Un bar alle Folies-Bergère, la disorientante vita moderna di Édouard Manet


Capolavoro di Édouard Manet, “Un bar alle Folies-Bergère”, opera conservata alla Courtauld Gallery di Londra, è un manifesto del bel vivere parigino della seconda metà dell'Ottocento, ma anche un dipinto innovativo.

Sappiamo che Édouard Manet (Parigi, 1832 – 1883), tra i padri dell’Impressionismo, frequentava abitualmente a Parigi le Folies-Bergère, locale tuttora in attività che si definiva come formula ibrida tra caffè, concerto e teatro, dove si riuniva la società borghese parigina. Situato nel nono arrondissement, al numero 32 di rue Richer, il caffè-concerto fu inaugurato il 2 maggio 1869 e la sua caratteristica consisteva nel fatto che i clienti pagavano una sorta di iscrizione e pagavano le bevute che consumavano ogni qualvolta si recassero nel locale, ma al suo interno potevano sostanzialmente muoversi in libertà: avevano la possibilità di entrare e uscire quando lo desideravano, potevano godersi uno spettacolo, bere, fumare e conversare liberamente, come preferivano. Era specializzato in spettacoli di varietà: tra le attrici e danzatrici più note si ricorda Loïe Fuller, famosa per le sue coreografie in cui agitava i veli nei quali era totalmente avvolta e per la sua danza serpentina; Henri de Toulouse-Lautrec (Albi, 1864 – Saint-André-du-Bois, 1901), anche lui assiduo cliente delle Folies-Bergère, la raffigurò nelle sue opere, mentre Manet non ebbe la possibilità di ammirarla sulla scena perché il locale la scritturò nel 1892, quando il pittore era già scomparso. Di certo però ebbe occasione di partecipare al bel vivere parigino, alla cosiddetta vie bohémienne che cominciava a diffondersi nella capitale francese sul finire dell’Ottocento, e sappiamo che la sala venne talvolta utilizzata anche per incontri a tema politico: sappiamo che nell’inverno 1870-1871 Manet e Degas si recavano alle Folies-Bergère, dove i cittadini potevano ascoltare i discorsi dello storico Jules Michelet e del giornalista e politico Henri Rochefort. Qui si veniva a contatto insomma con tutta la società benestante della Belle Époque.

Probabilmente senza madame Cornelie, membro della Comédie-Française, le Folies-Bergère non sarebbero mai esistite, poiché fino al 1867 nei teatri era severamente vietato ballare, travestirsi, indossare accessori, ma tutto cambiò quando lei si volle esibire proprio in quell’anno in un caffè-concerto e riuscì a fare abrogare queste restrizioni grazie all’amicizia con un ministro. Cominciarono così a diffondersi questi locali dove si aveva la possibilità di ballare, cantare, travestirsi e recitare testi davanti a un pubblico. Con il terme “Folies”, dalla fine del Settecento, si intendevano locali per feste notturne con concerti, spettacoli e balletti, e dagli anni Trenta dell’Ottocento a Parigi si cominciò a denominare con lo stesso termine i teatri, e a “Folies” veniva fatto seguire il nome del quartiere in cui erano situate. Il primo direttore delle Folies Bergère pensò quindi di intitolare il locale Folies Trévise (dalla vicina rue de Trévise) o Folies Richer (dal nome della strada in cui si trova il locale), ma entrambi richiamavano cognomi di famiglie a cui non era adeguato associare il nome di una sala per spettacoli, e quindi alla fine si optò per Folies-Bergère, dal nome della vicina rue Bergère che non era associata al nome di alcuna famiglia.

Édouard Manet, Un bar delle Folies-Bergère (1881-1882; olio su tela, 96 x 130 cm; Londra, Courtauld Gallery)
Édouard Manet, Un bar delle Folies-Bergère (1881-1882; olio su tela, 96 x 130 cm; Londra, Courtauld Gallery)

Sebbene il teatro delle Folies-Bergère esista ancora, Édouard Manet lo ha reso immortale raffigurandolo nell’ultimo suo grande dipinto, Un bar delle Folies-Bergère, che l’artista parigino portò a termine nel 1882, un anno prima di morire. E nello stesso anno lo espose al Salon, l’Esposizione ufficiale annuale dell’Accademia francese di Belle Arti. Oggi è invece conservato alla Courtauld Gallery di Londra. Al centro della composizione è ritratta una giovane barista elegantemente abbigliata con una giacca nera che sembra di velluto molto avvitata e chiusa da una fila di piccoli bottoncini ton sur ton; le maniche a tre quarti sono ornate da una rifinitura in pizzo sull’orlo, come in pizzo è anche la rifinitura dell’ampio scollo quadrato con rouches, e sul seno si nota un decoro floreale. La ragazza porta al collo un prezioso medaglione che pende da un nastrino in velluto dello stesso colore della giacca. Ha i capelli biondi e una frangetta che le addolcisce il viso ovale dalle gote leggermente arrossate. L’abbigliamento consono a un ambiente frequentato dalla borghesia stona leggermente con la posa sgraziata assunta dalla barista: il peso del corpo è proteso in avanti, tutto scaricato sui palmi delle mani con cui la ragazza si appoggia al bancone in marmo bianco del bar dietro cui è raffigurata. L’espressione del volto è poi significativa perché fa percepire sentimenti di malinconia e di tristezza, e forse anche segni di stanchezza; è un’espressione insoddisfatta quella con cui la giovane si rivolge all’osservatore: non guarda infatti dritto negli occhi, ma è uno sguardo perso, di chi probabilmente vorrebbe essere ovunque tranne che a servire i clienti del caffè-concerto. Anche se in un primo momento sembra che si stia rivolgendo all’osservatore, in realtà sta aspettando la richiesta di quel gentiluomo che si vede riflesso all’estrema destra del dipinto.

