I magnifici otto: quei critici d'arte che oggi non esistono più. Com'è la mostra che li ha riesumati


Il Museo d’Arte di Mendrisio ospita una mostra, “Una storia di arte e di poesia”, centrata su otto grandi critici d’arte che hanno avuto l’apice della loro carriera tra anni Cinquanta e Sessanta, da Arcangeli a Testori. La mostra è di grande attualità perché ha il grande merito di riproporre la domanda: quale critica d’arte vogliamo? La recensione di Maurizio Cecchetti.

Quel principio che Roberto Longhi mette in campo per distinguere Caravaggio dai grandi uomini del Quattro-Cinquecento, che meno gli piacevano perché spesso rappresentavano il potere dei centri italiani sulla bistrattata periferia, e per evitare che la critica finisse per considerare il pittore l’ultimo di quella schiera di superuomini (“il portiere di notte del Rinascimento”), tanto più che non era affatto chiaro che potesse diventare il primo del nuovo corso barocco sia pure con largo anticipo; ecco, quel principio definisce Caravaggio, il suo modo di essere, “umano ma non umanistico”, o più chiaro ancora “popolare”. E lo scrive nella prefazione alla mostra del 1951 a Palazzo Reale a Milano, saggio che, pur non essendo quello decisivo tra i molti che scrisse sul pittore, è però un testo fondamentale per lo storico al punto che nella seconda edizione del catalogo, pubblicata un mese dopo la prima (perché esaurita appunto in poche settimane, tanto per dire l’afflusso del pubblico alla mostra e l’importanza che veniva attribuita a quel volume), uscì con alcune correzioni apportate da Longhi nel suo testo introduttivo. “Ritocchi” stilistici, verrebbe da dire, che non cambiano la sostanza, ma in realtà la cambiano, perché la critica è quella cosa lì, lo stile con cui si scrive o si crea, e quelle correzioni, una dozzina in tutto, dicono proprio quanto Longhi tenesse alla mostra e al catalogo e quanto avessero spazio nella sua scrittura le questioni di forma espressiva. Diceva Rémy de Gourmont, un gigante della letteratura francese vissuto a cavallo dell’Otto-Novecento, che lo stile è come il colore degli occhi, le impronte digitali o il tono della voce: ognuno ha i suoi e nessun altro li può sostituire.

A Longhi si potevano imputare certe disinvolture dettate dalla ricerca dell’espressione pungente, istrionica talvolta, ma quando affrontava una questione cruciale, le sue meningi diventavano talmente forti e chiare che partorivano “l’equivalente verbale” (in questo caso, non soltanto di un’opera, bensì dell’artista che ne era l’artefice, ma ancor più di una certa idea di critica). Umano e non umanista, vale a dire vicino all’uomo della strada e non astratto e cerebrale produttore di idee nuove, è in effetti un “modo di essere critici” che Longhi dichiara già quando pubblica sul primo numero di “Paragone” (1950) le Proposte per una critica d’arte, dove valorizza l’analogia nata dalla elaborazione di un poeta, uno scrittore, un pensatore e, perché no, l’artista stesso come vertice di approdo alla prosa d’arte che si distingue appunto nell’“equivalenza verbale” che Longhi accosta al termine greco ekphrasis. Dire con parole evocative la sostanza di un’opera d’arte senza tecnicismi o astrazioni, ovvero senza ricorrere a desinenze astratte combattute dal critico per liberare Caravaggio da ogni sospetto di anticlassicismo manierista, e soprattutto avendo ben chiaro che arte visiva e scrittura sono due linguaggi diversi e non sovrapponibili nell’imitazione. E la poesia è quella dove più il verbo riesce a incarnarsi, a farsi analogon dell’opera d’arte rimanendo distinto da essa.

