Privati e cultura: un futuro è possibile. Ma il mondo ideale non esiste


A che grado di maturità è arrivato il lavoro sul rapporto tra cultura e privati in Italia? Si può fare di più e meglio? Sì: un futuro migliore è possibile.

Nel nostro paese, in modo più evidente che in altri, sono manifesti ed evidenti le grandi risorse economiche che ricchi uomini del passato, siano stati questi principi, papi, bancari, capitani di ventura, hanno speso per abbellire le loro corti e le loro città, e per rendersene conto basta fare due passi in uno dei tanti nostri centri storici. Erano indubbiamente interventi autocelebrativi pensati più per rendere esplicito il potere del committente che per rendere più liete e piacevoli le giornate di cittadini, servi o sudditi: tuttavia, chiunque viveva, senza distinzioni di censo e di cultura, nella Firenze dei Medici, nella Venezia dei dogi, nella Roma dei papi, poteva ammirare quotidianamente opere realizzate dai più abili artigiani, artisti e architetti dell’epoca. Un godimento ancor più grande se poi appartenevi a quella fortunata élite a cui era concesso l’ingresso nei luoghi meno accessibili: sale e saloni di rappresentanza, stanze private, destinate a pochi e a cui oggi possiamo accedere solamente come turisti, o come occasionali fruitori se queste stanze sono state convertite per altri usi. Arrivando, con un balzo temporale (per brevità), ai giorni nostri, l’impressione è che pur essendo ancora presenti soggetti economicamente rilevanti che investono in arte ed in cultura (Prada, Maramotti, Sandretto Re Rebaudengo, Fendi, Ferragamo per citarne solo alcuni), siano solamente le “élite culturali” a godere dei loro investimenti, mentre chi non ha avuto la fortuna di maturare un certo tipo di sensibilità artistica ne rimane escluso, ignaro dell’esistenza del tal museo privato o della tal fondazione, o incapace di varcarne la soglia di ingresso.

A pensare ancor meglio, tra i soggetti privati più attivi nel nostro Paese nel creare Fondazioni e collezioni o a finanziare mostre, quelli che sono riusciti a varcare i recinti delle riviste specialistiche o dalle cronache locali sono stati quei mecenati contemporanei che hanno avuto la possibilità di realizzare nuovi edifici o di riqualificare aree un tempo destinate ad altro uso, o comunque a realizzare interventi strutturalmente e talvolta anche urbanisticamente rilevanti così da renderli immediatamente visibili e riconoscibili. Azioni queste che non sono assolutamente facili, soprattutto in un’Italia in cui vincoli urbanistici e paesaggistici spesso rappresentano un problema per chi ha voglia di presentare e farsi carico di un progetto audace o strutturalmente complesso.

Collezione Peggy Guggenheim, Venezia
Collezione Peggy Guggenheim, Venezia
Guggenheim New York. Foto di Ajay Suresh
Guggenheim New York. Foto di Ajay Suresh
Guggenheim Bilbao
Guggenheim Bilbao
Fondazione Prada
Fondazione Prada
Collezione Maramotti. Ingresso lato Nord. Ph. C. Claudia Marini
Collezione Maramotti. Ingresso lato Nord. Foto di Claudia Marini

Se da un lato l’Art Bonus, ovvero il credito d’imposta del 65% riservato alle aziende che investono in cultura è, numeri alla mano, indubbiamente uno strumento importante e molto utilizzato dalle imprese (555 milioni di euro donati dalle imprese per la cultura, in un periodo che va dall’introduzione dello strumento nel 2014 fino ad aprile 2021), questo non basta, e come dice giustamente il ministro della cultura Dario Franceschini bisogna tendere ad un livello di maturità per cui, all’interno dei bilanci sociali, venga dedicata una voce agli investimenti in cultura, per poi magari arrivare in un futuro (e questo lo si potrebbe aggiungere) dove, a fianco di un bilancio sociale e di un bilancio ambientale, possa avere dignità anche un bilancio culturale. Se è vero che le grandi aziende che non investono in cultura si devono vergognare (sempre citando Franceschini) allora ci deve anche essere una comunità matura che abbia anche la capacità di farle vergognare, e ci dobbiamo quindi augurare un futuro in cui i consumatori abbiano sempre più voglia di premiare con le proprie azioni di acquisto quelle aziende che investono parte dei loro capitali in cultura, come già succede per le aziende attente alle tematiche ambientali o sociali. Contemporaneamente però va offerta la possibilità ai grandi gruppi che investono in questa direzione di rendere riconoscibile e visibile il proprio intervento. Quanto gli edifici in cui sono ospitate le sedi del Peggy Guggenheim hanno contribuito a rendere nota la Fondazione al grande pubblico e a caratterizzare l’estetica (esclusa Venezia) dei luoghi in cui sono ubicate e di cui tutti noi beneficiamo gratuitamente? Cosa pensiamo a quando vediamo la sede della Fondazione Louis Vuitton? Per goderne dobbiamo necessariamente entrarci?

Ci sarà chi parlerà di cultural washing, come già in modo diffuso si parla di green washing, ma se l’intervento di investimento culturale viene fatto da un’azienda che opera all’interno della legalità, perché dobbiamo iniziare subito a discutere se l’azione è mossa più da uno spirito fiscale/commerciale anziché da un puro spirito filantropico? È indubbio che sicuramente ci saranno soggetti che attraverso l’arte e la cultura cercheranno di comprarsi la pace sociale, o ad ottenere concessioni per compiere delle azioni che potrebbero essere al centro di una discussione di opportunità, ma è un rischio che bisogna correre, senza abdicare alla critica, ma con un approccio più laico e meno moralista. La storia dell’arte, dell’architettura, della rigenerazione urbana andrà avanti anche senza di noi e così rischieremo sempre più di essere periferici, desinati a diventare una grande Disneyland della cultura dove al massimo ci troveremo a farci un po’ di festa per l’ennesimo palazzone ottocentesco o novecentesco riconvertito in museo o fondazione, e il massimo del colore e dell’audacia che ci permetteremo sarà un bel murales che porterà un po’ di colore nelle nostre grigie periferie.


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