al pubblico con una serie di mostre e di pubblicazioni.

L’attribuzione a Lavinia Fontana risale al 2007-2008, quando Dal Pozzolo pubblicava, sulla rivista scientifica Studi tizianeschi, un articolo sull’Ultima cena di Tiziano e altri dipinti conservati a Palazzo Liria. In quell’occasione, lo studioso accostava il dipinto madrileno a una Venere e Cupido di collezione privata veneziana, firmato da Lavinia Fontana e datato 1585, con l’omologa opera firmata e datata 1592 e conservata al Musée des Beaux-Arts di Rouen, con un ritratto a olio su rame (forse di una cortigiana) oggi in una collezione privata di Cento, e con la celeberrima Minerva in atto di abbigliarsi della Galleria Borghese di Roma (opera del 1613). Quanto in particolare al legame con quest’ultima tela, più tarda rispetto alle altre due, “se è vero che nell’impostazione generale e anche in specifici dettagli (come lo scudo posato in basso a sinistra)”, scriveva Dal Pozzolo, “il rapporto con la tela romana è del tutto evidente, appare tuttavia altrettanto chiaro che l’incedere stilistico indichi una contiguità con le due redazioni datate di Venere e Cupido, suggerendo dunque che ci si trovi verso il 1590, o giù di lì”.

Lavinia Fontana, Marte e Venere (1595; olio su tela, 140 x 116 cm; Madrid, Palazzo Liria, Fundación Casa de Alba)
Lavinia Fontana, Marte e Venere (1595; olio su tela, 140 x 116 cm; Madrid, Palazzo Liria, Fundación Casa de Alba)
Lavinia Fontana, Venere e Cupido (1592; olio su tela, 75 x 60 cm; Rouen, Musée des Beaux-Arts)
Lavinia Fontana, Venere e Cupido (1592; olio su tela, 75 x 60 cm; Rouen, Musée des Beaux-Arts)
Lavinia Fontana, Minerva in atto di abbigliarsi (1613; olio su tela, 258 x 190 cm; Roma, Galleria Borghese)
Lavinia Fontana, Minerva in atto di abbigliarsi (1613; olio su tela, 258 x 190 cm; Roma, Galleria Borghese)

L’iconografia di Marte e Venere, con il dio che tocca in maniera così plateale e con tanta bramosia i glutei di Venere, è un unicum. Non ci sono altri casi simili che precedano il dipinto di Lavinia Fontana, a meno che non si voglia chiamare in causa un’opera di tutt’altro tenore, una scultura del tedesco Conrad Meit (Worms, 1480 - Anversa, 1551), dove le due divinità, atteggiate in pose classiche, avvicinano le mani l’uno all’altra (Marte, seduto in posa regale, è posizionato in modo che la sua mano tocchi le natiche di Venere, mentre lei è girata in maniera da consentirle di indirizzare la mano sua verso i genitali del dio). Non che manchi, nel piccolo gruppo bronzeo di Meit, un’innegabile vena erotica. “Nel suo Marte e Venere del 1515-1520 circa”, ha scritto la studiosa Stephanie Schrader, “Meit colloca Marte in modo da toccare le natiche di Venere, e la mano di lei sfiora la sua coscia. Meit accentua la sensazione che le due figure si stiano avvicinando l’una all’altra raffigurandole entrambe con un piede sollevato. I loro gesti attivi e il contrapposto animano la coppia e incrementano la loro carica erotica”. Manca però totalmente, nell’opera di Meit, il senso di complicità, concupiscenza e carnalità che invece anima il dipinto di Lavinia Fontana. Nella scultura di Meit, il gesto di Marte è una carezza delicata, quasi titubante. In Lavinia Fontana assistiamo invece a un gesto molto più caricato, consapevole, trasgressivo, se vogliamo anche volgare. Come si può contestualizzare un dipinto simile nell’arte di fine Cinquecento e nella produzione di una donna?

