Squilibri e cultura al servizio del turismo: Recovery Plan, si poteva fare di più


Con il Recovery Plan si poteva fare molto di più per la cultura: ne è invece uscito un piano che riserva solo il 3% del totale delle risorse al settore, e per di più con forti squilibri e con la cultura considerata quasi solo come valore aggiunto del turismo.

Poco più di sei miliardi e mezzo di euro sono una cifra di consistenti proporzioni per il settore della cultura: i 6,675 miliardi che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) metterà a disposizione della cultura corrispondono a poco più di tre esercizi annuali del ministero. Sono risorse che porteranno benefici: tuttavia, leggendo il piano e la massiccia mole di comunicati stampa che l’ha accompagnato dopo l’approvazione in consiglio dei ministri, risulta difficile dirsi soddisfatti, e non soltanto per l’entità delle risorse che, se rapportate all’ammontare complessivo del PNRR (222,1 miliardi, di cui 191,5 dai fondi Next Generation EU e gli altri dai fondi complementari), rappresentano esattamente il 3% del totale, ma anche e soprattutto perché il piano ha ben poco d’innovativo. Il primo aspetto da sottolineare è il ruolo che il piano attribuisce alla cultura: il settore non sembra essere ritenuto leva per mettere in atto processi di trasformazione sociale, per migliorare la competitività del paese e la sua capacità d’innovare, per supportare la ricerca. La priorità del governo sembra, semmai, quella d’investire sulla cultura in quanto naturale veicolo di rilancio del turismo.

Naturalmente non si nega l’indiscusso valore economico che il turismo ricopre per l’Italia (tuttavia scarsamente riconosciuto dal PNRR, dato che al settore vanno appena due miliardi), né si vuol negare che il settore abbia sofferto per le restrizioni messe in atto per fronteggiare il Covid-19, e neppure che decentrare i flussi per combattere il fenomeno dell’overtourism sia una priorità (e va dato atto al piano d’averla riconosciuta), ma non può che apparire riduttivo concentrare la più parte dell’impegno per imbarcarsi in un viaggio indietro nel tempo, tornando a “un paradigma di patrimonializzazione che ripone la sua attenzione quasi esclusivamente sulla valorizzazione delle risorse locali”, come ha ben scritto Roberta Capozucca sul Sole 24 Ore. Nel piano, si parla di “valorizzazione del patrimonio culturale e turistico” vista soprattutto “in funzione di promozione dell’immagine e del brand del paese”. Una “rigenerazione del patrimonio turistico e culturale”, prosegue la descrizione del piano invertendo le priorità, che sarà realizzata “tramite un ampio programma di misure di ristrutturazione degli asset chiave turistici e culturali”.

Il piano d’investimenti si focalizza per lo più sulla valorizzazione del patrimonio culturale nella sua dimensione di valore aggiunto delle strutture turistiche: è questa, per esempio, la logica cui risponde l’intero “Piano Nazionale Borghi”, che porterà oltre un miliardo di euro nei luoghi meno centrali (il ministro Dario Franceschini, nel presentarlo, ha parlato insistentemente dei borghi dell’Appennino, a titolo d’esempio) per sostenere il recupero del loro patrimonio culturale e la “rivitalizzazione” del tessuto socio-economico di questi luoghi. La rivitalizzazione intesa dal PNRR è però soltanto quella legata alla filiera del turismo: si parla di iniziative imprenditoriali come nuove modalità ricettive e di rilancio dei mestieri tradizionali quali l’artigianato “favorendo la conservazione del paesaggio e delle tradizioni”. Nel piano, dunque, si parla di riqualificazione di spazi pubblici, di creazione di “piccoli servizi culturali anche a fini turistici” e di “nuovi itinerari” e “visite guidate”, oltre che di sostegni finanziari per attività culturali, creative, turistiche, commerciali, agroalimentari e artigianali. È un peccato che la voce dedicata ai borghi nel piano da oltre duecento pagine non parli, per esempio, di infrastrutture digitali e tecnologiche o di investimenti per favorire la nascita d’iniziative imprenditoriali non necessariamente connesse al turismo: l’immagine che se ne ricava è quella d’un’Italia delle città, che può permettersi d’innovare e di stare al passo col resto d’Europa, e un’Italia dei piccoli centri destinata a rimanere interamente dipendente dai flussi turistici, senza possibilità di diversificazione.