Se stai leggendo un testo critico, la parola deve portarti a “vedere” l’opera, non solo quello che è, ma anche a sentire l’emozione che procura. Testori, discepolo di Longhi, nel Gran Teatro Montano, il libro dove nel 1965 raccolse i saggi su Varallo e Gaudenzio Ferrari, afferma appunto di esercitare una critica “emozionale”. L’universo accademico guarda sempre all’emozione come a una espressione patetica del linguaggio critico, come qualcosa di poco analitico e fondato su mezzi troppo soggettivi. Potremmo anche dire, in realtà, che questa critica a specifico poetico sonda distanze che la critica scientifica non conosce. Ed è a questo, in sostanza, che si è ispirato Simone Soldini, per molti anni direttore del Museo di Mendrisio e ora critico free lance, orchestrando una mostra tutt’altro che facile, che presenta il lavoro critico di otto scrittori a partire dai loro artisti d’elezione. Soldini, che sa bene di aver scelto un argomento “enorme”, cioè di “ampiezza smisurata”, mette le mani avanti chiarendo subito che non avanza la pretesa di dire l’ultima parola sulla questione e si limita a presentare l’attività dei magnifici otto per mettere in luce, tassello su tassello, un modo di fare critica che sembra in realtà essere caduto in disuso negli ultimi decenni. Oggi domina il curatore, il manager museale, il direttore di rassegne a cadenza periodica fissa, il consulente delle case d’asta o dei grandi collezionisti. Il critico che Soldini vuole celebrare, invece, è uno scrittore che senza il proprio stile ricadrebbe in verbosità teoriche. Il maestro di questa tendenza è sempre lui, Roberto Longhi, ma il discepolo che lo ha in certi momenti superato con una scrittura “totale” è Giovanni Testori, uno degli otto scelti da Soldini: ma a dire il vero, se il suo nome non fosse stato presente, l’intera mostra sarebbe stata un flop irrimediabile, nonostante un altro nome di punta come Francesco Arcangeli. Vedremo fra poco perché questa “squadra” opera all’unisono nel definire lo stile critico che potremmo chiamare “di poesia” ma, come in ogni squadra di calcio, ognuno ha la sua funzione, e soltanto nel momento dei rigori tutti tirano in porta. Stili diversi per ciascuno, per uno stesso modello critico però. A unire i “magnifici otto” sono pochi essenziali punti: anzitutto, quello generazionale, sottolineato da alcuni di loro anche attraverso la “relazione amicale” che diventa maieutica alla ricerca del nucleo profondo che guida alla forma. Il Dopoguerra e gli anni Cinquanta e Sessanta sono l’epoca d’oro dove si è sviluppata questa “passione”, che apre lo sguardo a diversi temi critici: in primis, quello della provincia, ereditato dal convitato di pietra che presidia la scena della mostra, Roberto Longhi, che oltre ad aver formato l’esperienza critica di Francesco Arcangeli e Giovanni Testori, suoi discepoli e collaboratori a mostre e a “Paragone”, ha nondimeno lasciato la sua impronta sugli altri sei protagonisti: Attilio Bertolucci, Roberto Tassi, Francesco Biamonti, Vittorio Sereni, Dante Isella e Giorgio Orelli. Non ho scritto “protagonisti” a caso, non perché mi servisse un vocabolo che li comprendesse tutti, bensì per connotare il discorso sul soggetto principale: la critica – per una volta l’arte rimane soltanto ancella dell’altra – e di conseguenza le domande che oggi sono necessarie per comprendere l’importanza di una mostra come questa, che prefigura un lavoro ancora tutto da fare sull’importanza che questo modo di fare critica ha avuto rispetto a quella accademica o scientifica.

Allestimenti della mostra “Una storia di arte e di poesia”
Allestimenti della mostra Una storia di arte e di poesia