Per arrivare a comprendere le ragioni del dipinto è necessario avere chiara la temperie culturale che poté produrlo. Dal Pozzolo, nel libro, chiama in causa diverse ragioni. La prima è la scoperta della Venere Callipigia oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, rinvenuta verso la metà del XVII secolo e descritta per la prima volta nel 1556 dallo scienziato bolognese Ulisse Aldrovandi (Bologna, 1522 - 1605), che la vide nelle collezioni dei Farnese. La Venere “dalle belle natiche” (questa la traduzione esatta del greco “Callipigia”) ebbe una gran fortuna negli ambienti letterari e artistici del tempo. Non solo: “l’inesauribile indagine sulla bellezza e sull’armonia delle parti del corpo condotta in età classica”, scrive Dal Pozzolo, comportò durante il Rinascimento “anche una riflessione estetica” sul fondo schiena, parte del corpo non disgiungibile dalle altre “e che anzi, a dispetto delle funzioni basse assegnategli dalla natura, risultava in qualche modo focale” (si pensi, ad esempio, alle Tre Grazie di Raffaello o a Giove e Io del Correggio, artista peraltro emiliano come Lavinia, ma innumerevoli sono gli esempi, spesso giunti prima della scoperta della statua classica oggi a Napoli: il primo esempio vien fatto risalire all’Allegoria di Jacopo de’ Barbari del 1498-1500, per quanto possa dirsi “Callipigia” solo una Venere in cui il punto di vista principale siano, appunto, le natiche). Ragione dunque consequenziale, spiega lo studioso veneto, è “la legittimità della raffigurazione della nudità femminile a 360 gradi” e di conseguenza la legittimità della raffigurazione del sedere, il cui più spettacolare esempio è probabilmente la Nuda di spalle di Jacopo Palma il Vecchio un tempo nella collezione di Cristina di Svezia e poi in quella del duca Filippo di Orléans, e oggi perduta e nota solo dalle incisioni.

Conrad Meit, Venere e Marte (1515-1520; bronzo, 37 x 25 x 15 cm; Norimberga, Germanisches Nationalmuseum)
Conrad Meit, Venere e Marte (1515-1520; bronzo, 37 x 25 x 15 cm; Norimberga, Germanisches Nationalmuseum)
Venere Callipigia (II secolo; marmo, altezza 160 cm; Napoli, Museo Archeologico Nazionale)
Venere Callipigia (II secolo; marmo, altezza 160 cm; Napoli, Museo Archeologico Nazionale)
Raffaello Sanzio, Le Tre Grazie (1504-1505; olio su tavola, 17 x 17 cm; Chantilly, Musée Condé)
Raffaello Sanzio, Le Tre Grazie (1504-1505; olio su tavola, 17 x 17 cm; Chantilly, Musée Condé)
Correggio, Giove e Io (1531-1532; olio su tela, 163 x 74 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum)
Correggio, Giove e Io (1531-1532; olio su tela, 163 x 74 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum)
Jacopo de' Barbari, Allegoria con la Vittoria e la Fama (1498-1500; incisione, 186 x 125 mm; Amsterdam, Rijksmuseum)
Jacopo de’ Barbari, Allegoria con la Vittoria e la Fama (1498-1500; incisione, 186 x 125 mm; Amsterdam, Rijksmuseum)
Jacques Bouillard (da Palma il Vecchio), Nuda di spalle (incisione, 190 x 135 mm)
Jacques Bouillard (da Palma il Vecchio), Nuda di spalle (incisione, 190 x 135 mm)

