L'apertura di un nuovo museo è sempre una buona notizia?


Al Cairo, in Egitto, è stato aperto il più grande museo egizio del mondo, il Museo Nazionale della Civiltà Egizia. In Italia, sono stati stanziati milioni di euro per l'apertura di nuovi musei. Ma un nuovo museo che apre è sempre una buona notizia? Ecco quali interrogativi dovremmo porci.

Al Cairo ha aperto un nuovo gigantesco museo, il più grande museo egizio del mondo, il Museo Nazionale della Civiltà Egizia. Nonostante il museo punti a raccontare la civiltà egizia, o meglio egiziana, dalla preistoria ai tempi moderni, è stato inaugurato da una grandiosa parata di 22 mummie di faraoni: un riferimento a un momento molto preciso del passato del paese, quello delle dinastie faraoniche. Si è già discusso ampiamente del significato politico della parata e del nuovo museo voluto dal generale Al-Sisi: un nuovo museo enorme, che toglie importanza al museo precedente in piazza Tahrir, simbolo delle rivolte del 2011 e da sabato decorata con un imponente obelisco egizio, e inaugurato con una parata che attinge all’immaginario hollywoodiano, puntando esplicitamente a una legittimazione non solo nazionale ma internazionale. Ma si è parlato poco del fatto che la nascita di questa nuova istituzione è stata resa possibile grazie alla collaborazione attiva dell’Unione Europea e di alcuni dei più importanti istituti di Egittologia del continente, a partire dal Museo Egizio di Torino, che hanno fornito fondi e, soprattutto, competenze tecnico-professionali. “È per noi tutti un grande privilegio poter intervenire su quello che per ogni egittologo rappresenta ’la madre’ di tutti i musei, la culla dell’egittologia, il museo in cui è possibile trovare le più importanti collezioni al mondo”, dichiarava a Repubblica nel 2019 il direttore del Museo Egizio Christian Greco. Una collaborazione che non ha destato alcuna contestazione, nonostante sia indubbia la valenza politica del museo stesso e nonostante le critiche al regime di Al-Sisi non manchino anche in quelle stesse istituzioni (una targa a Giulio Regeni si trova anche nel museo torinese, per esempio). Il non-detto tra tecnici del settore, a giustificare l’assenza di dibattito, sembra essere il fatto che un nuovo museo sia sempre una buona notizia, al di là di chi e perché lo costruisce: più spazi, maggiori fondi per i restauri, maggiore conoscenza e valorizzazione. Ma è realmente così?

Chiaro è che ogni museo nasce con un committente, risponde a quel committente, e se questo è uno Stato-nazione, il museo stesso avrà sempre entro di sé un principio nazionalistico, o addirittura imperialistico nel caso delle potenze coloniali. Così è per tutti i grandi musei nazionali, in particolare archeologici. Anche in Italia: il Museo Nazionale Romano nasce negli anni delle invasioni coloniali, mentre il regime fascista inaugurerà il Mausoleo di Augusto (con una mostra), il Museo della Civiltà Romana e rinnoverà il Museo Coloniale all’EUR, quartiere simbolo del regime. Ma praticamente tutte le potenze coloniali europee si sono dotate di musei nazionali che accompagnassero quegli obiettivi. Il caso del Cairo è un caso estremo solo per il tempo in cui avviene e per il taglio hollywoodiano. Ma è proprio a causa di questa regola sistemica che appare necessario chiedersi se, come cittadini e tecnici del patrimonio culturale, sia il caso di accompagnare, sostenere e addirittura celebrare la costruzione e l’apertura di un nuovo museo, sempre, in base al principio che i soldi per la cultura sono sempre benvenuti, dato che sono pochi.

Il Museo Nazionale della Civiltà Egizia
Il Museo Nazionale della Civiltà Egizia


Genova, l'abbazia di San Giuliano, il luogo che ospiterà la Casa dei Cantautori Liguri
Genova, l’abbazia di San Giuliano, il luogo che ospiterà la Casa dei Cantautori Liguri

Guardando al nostro paese, ad esempio, l’apertura di nuovi musei sta diventando una regola negli ultimi anni: ma ciò non toglie che, come rilevato dall’ISTAT più volte, la larghissima maggioranza dei musei italiani sia alla canna del gas e i flussi economici e turistici si siano concentrati storicamente, e ancor più dopo la riforma Franceschini del 2014, su pochissimi istituti: nel 2019 l’,1% dei musei riceveva il 50% dei visitatori totali. Già Federico Giannini su queste stesse pagine notava nel giugno 2020 come i fondi per i grandi progetti del MiBACT, nel pieno di una crisi senza precedenti, puntassero a creare nuovi musei di dubbia utilità, come il Museo della Lingua Italiana o la Casa dei Cantautori Liguri. Sia chiaro, nessun museo è inutile, ma alcuni musei possono essere superflui, o non prioritari. Non è raro poi che i musei vengano utilizzati per operazioni di cosiddetta “riqualificazione urbana”, spesso più simili a speculazioni. Come nel caso di M9 a Mestre, dove il museo era il fulcro di un nuovo distretto privato a trazione commerciale: ma nonostante ciò fu inaugurato in trionfo. O ancora il caso del Museo della Resistenza a Milano per cui il Ministero ha stanziato 14 milioni di euro: invece di crearlo in un luogo simbolo della Resistenza, o di finanziare quelli esistenti, si è preferito infilarlo nella (contestatissima) seconda piramide di Herzog, tutta da costruire, e malvoluta dal quartiere. Ecco quindi in un colpo solo i fondi e un museo “incontestabile”. 

Gli esempi possono essere tanti, parte di una deriva della museologia contemporanea dovuta a tanti diversi fattori, ma in particolare al fatto che non sono più solo lo Stato o le comunità a volere nuovi musei ma anche il mercato, ovvero i gruppi di interesse che agiscono sul territorio. Ed è un trend globale: non a caso ICOM da anni sta discutendo senza esclusione di colpi di una nuova definizione di museo, divisa tra una maggioranza che preme per una definizione “rivoluzionaria” che ne sottolinei il ruolo sociale, e una minoranza che punta a conservare la definizione precedente che sottolineava il ruolo educativo e di conservazione dei musei stessi. Ma sono proprio questi esempi a chiamare a una riflessione: se un museo può essere portatore di una visione nazionalistico-propagandistica della storia, di interessi economici che superano quelli sociali e culturali, di un approccio politico che superi l’approccio tecnico… Se tutto questo è realtà da sempre, perché ancora non riusciamo, come mondo archeologico, storico-artistico, museologico, a prendere compattamente le distanze dall’apertura di musei che di culturale hanno poco, in un momento in cui c’è bisogno estremo di conoscenza e chiarezza? Credere che la cultura possa non essere “politica” è il più grande favore che si possa fare a chi vuole politicizzarla strumentalmente, ammantandosi del parere dei tecnici.

Ogni nuova apertura viene accolta in trionfo. Eppure può, a volte, dare più danni che benefici: dando legittimità a un regime, creando una visione falsata del passato (quanto l’idea idilliaca che troppi britannici hanno del loro passato coloniale passa per il British Museum?), portando una speculazione economica di cui il museo è solo strumento. Un passo in avanti collettivo, un’accettazione critica di questa realtà, appare necessario, per non entrare nella propaganda di altri, in Italia e non solo.


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Leonardo Bison

L'autore di questo articolo: Leonardo Bison

Dottore di ricerca in archeologia all'Università di Bristol (Regno Unito), collabora con Il Fatto Quotidiano ed è attivista dell'associazione Mi Riconosci.



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