Viviamo in un’epoca dove alcuni dei maggiori quotidiani italiani hanno preso in antipatia le mostre d’arte e, prima ancora, la critica militante; non che non abbiano le loro ragioni: l’industria culturale, con le sue logiche economiche e di manipolazione del pubblico, ha fatto disastri negli ultimi decenni. Alcune società di produzione offrono surrogati di operazioni critiche che portano in giro per l’Italia ogni volta in due o tre tappe; un mero prodotto commerciale, anche quando il tema è serissimo, dove la critica è assente e la spia diventa la logorrea di molti cataloghi che si pubblicano oggi: l’esempio macroscopico negli ultimi anni sono alcuni di quelli che vengono prodotti dai Musei di San Domenico a Forlì, l’ultimo sulla mostra ancora in corso dedicata all’Autoritratto, seicento pagine per documentare una esposizione che esibisce più che altro forza muscolare ma non un analogo genio critico, dove si accostano le opere senza un progetto pertinente e illuminante (una deriva aggravatasi dopo la scomparsa di Antonio Paolucci, che presiedeva il comitato organizzativo). Su questa mostra ho già avuto modo di scrivere, quindi rimando a quelle osservazioni. Ma il problema non è solo la perspicacia critica, perché questi cataloghi, e se ne potrebbero indicare anche di altre mostre che vengono prodotte in Italia, a Palazzo Reale a Milano (pregevole eccezione la mostra su Max Ernst allestita nel 2022 con un catalogo che diventa strumento di studio) o a Roma, sono una dimostrazione di verbosità infinite: centinaia di pagine scritte da più autori, come se la mostra fosse solo un pretesto per produrre un libro sull’argomento. Sono abbastanza rari oggi i cataloghi che hanno una funzione necessaria, e corredano mostre che sono a loro volta frutto di anni di studio. Inoltre, questa critica logorroica raramente somma in sé qualità espressive che, invece, sono tipiche della critica militante esercitata da scrittori come quelli che per una vita sono stati accanto agli artisti, loro contemporanei (ma anche quelli del passato), o fedeli a percorsi storici dimostrandosi capaci di auscultarne l’anima segreta. Una critica a suo modo visionaria, non perché frutto di eccessi interpretativi, ma perché capace di entrare con l’occhio e con la mente dentro l’opera d’arte. Uno dei maestri di questa idea della critica fu Henri Focillon, il grande storico dell’arte francese che ci ha lasciato, in particolare, un trattato dove delinea il contesto nel quale la critica è anche opera di visionari: da quasi un secolo Vita delle forme aiuta a pensare in modo non convenzionale. Ma già in un saggio del 1926, Estetica dei visionari, Focillon scrisse che i visionari “non vedono oggetti, li visionano. Si direbbe che tra la sensazione e la percezione s’interponga una virtù particolare che, senza alterare la natura, le conferisce una vivacità, un’intensità, una profondità stupefacenti”. Questi artisti, aveva premesso Focillon, con la loro immaginazione non sono soltanto “capaci di creare e di concatenare immagini” ma dimostrano “un’attitudine eccezionale a riceverle e a tradurle come allucinazioni”. I visionari creano mondi, li sentono perché li vedono dall’interno: una endoscopia condotta con la mano e con l’occhio. Sentono in profondità l’essenza delle cose. Ed è su questa strada che camminano anche i critici-scrittori che, dotati di forza introspettiva, a loro volta vedono gli artisti nel loro interno. Rovesciano in negativo ciò che “appare” dalle mani dell’artista e restituiscono la critica come radiografia della loro “umanità”.

Allestimenti della mostra “Una storia di arte e di poesia”
Allestimenti della mostra Una storia di arte e di poesia

La critica degli scrittori ha una valenza intuitiva diversa da quella “scientifica” perché grazie all’analogia dello stile raggiunge profondità che la razionalità dello schema interpretativo non conosce quasi mai. Mi fa pensare, per parafrasare il discorso, alla scultura fatta dai pittori: sarebbe interessante, e nemmeno tanto difficile, tracciare un percorso fra Otto e Novecento che dimostri che i veri rivoluzionari che hanno cambiato la scultura furono alcuni pittori. Ma di questo dirò in un’altra occasione.