E comunque, a prescindere dalla più o meno copiosa presenza di nude simili nell’arte del tempo (in realtà non così abbondante), è possibile ipotizzare che Lavinia conoscesse bene la Venere di Napoli, dal momento che suo padre, il grande pittore Prospero Fontana (Bologna, 1512 - 1597), intratteneva fitti rapporti coi Farnese almeno a partire dagli anni Quaranta del Cinquecento. E rapporti ancor più stretti erano quelli intrattenuti con la famiglia da Tiziano Vecellio (secondo Dal Pozzolo, la Venere e Adone, famosissima tela tizianesca, è palese prova che dopo l’incontro con la Callipigia anche il cadorino dovette interrogarsi sulle potenzialità del sedere, che a partire dalla fine degli anni Quaranta vien da lui dipinto con un’insistenza quanto meno sospetta). Così, scrive Dal Pozzolo, “introdotto in due fasi e in due modi diversi dall’auctoritas tizianesca, [...] il lato femminile meno consueto fu protagonista di una nuova stagione, estremamente libera, che produsse un gran numero di variazioni sul tema. Pur privilegiando ovviamente la figura di Venere, furono coinvolte anche altre protagoniste della mitologia, a partire da Danae". Un’ulteriore ragione, che potrebbe tenere assieme tutta l’impalcatura, sono i precedenti storici: in Veneto esisteva una ben avviata e cospicua produzione di Veneri nude (alle quali s’è dedicato un corposo approfondimento anche su queste pagine), che di sicuro era ben nota a Lavinia Fontana.

Infine, un ulteriore sviluppo dell’iconografia della Venere vista da tergo arriva con Paolo Veronese, che risponde agli spunti tizianeschi con un paio di dipinti, il primo dei quali è conservato al Joslyn Art Museum di Omaha negli Stati Uniti, dove vediamo la dea, di schiena, guardarsi nello specchio tenuto da Cupido, con la veste che scende lungo la schiena a scoprire la parte superiore del fondo schiena, mentre il secondo è una tela di collezione privata (al momento irrintracciabile: se ne conserva una versione di bottega nella Royal Collection), dove la dea figura nella stessa posa, e con ancora Cupido a reggere lo specchio, ma questa volta nella scena compare il dio Marte che la tiene per una spalla, lasciando presagire che stia per unirsi a lei. Ecco quindi il più diretto parente del Marte e Venere di Lavinia Fontana. “Queste scenette impertinentissime”, scrive Dal Pozzolo, “giocano col richiamo classico alla Callipigia in maniera inaspettata, per conquistare lo stupore e il sorriso del proprietario dell’opera e dei suoi ospiti”. E, dopo l’opera di Veronese, “il passo successivo è il gesto di Marte nella tela d’Alba a Madrid”. Qui, “si assiste allo sbotto col punto esclamativo dopo un secolo di discussioni e variazioni iconografiche sul tema, in cui si girava attorno alla questione senza mai dichiararla troppo esplicitamente. Ed è, incredibilmente, il parto di una pittrice: l’impeccabile Lavinia Fontana”.

