L'estetica del goffo. La porchetta di Roma, il toro di Torino, la Vanità di Carrara


Cos'è che accomuna i tre interventi d'arte pubblica più contestati dell'ultima settimana, ovvero la porchetta di Roma, il toro di Torino e la Vanità di Carrara? Il fatto che sono opere goffe, dove il goffo è determinato dall'ampiezza dello scarto tra intenzione e risultato.

Per il dizionario Treccani, l’aggettivo “goffo” indica “tutto ciò che mostra impaccio, timidezza, mancanza di disinvoltura”, o si può riferire a qualunque cosa sia “priva di grazia, di eleganza, di armonia, tale da risultare quasi ridicola”. Goffo è, in sostanza, qualcosa di maldestro, d’aspetto rozzo, che non riesce a muoversi con agilità in un dato contesto. Ed è forse l’aggettivo più adatto per descrivere un certo filone estetico entro il quale possono essere iscritti alcuni interventi d’arte pubblica dell’ultima settimana: la discussa porchetta di Trastevere, opera di travertino dello scultore Amedeo Longo, il toro Toh di Nicola Russo installato a Torino, e la meno famosa ma non meno goffa Vanità di Giorgio Andrei posata sulla nuda terra a Marina di Carrara.

Le tre sculture sono tutte piombate sulla pubblica piazza nell’ultima settimana, sono tutte accomunate da una precisa intenzionalità, dall’ufficialità del contesto in cui son nate e son state presentate (un progetto di “rigenerazione urbana” promosso dal Municipio I a Roma per la porchetta, una donazione “temporanea” finalizzata alla vendita con lo scopo di devolvere una parte del ricavato alla ricerca sul cancro e patrocinata dal Comune di Torino per il toro Toh, e una donazione accolta di buon grado e con tanto di cerimonia ufficiale dal Comune di Carrara nel caso della Vanità), nonché dalla pessima accoglienza che buona parte dell’opinione pubblica e degli addetti ai lavori ha riservato alle operazioni. È stato detto che si tratta di opere di cattivo gusto o che sono brutte, espressioni che nell’accezione comune non si riferiscono certo al “cattivo gusto” o al “brutto” come categorie estetiche, senza le quali peraltro non esisterebbe buona parte della storia dell’arte: un’opera di Grünewald è brutta, un’opera di Bruegel è brutta, un’opera di Schiele è brutta, un’opera di Asger Jorn è brutta, c’è del gran brutto pure nell’opera di Dürer, di Annibale Carracci e di altri grandi che paradossalmente lodiamo per la “bellezza” dei loro lavori, così come ci sono opere di Duchamp, di Dalí, di Ontani fondate sul “cattivo gusto”, nell’accezione dorflesiana dell’espressione. No: il romano che passeggia per Trastevere e che, imbattendosi nella porchetta in travertino di piazza della Malva, parla di “scultura brutta”, non necessariamente dovrebbe studiare Rosenkranz e Umberto Eco o vedersi cento mostre sulle avanguardie del Novecento prima di parlare.

La porchetta di Roma
La porchetta di Roma


La Vanità di Carrara
La Vanità di Carrara

Più semplicemente, si produce un meccanismo piuttosto preciso ch’è fondato, anzitutto, su quel senso per il bello che, secondo Desmond Morris, è congenito in ogni essere umano e che porta il passante a giudicare, in prima battuta, la scultura per il suo grado di aderenza alla realtà o comunque per l’armonia delle sue forme: vale per una Vanità che assume le sembianze d’un nudo femminile, ma può valere anche per una porchetta o per un toro. La poca riuscita nell’imitazione della realtà o il maldestro squilibrio formale dell’insieme portano pertanto il passante a parlare di un’opera “brutta”: e nel parlato comune, l’aggettivo “brutto” è il più rapido e immediato che s’utilizza per indicare qualcosa di goffo, di mal riuscito. A suscitare l’indignazione dell’opinione pubblica concorre, in certi casi, anche la trivialità del soggetto, evidente nel caso della porchetta: la volgarità e la bassezza del monumento non sono comunque sufficienti a determinarne la goffaggine. Il Mangiafagioli di Annibale Carracci è uno dei capolavori più straordinari del secondo Cinquecento. Ci sono grandi scultori del Novecento che hanno scolpito maiali, capre, pecore, cibarie assortite. Se ci si appellasse all’altezza del contenuto, a un artista come Claes Oldenburg non sarebbe stato mai concesso d’esporre le sue opere sulla pubblica piazza in giro per il mondo: il problema non è dunque l’idea di dedicare un’opera alla porchetta. Per non parlare di una delle sculture più accostate dal pubblico, in questi giorni, alla porchettona trasteverina, ovvero L.O.V.E. di Maurizio Cattelan, il dito medio di piazza Affari che, quanto a bruttezza e volgarità, non è certo secondo al maiale di piazza della Malva.