Sui giornali, poi, resta molto poco della critica militante, che è la più vicina a quella degli scrittori; oggi si spacciano per critica compitini sponsorizzati che le società di produzione degli eventi pagano come pagine “redazionali” firmate spesso dagli stessi nomi che poi scriveranno anche pezzi considerati di critica. A quel punto, considerando che in questi prodotti pubblicitari si fatica a trovare idee non convenzionali, ci si deve chiedere se la critica in un mondo governato dai centri della comunicazione sia diventata superflua: la mostra di Mendrisio ci mette sotto gli occhi un modello dove la figura del critico, tanto più se dotato di stile e forza di scrittura, esercitava un peso sui destini dell’arte, che oggi non soltanto non ha, ma è ridotto alla stregua dei “baci Perugina”: un pensiero edulcorato e decorativo. Può esistere dunque ancora una critica d’arte che non sia la paludata ricerca di genere universitario o lo studio conformistico funzionale alle mostre del Grand Tour, che serve ai critici stessi per ritagliarsi spazi di potere nel sistema? Non si tratta di un annuncio apocalittico: la critica esiste ed esisterà ancora per molto tempo se vi saranno critici e luoghi dove la si praticherà fuori dalle logiche pubblicitarie, dall’“industria del complimento”, come la definì Giuseppe Bonura, in analogia con la visione di marketing dell’industria culturale, quindi ripristinando anche il benemerito istituto della “stroncatura” che non ha la pretesa del giudizio assoluto, ma di svelare la cattiva coscienza del sistema. Ma è necessario dire che anche il giudizio critico ha un valore relativo: può cambiare a distanza di tempo, addirittura rovesciarsi, ma questo non significa che fosse sbagliato la prima volta: il critico è un uomo e vive nel tempo, registrando i cambiamenti del contesto con i propri strumenti – questo può spingerlo a modificare il suo giudizio alla luce di quanto nel frattempo avvenuto nel contesto.

A differenza della “cura” che tanti oggi praticano credendosi critici e non semplici organizzatori formati nei master delle accademie e delle università, il critico dovrebbe rivendicare l’eccezione e l’alterità rispetto a quello che Bonito Oliva quarant’anni fa certificò come “sistema dell’arte” di cui tutti fanno parte, anche quando non lo vorrebbero; i centri di potere sono ormai incapaci di considerare la funzione della critica nel modo giusto, che non è di essere il notaio della novità o delle iniziative pensate a tavolino da istituzioni private e pubbliche per imporre mode e tendenze, ma dovrebbe essere intesa come il Pubblico Ministero che accusa la cattiva coscienza che domina il sistema in modo quasi egemonico, grazie alle logiche sostenute dal capitale, senza che vi sia – come recitano i fautori della democrazia – qualcuno che giudica il loro operato.

La mostra di Soldini ha dunque il grande merito di riproporre la domanda: quale critica d’arte vogliamo? Perché gli ambiti dove ancora passa la proposta di una mostra, di un artista, una retrospettiva storica, un nuovo movimento, non dipendono più da una critica efficace, libera mentalmente, poco sensibile alle mode, contraria al conformismo del politically correct; un atto capace di demolire ciò che in sé non ha nemmeno la consistenza di resistere alla cronaca perché spesso è prodotto a tavolino da quelle stesse forze economiche che condizionano istituzioni come la Biennale di Venezia ridotta ormai a un circo mediatico; essere critici oggi vuol dire anche saper usare la scrittura e le sue metafore per smascherare il conformismo che si adegua alle ideologie ecologiste, queer, pauperiste, dove quasi sempre ben poco ha a che fare con l’arte e molto rientra nella mera sociologia. Ciò che sostengo non vuole essere discriminatorio, ma sollecitare una riflessione dove quando parliamo di arte non si sia naturalmente spinti a farne una questione governata dai luoghi comuni del mondo comunicativo. La dimensione sociale dell’arte non può ignorare che il primo grado di giudizio della critica rimane estetico ed espressivo.

Allestimenti della mostra “Una storia di arte e di poesia”
Allestimenti della mostra Una storia di arte e di poesia

