È davvero un buon primo maggio per i lavoratori della cultura? Purtroppo, sembrerebbe di no


Lavoro in costante diminuzione, diritti intaccati, rassegnazione: non sembra un buon primo maggio per i lavoratori della cultura. Riflessioni e propositi.

Mentre state leggendo queste righe, magari durante una pausa della vostra grigliata del primo maggio, mentre siete in spiaggia ad assaporare un anticipo d’estate, o sul vostro divano perché avete deciso di trascorrere la festa tra le mura domestiche, da qualche parte in Italia un operatore della cultura si trova sul posto di lavoro, ad adoperarsi per tenere aperte le sale d’un museo, a condurre una visita guidata, a gestire le code in biglietteria, a controllare gli aggiornamenti su di un account social, o semplicemente nella propria abitazione, dietro a un computer, perché ha deciso di sbrigare a casa alcuni compiti, dato che il lavoro è tanto e non è raro che invada anche gli orarî che dovrebbero esser destinati ad altre attività.

I rilevamenti Eurostat fotografano una realtà difficile. Dal 2011 al 2016, il numero dei lavoratori della cultura in Italia è andato calando: siamo passati dai 783.000 del 2011 ai 766.000 del 2016. Una percentuale del 3,4% sul totale complessivo dei lavoratori, che ci pone al di sotto della media europea (del 3,7%). E questo quando in tutti i più importanti paesi europei, il numero dei lavoratori aumentava: in Spagna dal 3,1 al 3,5% (dai 563.000 lavoratori del 2011 ai 634.000 del 2016), nel Regno Unito dal 4,3 al 4,6 (e nel paese i lavoratori della cultura sono in numero doppio rispetto all’Italia: 1.261.000 nel 2011, 1.466.000 nel 2016), mentre in Francia e in Germania le percentuali sono scese, ma il numero complessivo è aumentato: un lieve incremento in Francia (dagli 885.000 del 2011 agli 889.000 del 2016, percentuale in discesa dal 3,4 al 3,3%) e un aumento più consistente in Germania, dove i lavoratori sono passati da 1.573.000 nel 2011 a 1.659.000 nel 2016 (dal 4,1 al 4%). Sono comunque soltanto quattro i paesi che hanno registrato un calo del totale dei lavoratori culturali: oltre che da noi, segno negativo anche in Danimarca, Croazia e Finlandia. Tutti gli altri ventiquattro paesi dell’Unione Europea hanno invece puntato sulla crescita del lavoro nel settore della cultura. Non solo: siamo anche tra gli ultimi quanto a percentuale di giovani tra i 15 e i 29 anni impegnati nel lavoro culturale (l’11,89%: peggio di noi hanno fatto solo Slovenia e Grecia, rispettivamente con l’11,58 e l’11,09, contro una media europea del 17,87, e siamo anche gli ultimi della classifica per percentuale dei giovani sul totale complessivo dei lavoratori), siamo penultimi per la percentuale d’impiego di lavoratori forniti d’un livello d’istruzione post-diploma sul totale dei lavoratori culturali (il 44,20%: peggio di noi solo Malta con il 40%, la media europea è del 57,82%), e arranchiamo anche sul totale delle donne che lavorano nella cultura (siamo quartultimi davanti a Spagna, Regno Unito e Malta).

Roma, piazza Barberini, manifestazione del 7 maggio 2016: l'ultima, grande mobilitazione collettiva a livello nazionale dei lavoratori della cultura
Roma, piazza Barberini, manifestazione del 7 maggio 2016: l’ultima, grande mobilitazione collettiva a livello nazionale dei lavoratori della cultura. Ph. Credit Finestre sull’Arte