Tuttavia, anche volendo considerare la cultura esclusivamente in chiave turistica, non si potrà fare a meno di notare il forte squilibrio con cui sono stati ripartiti i fondi. Certo: una parte dei fondi andrà ad alimentare misure che si attendevano da anni. Per esempio, non si può che salutare positivamente il fondo da 800 milioni di euro che servirà per l’adeguamento antisismico delle chiese del Fondo Edifici di Culto, per la creazione del “Centro per il controllo e il monitoraggio dei Beni culturali per la sicurezza dei siti culturali italiani”, e per il Recovery Art Conservation Project (anche se c’è da domandarsi perché sia stato scelto un nome in inglese), volto alla creazione di cinque depositi temporanei per la protezione dei beni culturali in caso di calamità naturali, come quello di Santo Chiodo a Spoleto. Così come sono doverosi i 300 milioni di euro per la rimozione delle barriere architettoniche e la somma pari in favore del miglioramento dell’efficienza energetica di cinema, teatri e musei. A fronte di queste spese, c’è però un quinto dei fondi PNRR, ovvero 1,46 miliardi di euro, concentrato su appena quattordici progetti, i cosiddetti “grandi attrattori culturali”, un contenitore dov’è finito dentro di tutto, con progetti slegati tra loro e neppure connessi al resto del piano: da un non meglio specificato percorso per “treni storici e itinerari culturali” alla riqualificazione dello stadio di Firenze, dal potenziamento della Biennale di Venezia al Parco del Po di Torino, oltre a una serie di progetti che insistono per lo più sulle grandi città e che in gran parte non appaiono esattamente prioritari. O almeno, non lo sono rispetto a investimenti di altro tipo: sarà dunque necessario ricordare che il PNRR riserva alle industrie creative e culturali appena 455 milioni di euro, di cui 300 per Cinecittà e 155 per la “transizione digitale e verde” degli operatori di settore.

Lo stadio di Firenze. Foto di Francesco Bini
Lo stadio di Firenze. Foto di Francesco Bini


I comunicati trionfalistici sui grandi attrattori culturali
I comunicati trionfalistici sui grandi attrattori culturali

Ieri, su Open, Federico Bosco faceva notare che, in questo senso, la Francia, nel suo “Recovery Plan”, ha adottato un approccio completamente diverso rispetto al nostro. Pur investendo in termini assoluti e percentuali una cifra minore rispetto all’Italia, la Francia ha destinato la maggior parte delle risorse all’industria culturale e alla promozione sociale delle attività culturali. Ovviamente occorre fare le debite proporzioni: in Italia, i restauri, i recuperi e i miglioramenti in chiave antisismica sono strettamente necessari, dato che nel nostro paese il rischio di calamità naturali è più alto che in Francia, ma è anche vero che il piano France Relance non appare minato da forti squilibri come quello italiano, e le risorse per le industrie culturali sono meglio distribuite, con misure volte a favorire la creazione artistica, lo spettacolo dal vivo, l’insegnamento culturale superiore, la filiera del libro, quella della stampa, quella del cinema.

Ci sono dei settori della cultura che sono stati completamente tralasciati dal PNRR: penso, per esempio, a due settori d’eccellenza in Italia, quello dell’editoria e quello dell’arte contemporanea, per i quali sono state pensate apposite misure oltralpe, mentre nel nostro PNRR non sono stati neppure menzionati. In Francia sono stati stanziati 30 milioni di euro per una “grande commande artistique” pubbica: in Italia neanche questo, nonostante fossero arrivate diverse sollecitazioni in tal senso, e nonostante gli evidenti benefici che un New Deal dell’arte avrebbe portato al pubblico e alla filiera, specie se con interventi intersettoriali su comparti strategici (sanità, ambiente, ricerca). Nessun sostegno neppure per incentivare la frequentazione della cultura da parte degl’italiani, cosa che invece la Francia, seppur timidamente, tenta di fare con un piano per i libri che vede, tra i suoi principali obiettivi, l’acquisto di volumi per le biblioteche pubbliche, un’operazione riservata ai lettori più piccoli, investimenti per rilanciare il settore delle librerie (altro comparto dimenticato del Recovery Plan italiano).

La cultura poteva dunque essere al centro d’un processo di trasformazione e inclusione sociale ed economica di ampio respiro, ma si è preferito approntare un piano quasi senza discussione, caratterizzato da una distribuzione delle risorse molto disarmonica e da una visione della cultura vecchia e superata, o almeno così traspare da gran parte del piano. Si sarebbe potuto dunque almeno evitare l’eccesso di trionfalismo con cui il Ministero della Cultura ha presentato il piano. O meglio, una parte del piano, dato che la comunicazione ministeriale s’è concentrata quasi esclusivamente sui grandi attrattori culturali, con una serie di comunicati tutti identici (cambiava solo il nome del sito) sui quattordici progetti, tutti presentati come “al centro degli investimenti per la ripartenza” (evidentemente questo “centro” dev’essere molto esteso). Per il resto, solo una stringata dichiarazione da parte del ministro Franceschini: “la cultura guiderà la ripartenza del paese”. Anche con tutto l’ottimismo possibile, con il 3% delle risorse sembra molto difficile vedere nella cultura un ruolo da trascinatrice.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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