Il critico che Soldini delinea con la scelta degli otto scrittori è una figura che non deve essere anzitutto obiettiva, semmai come Baudelaire rivendica il proprio pregiudizio positivo (o negativo); è anche una “guida” morale, come lo furono Arcangeli e Testori negli anni Cinquanta quando i loro saggi su “Paragone” animarono una discussione su realtà, natura e astrazione che ha dato esiti nel dibattito storico abbastanza unici e pregnanti, se non altro perché accelerarono il superamento di quella opposizione fasulla tra realisti e astrattisti. Testori, per esempio, discusse intensamente con Guttuso sulla questione della realtà; ma come critico militante elesse Morlotti a campione della dialettica fra realtà e natura (Arcangeli lo pose al vertice degli “ultimi naturalisti”). Per Testori, la scrittura va ben oltre il registro estetico assumendo in toto il fatto esistenziale. Ancora nel 1992, un anno prima della morte, confessa: “La percezione della bellezza ha per me qualcosa di lacerante”. È una ferita, qualcosa che incide il bubbone da cui nascerà una bellezza compromessa con l’umano. E se a suo tempo aveva detto apertamente che un cammino critico “è qualcosa che ti tocca, ti sporca, ti compromette”, è a questa linea che Testori è rimasto fedele inseguendo gli eroi della periferia lombarda e non solo lombarda (l’ultimo artista che promosse nel 1990 fu il romagnolo Ilario Fioravanti, architetto, scultore e creativo poliedrico, e il saggio che scrisse per la personale di Milano alla Compagnia del Disegno resta un testo magistrale per ironia, militanza e scrittura, che Vittorio Sgarbi ha preso a modello di critica presentando i saggi sulla scultura di Testori). Così tanto gli scritti su Gaudenzio Ferrari quanto quelli sul Ceruti e il dialetto bresciano sono un esempio di critica oltre i registri strettamente storici, e mi sono chiesto se – per lui più di tutti gli altri, compreso Arcangeli – non fosse fondamentale accostare in mostra qualche esempio del passato (lo stesso Caravaggio, al quale Testori aveva attribuito un disegno di testa di bambino, forse plausibile) accanto ai Varlin, Bacon, Giacometti, Sutherland, ai selvaggi Disler, Fetting, Hödicke, Rainer, ma anche ai Guttuso e ai Morlotti. Ne sarebbe emersa la qualità unica che Testori incarna ancora oggi per chi lo vuol vedere: scrittore totale, scrittore quadrifoglio l’ho definito in occasione del centenario della nascita, perché capace di esprimere a partire da un unico fulcro una qualità estetica tanto nella scrittura narrativa quanto in quella drammaturgica (uno dei maggiori del secondo Novecento italiano), in quella critica (e non solo artistica, ma anche elzeviristica) come nella poesia (con I Trionfi ci ha dato uno fra i maggiori poemi italiani dei secondo Novecento). Per questo non capisco molto lo sforzo di Soldini per fare del lavoro critico di Testori lo specifico della sua scrittura, ribadito in catalogo in almeno due occasioni, quando probabilmente la posizione più pertinente è quella riassunta da Francesco Frangi quando scrive che “il campo di lavoro di Testori è un campo unico all’interno del quale sono cadute, o meglio, sono state sradicate le consuete recinzioni di settori”. In fondo è ben dimostrabile, quando si segua la scrittura testoriana, il muoversi continuamente, anche all’interno dello stesso testo, dalla narrativa al teatro, dalla poesia al j’accuse, dalla critica militante alla scrittura-autoritratto.

Considerando i meriti di ognuno degli autori scelti da Soldini oltre a ribadire lo sguardo di quasi tutti favorevole alla provincia-periferia, la “provincia universale” di Arcangeli, si deve ammettere che l’unico che poteva fare da capofila a questo progetto era proprio Testori. Da lui si può ripartire ritrovando una critica dove la scrittura non è una forma di abbellimento o di istrionismo, ma la sostanza, lo stile, di un modo di essere e anche di pensare. In ogni caso, la mostra, in sé, è l’occasione per rivedere alcuni nomi che da tempo, pur disponendo di una solida base collezionistica, sono un po’ finiti in ombra rispetto al sistema dell’arte: Francese, Dobrzanski, Mandelli, Ruggeri, Ossola, Sandra Tenconi, Ferroni, Negri, Paganin.


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Maurizio Cecchetti

L'autore di questo articolo: Maurizio Cecchetti

Maurizio Cecchetti è nato a Cesena il 13 ottobre 1960. Critico d'arte, scrittore ed editore. Per molti anni è stato critico d'arte del quotidiano "Avvenire". Ora collabora con "Tuttolibri" della "Stampa". Tra i suoi libri si ricordano: Edgar Degas. La vita e l'opera (1998), Le valigie di Ingres (2003), I cerchi delle betulle (2007). Tra i suoi libri recenti: Pedinamenti. Esercizi di critica d'arte (2018), Fuori servizio. Note per la manutenzione di Marcel Duchamp (2019) e Gli anni di Fancello. Una meteora nell'arte italiana tra le due guerre (2023).




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