Non chiamiamoli vigilanti. Ecco chi sono e cosa fanno gli assistenti alla visita


Non sono soltanto vigilanti: gli assistenti alla visita che troviamo in tutti i musei fanno molto di più. Un interessante punto di vista sull'argomento.

Custode, vigilante, sorvegliante. La Cenerentola della Cultura ha molti nomi, poca riconoscenza, ma delicate mansioni. La ‘faccia del museo’, colui o colei che accoglie ogni giorno le centinaia di migliaia di visitatori che varcano i nostri musei. La prima e forse l’unica persona che un visitatore conosce del variegato staff che dovrebbe operare all’interno di un’istituzione culturale.

I musei italiani sembrano composti ormai solo da direttori e vigilanti. Una visione antiquata e forse poco lungimirante per chi dovrebbe trasformare la cultura nel volano dell’economia. Nella piramide delle professioni museali italiane le figure intermedie tra la direzione e gli addetti al pubblico semplicemente non esistono o quasi. Fanno eccezione le fondazioni ed enti privati che spesso vantano all’interno figure professionali come esperti di marketing, comunicazione, didattica, fundraising, allestimento e curatela. Non è così per la maggior parte delle istituzioni culturali che oltre al direttore, o qualche sparuto dirigente di seconda o terza fascia non hanno nel proprio organico figure che si occupano di valorizzare, accrescere il pubblico, sviluppare progetti. Quelli che non mancano sono i custodi o addetti alla vigilanza, ridotti a telecamere viventi, avviliti da una routine ben poco gratificante.

Una mansione quest’ultima che è spesso sottovalutata, sottopagata e subappaltata alla miriade di cooperative che affollano il mercato del lavoro. Caso virtuoso, se così si può considerare, è il recente bando del ‘concorsone’ Mibac (oltre 1000 unità) che finalmente non li chiama più ‘custodi’ ma ‘assistenti alla fruizione, all’accoglienza e alla vigilanza’. Per accedere al concorso si richiede come requisito un generico diploma e la conoscenza di una lingua straniera. Tralasciamo il fatto che per le vecchie reclute i requisiti si riducono alla terza media. Sembra comunque emergere dal bando che il bagaglio culturale di chi lavora nei musei sia un optional sostituito dalla memoria o la prontezza nel rispondere ad un quiz di logica inserito nella prova preselettiva del suddetto concorso. Nessuno però li chiama con l’appellativo proposto dal Mibac. Persino nei manuali di preparazione al concorso persiste l’aggettivo ‘vigilante’ oppure l’intramontabile ‘custode’, ormai così radicato nel nostro vocabolario.

Non chiamiamoli vigilanti. Ecco chi sono e cosa fanno gli assistenti alla visita
Non chiamiamoli vigilanti. Ecco chi sono e cosa fanno gli assistenti alla visita

Quando pensiamo ai custodi li pensiamo (e talvolta vediamo) incollati ad una sedia, stanchi ed annoiati con un libro in mano, oggi sostituito dall’inseparabile smartphone. Figure mute ed invisibili che interagiscono con gli utenti solo per dare generiche indicazioni (dove si trova l’uscita, il bagno, a che ora chiude il museo). Questo è l’immaginario comune che si è ormai consolidato in Italia riguardo ai nostri impiegati museali. Una visione che persiste tanto tra i non addetti ai lavori (ovvero i visitatori) quanto fra chi gestisce le nostre istituzioni. La consuetudine a volte diventa prassi per un personale che non è valorizzato, motivato e soprattutto formato. Vorrei portare ad esempio la controparte professionale dei nostri assistenti alla vigilanza ovvero nei musei oltre manica che qui si chiamano appunto ‘visitor assistant’. Già la definizione riassume una concezione più inclusiva. Non più qualcuno che custodisce, vigila e talvolta punisce, ma che accoglie, indirizza, suggerisce, comunica e magari sorride. Figure su cui il museo investe con corsi frequenti di aggiornamento professionale (obbligatori) per migliorare le performance nei confronti del pubblico e nel rapporto con i colleghi, mantenere la sicurezza nelle sale e motivandoli con incentivi economici e professionali. Quando ero un visitor assistant presso i Royal Museums of Greenwich (che ospitano circa 400 dipendenti) ero incoraggiato a creare delle visite guidate ad hoc per il pubblico basato sui miei interessi e le collezioni delle gallerie. Ero inoltre invitato a partecipare a dei percorsi di team-building con gli altri colleghi, a seguire conferenze interne ed esterne al museo, ad interagire, anche solo come volontario, negli altri dipartimenti (dipartimento mostre, ufficio stampa, curatela, registrar, conservazione museale, ecc.). Talvolta può capitare di poter fare carriera all’interno dello stesso museo grazie al volontariato di cui sopra. Questo succede ancora nel Regno Unito che ha creato un modello nella gestione museale.

Non è vero tuttavia che in Italia mancano le iniziative per valorizzare questa professione. Anzi, sono tantissime le eccezioni che ribaltano questo apparente senso di inerzia. Gli addetti all’accoglienza in molti casi si occupano anche della biglietteria, del bookshop, talvolta persino dell’offerta didattica. Sono tante anche le iniziative che partono dagli stessi addetti per migliorare i luoghi in cui lavorano e soprattutto la percezione di chi li visita. Per ragioni di privacy preferisco non citare i numerosi casi di personale addetto alla vigilanza che per vocazione o per richiesta esplicita dei superiori si adopera come social media manager o come guida delle istituzioni in cui lavorano, spesso senza un contratto adeguato che li ricompensi per questa importante (e delicata) attività. Questi pur di far qualcosa più gratificante svolgono le mansioni extra durante l’orario di servizio o nei ritagli di tempo.

Bisogna considerare che la maggior parte dei laureati, dottorati o specializzati in beni culturali non trovano un impiego adeguato al proprio percorso di studi. Proprio fra i custodi si ritrovano (e ritroveremo) persone pluri-qualificate che nel migliore dei casi si sentiranno stretti in questo ruolo, nel peggiore si sentiranno dei frustrati con conseguenze psicologiche importanti. “Datemi un sogno in cui vivere perché la realtà mi sta uccidendo”, direbbe Jim Morrison.

Il mio appello è questo. Perché non investiamo di più in queste figure e non proviamo a valorizzarli con mansioni diversificate (vedi l’esempio britannico)? Perché li continuiamo a chiamare vigilanti o custodi se sono i primi rappresentanti del museo? Perché non li consideriamo persone con aspirazioni che magari possono realizzarsi nei limiti delle risorse a disposizione? Gli assistenti alla visita, chiamiamoli così, dovrebbero accompagnare i visitatori nell’interpretazione e la fruizione dei beni culturali. Dovrebbero sensibilizzare ed ispirare i tanti pubblici che visitano il patrimonio. Dovrebbero conoscere le prime nozioni di pronto soccorso così come le necessarie norme di sicurezza e antincendio. Dovrebbero rappresentare e trasmettere il valore del museo e non la sua autorità. Dovrebbero essere sì dei custodi, ma in senso culturale, non letterale. Come le piante che vanno annaffiate dal basso così le nuove istituzioni museali dovranno investire nella formazione e la valorizzazione del personale che più le rappresenta: i vigilanti, pardon, gli assistenti alla visita.


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Marco Turini

L'autore di questo articolo: Marco Turini

Archeologo e consulente si occupa di musei, formazione e comunicazione dei beni culturali (ideamuseo.it)




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