Il committente dell’opera oggi nelle collezioni della casa di Alba evidentemente era a conoscenza dell’opera del Veronese e chiese a Lavinia di cimentarsi con un soggetto ancora più ardito. Un committente probabilmente bolognese: Dal Pozzolo, nel libro, avanza l’ipotesi che a incaricare Lavinia dell’esecuzione del quadro sia stato Jacopo Boncompagni (Bologna, 1548 - Sora, 1612), stante anche la somiglianza fisica tra il nobile e il Marte raffigurato da Lavinia Fontana. L’ultimo aspetto da chiarire per fornire un quadro completo del contesto in cui nacque il dipinto è, giustappunto, il clima culturale da cui poté scaturire, quello della Bologna di fine Cinquecento. Città che all’epoca faceva parte dello Stato Pontificio, e quindi dove le licenze erano meno frequenti che altrove, non rimase comunque immune al fascino della pittura erotica, di cui son noti pochi ma molto significativi esempi (basterà ricordare che il Ritratto di donna nuda di Girolamo Siciolante oggi ai Musei Capitolini, ovvero il primo ritratto dell’epoca di una donna completamente nuda che non fosse una divinità classica, parrebbe esser di committenza bolognese). Gli artisti di Bologna, per i loro privatissimi committenti, si cimentarono nella declinazione di tutte le possibilità dell’erotismo femminile (la domanda era particolarmente alta), e Lavinia ne era certamente al corrente. A ciò va aggiunto un ulteriore fenomeno, senza il quale certe opere (a cominciare proprio da quella di Lavinia Fontana) non potrebbero esser spiegate: “il gusto per l’adozione di un registro ‘basso’, scurrile, privo di senso del limite, che si era diffuso in Italia e in Europa a partire dagli anni Venti, in coincidenza con la nascita della cultura manieristica”. Il Cinquecento, come attestato da numerosi studi e mostre, è il secolo in cui dall’amore puro ed elevato si passa a quello che si consuma nella camera da letto. Basti solo pensare all’opera di Pietro Aretino. La temperie è ben riassunta da Niccolò Machiavelli in una lettera inviata il 31 gennaio 1515 a Francesco Vettori: “chi vedesse le nostre lettere, honorato compare, et vedesse le diversità di quelle, si meraviglierebbe assai, perché gli parrebbe hora che noi fussimo huomini gravi, tutti volti a cose grandi, et che ne’ petti nostri non potesse cascare alcuno pensiere che non havesse in sé honestà et grandezza. Però dipoi, voltando carta, gli parrebbe quelli noi medesimi essere leggieri, incostanti, lascivi, volti a cose vane. Questo modo di procedere, se a qualcuno pare sia vituperoso, a me pare laudabile, perché noi imitiamo la natura, che è varia; et chi imita quella non può essere ripreso”. Naturale dunque che un contesto simile producesse un’opera come quella di Lavinia Fontana.

Tiziano, Venere e Adone (1554; olio su tela, 186 x 207 cm; Madrid, Prado)
Tiziano, Venere e Adone (1554; olio su tela, 186 x 207 cm; Madrid, Prado)
Paolo Veronese, Venere alla toilette (1582 circa; olio su tela, 165,1 x 124,46 cm; Omaha, Joslyn Art Museum)
Paolo Veronese, Venere alla toilette (1582 circa; olio su tela, 165,1 x 124,46 cm; Omaha, Joslyn Art Museum)
Bottega del Veronese, Marte e Venere (1580 circa; olio su tela, 61,9 x 55,8 cm; Hillsborough, Royal Collection)
Bottega del Veronese, Marte e Venere (1580 circa; olio su tela, 61,9 x 55,8 cm; Hillsborough, Royal Collection)
Scipione Pulzone, Ritratto di Jacopo Boncompagni (1574; olio su tela, 121,9 x 99,3 cm; Collezione privata)
Scipione Pulzone, Ritratto di Jacopo Boncompagni (1574; olio su tela, 121,9 x 99,3 cm; Collezione privata)
Girolamo Siciolante, Ritratto di donna nuda (1550; olio su tela, 190 x 93 cm; Roma, Musei Capitolini)
Girolamo Siciolante, Ritratto di donna nuda (1550; olio su tela, 190 x 93 cm; Roma, Musei Capitolini)

Rimane dunque da chiarire quale sia il significato del dipinto. Potrebbe essere presto detto: niente più che una scena di preparativi a un amplesso, ma con anche un ulteriore livello di lettura di cui si dirà alla fine. Intanto, il dipinto va letto semplicemente come inizio di petting da parte del dio della guerra in previsione di un rapporto completo, di un’unione carnale con Venere. Alla dimensione sessuale della scena allude non soltanto la toccata di sedere: i riferimenti sono da cogliere anche in altri elementi, come la caraffa a terra, simbolo di disponibilità all’unione (è infatti aperta, senza tappo), il brocco appuntito dello scudo di Marte che punta dritto (o eretto, verrebbe da dire considerata la situazione) verso il sedere di Venere, le perle poste direttamente sotto il deretano forse a sottolineare ironicamente il valore e i significati attribuiti a tale parte del corpo e in particolare al piacere che se ne può trarre (“cibo da prelato” viene definito il sesso anale nei Sonetti Lussuriosi dell’Aretino, o ancora “la fottitura più ghiotta che piacque a donna”, in quanto considerata modo per darsi al piacere preservando al contempo la verginità) e addirittura le pantofole (in ragione della loro forma erano considerate simbolo dell’organo femminile).

