Ci spiegate (seriamente) perché i centri commerciali aprono e i musei no?


Per quali motivi i musei continuano a rimanere ostinatamente chiusi nonostante molte attività riaprano? Proviamo a formulare quattro ipotesi.

Che fine ha fatto la cultura in questa fase della pandemia di Covid? Non è stata citata nell’ultima conferenza stampa del presidente del consiglio, non riceve neppure semplici parole di conforto dal ministro della cultura Dario Franceschini, è stata bastonata nel Recovery Plan (nel giro di pochi mesi siamo passati da un ipotetico piano da 7 miliardi a uno stanziamento di 3,1, ovvero l’1,6% del totale, cifra che rende la cultura il settore meno finanziato nella bozza), non riesce a entrare nel dibattito pubblico o a conquistarsi spazi mediatici. Ed è inammissibile che di cultura non si discuta, fosse anche per pensare alla sola riapertura dei musei, che continuano a rimanere pervicacemente e ottusamente chiusi senza che nessuno abbia ancora fornito delle buone ragioni.

Abbiamo, del resto, il diritto d’esser trattati da cittadini consapevoli e informati, e non da sudditi che devono ricevere imposizioni: certo, sarà difficile ottenere informazioni sul perché del perdurare delle chiusure, dato che, mentre molte attività riaprono, la serrata totale della cultura non appare più sostenuta da motivazioni connesse all’andamento dei contagi. Possiamo però chiederne conto, e al contempo avanzare alcune ipotesi sul perché i luoghi della cultura siano ancora chiusi.

Il primo motivo è il meno plausibile: musei ancora chiusi per contenere la mobilità o per limitare le interazioni sociali. Può forse valere per i grandi attrattori turistici, come gli Uffizi o come Pompei (anche se fino a un certo punto: il turismo è stato praticamente azzerato), può certamente valere per i giorni di festa, ma chi è avvezzo a frequentare i piccoli musei sa che la stragrande maggioranza degli istituti conta solo pochi visitatori al giorno, anche in periodi normali, e riuscirebbe pertanto a garantire tutte le condizioni di sicurezza affinché nessuno entri in contatto con nessun altro.

E soprattutto poteva valere con la curva dei contagi in salita: adesso che si cominciano a rilasciare le prime concessioni è assolutamente incomprensibile il motivo per il quale, in un’area in cui si può consumare un aperitivo entro le diciotto o si può stare in coda in attesa d’entrare in un centro commerciale con decine o centinaia di altre persone, non si possa entrare in un museo dove, specialmente in questo periodo di pressoché totale assenza di spostamenti per turismo, si avranno buone possibilità di rimanere da soli per tutta la durata della visita. Non si comprende neppure per quale motivo non si sia fatta distinzione tra musei “grandi” e musei “piccoli”, per quanto valore possano avere distinzioni di tal fatta senza prendere in considerazione la composizione dei flussi dei visitatori, ma è comunque un dato il fatto che il Comitato Tecnico-Scientifico abbia trasmesso, in tal senso, delle indicazioni sulla distinzione delle tipologie degli istituti, che sono state tuttavia totalmente disattese in questa fase. Non si tratta, beninteso, di sottovalutare il rischio o di non avere rispetto per la malattia o per le sue conseguenze: si tratta, molto semplicemente, di capire i motivi delle scelte del governo. Ma anche ammettendo che tali scelte si debbano a ragioni di prudenza dovute al quadro epidemiologico, perché allora non programmare le riaperture, perché questo disinteresse e questo silenzio sulla cultura?

Veniamo dunque alla seconda ipotesi: problemi di sostenibilità o di risparmio. A ben vedere, i dipendenti dei musei pubblici percepiscono comunque il loro stipendio sia che il museo rimanga aperto sia che il museo chiuda (quindi in questo caso il problema non sussiste), per i dipendenti dei musei privati assunti a tempo indeterminato c’è la cassa integrazione (pertanto lo Stato, in tal caso, non risparmia con le chiusure), e infine per i precari e i lavoratori meno tutelati c’è, purtroppo, la sospensione o il termine del contratto. Occorre comunque sottolineare che in certi contesti, dove è più alta la frequentazione dei visitatori locali, i musei privati vorrebbero tenere le porte aperte. Risulterebbero invece svantaggiati i privati che detengono le concessioni dei servizi esterni dei musei che attraggono grandi flussi turistici: possibile che si sia tenuto tutto chiuso per non toccare l’intricato e discusso punto delle esternalizzazioni?

Terzo motivo: hanno una loro fondatezza i rumor secondo i quali le chiusure a oltranza si devono a eventuali pressioni dei gruppi sindacali della funzione pubblica? E se fossero fondati, è per tal ragione che non s’è fatta distinzione tra musei pubblici e musei privati, magari per non creare dei discrimini tra i dipendenti pubblici e i dipendenti privati?

Passando invece alla quarta ipotesi: è possibile che questa totale negligenza debba esser ricondotta a scontri politici interni alla maggioranza? Chi legge ricorderà che, in occasione del dpcm del 3 novembre, circolava l’ipotesi giornalistica secondo cui la chiusura dei musei era nata a seguito d’uno scontro tra Franceschini, fautore più intransigente della linea rigorista del governo, e il ministro dello sport Vincenzo Spadafora, col primo che s’è trovato a dover chiudere i musei per ottenere dall’altro la chiusura delle palestre. Si tratta d’una voce che non è mai stata smentita: non sia mai, dunque, che la chiusura della cultura a oltranza, e la gravissima bastonatura che il settore ha ricevuto nella bozza del Recovery Plan, siano i sintomi d’uno scontro (naturalmente più ampio e più serio rispetto al bisticcio tra i due ministri dello scorso novembre) che si sta consumando all’interno della maggioranza, anche se al momento è impossibile trovare un nome a cui attribuire l’avvio dell’eventuale strappo. I segnali però ci sarebbero: Conte che non menziona la cultura mortificandola, gli stanziamenti nella bozza del Recovery Plan dimezzati rispetto a quanto si prospettava in estate, la partecipazione del ministro Franceschini alla presentazione del costituendo Museo della lingua italiana a fianco del sindaco di Firenze, Dario Nardella, da sempre vicino a Matteo Renzi prima della sua uscita dal Partito democratico (e Renzi in queste ore non è davvero tenero nei confronti del governo Conte).

Quali siano i motivi del perdurare delle chiusure, la programmazione delle riaperture è però ormai irrimandabile. Se non si vuol fare come in Spagna, dove i musei hanno continuato a tener le porte aperte anche nella seconda ondata sulla base della situazione epidemiologica dei singoli territori (quindi musei aperti laddove il rischio era minore), si segua almeno l’esempio della Francia: lì, sono state poste delle ben precise condizioni per la fine del confinement della cultura, ed è stata programmata la riapertura del comparto quando il numero di casi giornalieri scenderà sotto le cinquemila unità e quando l’occupazione delle terapie intensive si troverà al di sotto della soglia delle tremila persone. Noi siamo lontani da questi numeri, ma è comunque tempo di cominciare a confortare, a discutere e a programmare, ne va del futuro di un settore indispensabile per le sorti del nostro paese.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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