Il quadro presenta infatti un continuo gioco di riflessi, dove peraltro la prospettiva è totalmente ignorata: sulla destra Manet ha spostato il riflesso della ragazza; la si vede di spalle mentre si rivolge all’uomo elegante col cappello. Dietro di lei, ma in realtà è il riflesso di ciò che lei vede di fronte, sta tutto il pubblico del Folies-Bergère: signore e signori vestiti alla moda con cappelli e binocoli, nella maggior parte dei casi dai volti indefiniti e incompleti, tranne alcune eccezioni, che conversano tra loro e assistono al contempo agli spettacoli musicali o circensi proposti. Di questi ultimi ne è un esempio la trapezista di cui si vedono spuntare solo le gambe in alto a sinistra. Pendono inoltre dal soffitto, come si nota allo specchio, grandi e preziosi lampadari da cui però sembra non provenire luce; l’illuminazione pare essere affidata a quei tondi bianchi alle colonne. Sul bancone appaiono invece brani di natura morta, costituiti in particolare dal bicchiere con acqua per tenere fresche due rose e dall’alzatina con arance, ma anche dalle bottiglie di vino, di champagne, di liquore alla menta piperita e di birra Bass riconoscibile dal caratteristico logo con triangolo rosso.

La natura morta
La natura morta
Il ritratto della barista
Il ritratto della barista
Gli avventori del bar
Gli avventori del bar

Come già affermato, Manet conosceva molto bene il locale; sul posto fece solo qualche schizzo, ma poi realizzò il dipinto nel suo studio, dove mise in scena letteralmente la composizione, spostando e sistemando i fiori, i frutti, le bottiglie nella giusta posizione e utilizzò come modella per la barista una cameriera del locale, Suzon, che conosceva bene e che invitò nel suo studio per eseguire uno dei suoi più grandi capolavori. Le disse di posizionarsi dietro un tavolo di marmo, e chiamò il suo vicino artista Gaston Latouche per il ruolo del gentiluomo riflesso. Nella folla degli spettatori raffigurò anche ritratti di persone realmente esistenti nel suo presente: sono state riconosciute varie figure femminili, ad esempio la signora vestita elegantemente di bianco con guanti gialli seduta in prima fila sarebbe Méry Laurent, demi-mondaine e musa di numerosi artisti parigini (si dice che abbia ispirato a Émile Zola il personaggio di Nanà); dietro di lei c’è l’attrice Jeanne de Marsy; gli stivali verdi che spuntano nell’angolo in alto a sinistra apparterrebbero probabilmente alla trapezista americana Katarina Jones, che nel 1881 si esibì alle Folies-Bergère ottenendo un grande successo di pubblico.

Vediamo tutti questi personaggi riflessi nello specchio. È uno specchio che, come Charles Baudelaire scrisse nella sua raccolta di saggi Le Peintre de la vie moderne, pubblicata nel 1863, manifesto teorico dell’arte e della critica moderna, “è immenso quanto la folla; un caleidoscopio provvisto di coscienza che, ad ogni suo movimento, rappresenta la molteplicità della vita”.

Baudelaire utilizzò il termine “modernità” per indicare la vita, spesso effimera, dell’uomo contemporaneo all’interno delle metropoli. La modernità è “il transitorio, il fugace, il contingente”, diceva, e in effetti ci si rende conto che ad eccezione della giovane barista, tutte le persone visibili nel dipinto sono frutto di una visione riflessa in un grande specchio, e che quindi la realtà raffigurata non è così stabile come alla prima apparenza, bensì è un gioco di specchi e di riflessi. È un mondo che superficialmente pare avere solide basi, ma che se lo si osserva in profondità è immerso nell’incertezza e nella fugacità. Manet ha trasferito su tela un mondo disorientante, costruito sull’apparenza. Per questo Un bar alle Folies-Bergère è considerato uno dei dipinti più iconici che raffigurano la vita moderna.


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Ilaria Baratta

L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta

Giornalista, sono co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. Sono nata a Carrara nel 1987 e mi sono laureata a Pisa. Sono responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.

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