Dipinti simili venivano di norma posti nelle camere da letto e avevano la funzione di eccitare le fantasie di chi era destinato a usufruire dell’ambiente e delle sue suppellettili. Ma potevano anche essere svelati agli ospiti, che potrebbero anche aver riso degli evidenti aspetti burleschi del dipinto, a cominciare dall’armamentario di Marte e dalla sua simbologia fallica, ma forse gli astanti del tempo potevano ridere anche guardando la manica della camicia afflosciata, presagendo magari una prestazione non così entusiasmante da parte del dio. Ad ogni modo, in occasione della prima esposizione italiana del dipinto, per la mostra L’ora dello spettacore. Come le immagini ci usano, tenutasi nell’estate del 2021 a Roma a Palazzo Barberini, Pauline Lafille ha offerto un’efficace sintesi dello scopo primario del dipinto: “la destra di Marte rompe a bella posta con il codice erudito dei segni amorosi, non di rado astrattamente simbolici, per dar vita a un’azione diretta, che gioca sul connubio di desiderio e trasgressione. La saturazione dei motivi che evocano il tatto (il tondeggiare delle natiche dovuto alla posizione sul letto, il contatto tra la camicia e la carne) eccita il desiderio tattile per la Venere callipigia [...], che l’atteggiamento di Marte rende esplicito: il tocco del dio guerriero, tanto sensuale quanto brutale, costruisce nella storia una mise en abyme della facoltà della pittura amorosa di agire sui sensi dello spettatore. Nel voltarsi, meno verso il suo amante che verso lo spettatore, Venere introduce un elemento di opacità riflessiva nell’opera, verificando l’effetto delle sue grazie sul doppio pubblico, interno ed esterno rispetto al quadro. La più bella fra le dee, qui, fa abilmente sapere a color oche la osservano che il suo desiderio, lungi dall’essere anonimamente voyeuristico o discreto, è a tutti noto ed evidente”.

Come anticipato, c’è però un livello d’interpretazione altro, che ruota attorno al narciso ed è stato ben sottolineato da Enrico Maria Dal Pozzolo in chiusura di Un apice erotico di Lavinia Fontana. Il gesto di Venere, che ostenta il suo narciso, potrebbe esser letto come atto in contrapposizione al gesto di Marte. Il narciso è un fiore decisamente insolito: simbolo di Venere è la rosa, e comunque nei dipinti in cui un amante, maschio o femmina che fosse, offriva un fiore, questo non era mai un narciso, che era invece simbolo di amore per se stessi e di vanità, per i suoi riferimenti mitologici (“cosa infelice et degna di riso quanto infelice et ridicolosa fu dai poeti finta la favola di Narciso”, scriveva Cesare Ripa nella sua Iconologia pubblicata nel 1593). Il narciso, insomma, per la mentalità del tempo non apriva a significati positivi. Per di più, nell’edizione ampliata dell’Iconologia, risalente al 1618, la personificazione della stupidità è una donna che tiene una testa di capra e un narciso. Insomma, secondo Dal Pozzolo, Lavinia Fontana, con questo ulteriore inserto decisamente insolito, avrebbe voluto, con una “personalissima graffiata femminile”, etichettare Marte come ottuso egoista, nonché provocare il suo committente e lo stesso riguardante, qualora portato a “prendere troppo sul serio questa sua licenziosa ‘invenzione’”.


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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