Il lavoro culturale in Italia, in sostanza, appare in diminuzione, poco capace (o di sicuro meno rispetto ad altri paesi europei) d’investire su personale dotato d’un livello d’istruzione superiore, e in larga parte precluso ai giovani. Non solo: occorre anche sottolineare come, negli ultimi tempi, siano in estensione problemi recenti cui occorre fornire rapidamente urgenti soluzioni. Un paio di settimane fa, Patrizia Asproni, presidente di Confcultura, in un articolo pubblicato sul Giornale delle Fondazioni, si domandava se il lavoro culturale paga, rilevando come proliferino “distorsioni dalle quali il settore culturale sembra interessato più ancora di altri”: su tutte, l’incapacità di garantire un’adeguata valorizzazione economica alle competenze dei lavoratori del settore, e l’estensione del dannosissimo fenomeno dei volontarî che sostituiscono i professionisti diventando “prestatori di lavoro surrogato”.

A queste criticità occorre aggiungere la precarizzazione del lavoro di chi già ha un impiego. Si pensi a quanti lavorano nelle cooperative o nelle società di servizî: si tratta di professionisti che spesso non ricevono una retribuzione commisurata alle loro effettive capacità, oppure sono sottoposti a contratti che si rinnovano di anno in anno, oppure lavorano a chiamata. E ancora, è necessario sottolineare come lo stato stesso abbia da tempo rinunciato a investire in lavoro: l’ultimo concorso del ministero, quello dei 500 funzionarî bandito nel 2016 (poi divenuti mille a seguito dell’approvazione della legge di bilancio del 2018), non è che un semplice palliativo contro l’ondata di pensionamenti che ha ridotto gli organici di musei (spesso costretti a riformare gli orarî d’apertura, con chiusure la domenica e i festivi, per far fronte alle lacune di personale: succede, per esempio, in alcuni dei musei statali di Mantova, Genova, Lucca), soprintendenze (ci sono intere province che possono contare su di un solo funzionario storico dell’arte), archivi, biblioteche (anch’esse costrette a riduzioni d’orario). A ciò s’aggiungano il costante ricorso ad assunzioni tramite società partecipate che spesso non garantiscono più che un contratto a tempo determinato, e ancora le situazioni, già verificatesi, di ritardo nei pagamenti degli straordinarî, oppure il fatto che ai dipendenti del MiBACT, a seguito della recente riforma (2016) del Codice di Comportamento è stato, di fatto, impedito di parlare con la stampa, e molte altre situazioni o casi particolari che forniscono testimonianza d’un momento alquanto delicato. E di certo non va meglio nel privato, con cooperative, fondazioni e aziende che spesso non sono in grado di garantire prospettive serene ai loro lavoratori, e altrettanto spesso offrono retribuzioni ben più basse di quelle del settore pubblico, e con minori tutele. Proprio quest’oggi i lavoratori della Reggia della Venaria Reale hanno indetto uno sciopero contro la riduzione degli orarî di lavoro stabilita dal consorzio che ha in appalto la gestione dei servizî del museo.

Si tratta di temi che meritano, ognuno, lunghi e meditati approfondimenti: qui su Finestre sull’Arte ne abbiamo affrontati alcuni, e ne affronteremo altri. E soprattutto, si tratta di temi che c’inducono a ragionare sul fatto che abbiamo l’improcrastinabile necessità d’affermare i nostri diritti. Di batterci per le rivendicazioni dei lavoratori della cultura e dei lavoratori in generale. Di evitare quell’atteggiamento disincantato, passivo e rinunciatario che ha colpito molti lavoratori e aspiranti lavoratori, soprattutto tra i più giovani. Denunciare, informare, parlare, far conoscere, diffondere, rivendicare, manifestare, lottare: di questo c’è bisogno. Sono queste le modalità che riusciranno ad aprirci le strade verso un futuro più roseo per il lavoro culturale (e non solo culturale). Il primo maggio non sia quindi, come ha ricordato oggi Enrico Mentana con amara ironia, “solo il giorno del concertone”, solo una festività in cui si rimpiangono tanto il lavoro che non c’è, quanto i diritti costantemente erosi e intaccati: possa il primo maggio tornare a essere una giornata di profonde riflessioni e di lotta appassionata. Ne abbiamo tutti bisogno.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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