Cos’è che però rende L.O.V.E. un capolavoro e la porchetta di Longo un’opera goffa? Partendo da un livello base, essendo entrambe sculture d’imitazione, il dito di Cattelan palesa un grado d’adesione al reale che la porchetta non riesce neanche a lambire (il fatto che Cattelan avesse un laboratorio di scultura che ha dato forma alla sua idea non è comunque un argomento a favore di Longo). E ancora, L.O.V.E. trasmette un senso di monumentalità del tutto ignoto a Dal panino si va in piazza (questo il titolo della scultura di Longo). In seconda battuta, il solco tra la porchetta e L.O.V.E. è scavato dalla molteplicità dei livelli di lettura dell’opera, e di conseguenza dalla profondità del suo significato. Longo invece per la sua porchetta ha ammannito ai romani un significato semplicissimo e già bell’e pronto (solo successivamente s’è tentato di far passare la porchetta per una goliardata, evidentemente per donare alla scultura un nuovo significato una volta compreso che per incorporare quello primigenio, che parlava di “desiderio di scoperta”, “condivisione”, “cibo degli opposti”, “celebrazione di una tradizione” e via dicendo, l’opera evidentemente non aveva funzionato). Lo stesso discorso si potrebbe applicare al toro di Nicola Russo, il cui significato viene reso dall’artista in forma estremamente banale e didascalica. Senza contare che lo stesso Cattelan è ben consapevole di come il significato di un’opera sia suscettibile a mutare secondo i contesti e secondo i tempi. E questo è anche uno dei motivi per cui la banana attaccata al muro col nastro adesivo è un’opera d’arte relazionale almeno degna d’esser commentata, se proposta da Cattelan in un determinato contesto, e diventa invece una boutade priva di pregio se fatta da un carneade qualsiasi alla sagra della salsiccia: allo stesso modo, se per assurdo dietro alla porchetta di Trastevere dovesse rivelarsi la regia d’un artista relazionale capace d’aver architettato tutto come una grande performance, allora il significato dell’opera acquisterebbe un senso totalmente diverso. E un altro senso ancora avrebbe assunto la porchetta se, mettiamo, fosse nata non come un’opera da esporre in una piazza nel quadro d’un contesto ufficiale, ma come iniziativa personale d’un outsider privo di qualsiasi formazione accademica, e dunque frutto autentico, genuino e sincero d’un’urgenza creativa disinteressata. Con la porchetta siamo invece dinnanzi a un artista che ha stravolto il proprio linguaggio (dato che, a quanto è dato vedere, le creazioni precedenti di Longo non hanno niente a che fare con la povera bestia arrostita) evidentemente a fronte d’una precisa richiesta, mentre negli altri casi il fatto che ci sia una donazione a un ente pubblico porta, quanto meno, a destare sospetti sulla pura urgenza dell’opera.

In ultimo, e più importante, occorre valutare il risultato in rapporto all’intenzione. Il grado di goffaggine è direttamente proporzionale allo scarto tra intenzione e risultato. Labranca parlava di “trash” riferendosi ai risultati prodotti dall’intenzione d’imitare un modello più o meno alto. Nel nostro caso questo può valere sia per la Vanità di Andrei, che pare un’imitazione poco riuscita di Botero, Marc Quinn o Henry Moore, e alla quale la definizione di “trash” ben s’attaglia, sia per la porchetta di Longo, che nel presentarla ha manifestato a chiare lettere, nella descrizione ufficiale, l’intenzione di “riprendere la raffigurazione degli animali tipica dell’arte romana classica”. Un modello alto, dunque (gli animali dell’arte romana classica), unito all’intenzione di trasmettere una certa idea (lo stare insieme, il voler condividere, la scoperta), e dall’altra parte un risultato goffo (la porchetta di piazza della Malva) che produce un’opera d’arte irrimediabilmente trash anche nel senso labranchiano del termine.

Occorrerà dunque valutare serenamente se il goffo possa essere degno di diventare consapevole categoria estetica adatta a statue e monumenti esposti sulla pubblica piazza, dato che peraltro la porchetta, il toro Toh e la Vanità non sono casi isolati: esiste ormai una goffaggine diffusa, per esempio, in gran parte della statuaria da rotatoria (produzione nell’ambito della quale son nati interessanti monumenti ai più svariati prodotti tipici, dal il basilico di Prà al il parmigiano reggiano, dal lambrusco all’oliva taggiasca: è evidente che ormai il monumento non è più un’opera che risponde a un alto interesse pubblico, ma uno strumento per fare marketing delle specificità del territorio), ma anche in monumenti innalzati per celebrare personalità illustri (viene in mente il più che goffo monumento a Gabriele d’Annunzio installato a Trieste). Ma dato il proliferare di monumenti e opere goffe esposte in pubblico, sembra che il problema sia già ampiamente superato.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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