Ancora più a fondo nel Barocco: la mostra newyorkese su Valentin de Boulogne


Recensione della mostra 'Valentin de Boulogne: Beyond Caravaggio' (New York, Metropolitan Museum, 7 ottobre 2016 - 16 gennaio 2017)

Un giovane uomo con i riccioli neri che gli cadono sulla fronte e la bocca semidischiusa siede pensoso nell’ombra, il suo sguardo perso è rivolto verso la sinistra del quadro. Indossa una corazza a scaglie di un azzurro intenso ed è avvolto in una ricca tunica cremisi. Il braccio destro, con cui si tiene la testa, poggia su di una pelle di leone sulla quale giace anche una mascella d’asino. Unico protagonista del quadro è Sansone, eroe biblico e autore della carneficina di centinaia di Filistei, perpetrata con il ricorso alla sola mascella d’asino e alla sua forza smisurata. Prima della strage e di una serie di eventi che lo porteranno a una morte prematura, Sansone aveva ucciso un leone a mani nude, nella cui bocca delle api avrebbero poi formato il proprio alveare e prodotto del miele. Le api, per quanto poco visibili, sono anch’esse rappresentate nel dipinto, a sinistra in basso, e oltre ad alludere alle altre imprese dell’eroe, hanno un ruolo squisitamente encomiastico. Tre api campeggiavano, infatti, nello stemma dei Barberini, la famiglia di origini toscane che a Roma nel Seicento, grazie al lungo papato di Urbano VIII, avrebbe gareggiato con le altre potenze europee in quanto a potere temporale. Altre due api, ben visibili anche a occhio nudo sulla spalla sinistra dell’eroe, ne chiudono la corazza, rendendo ancora più manifesto il legame dell’opera con il suo committente. Il suo autore, “Valentino pittore”, certamente guidato da colti letterati, diede così una sua particolare interpretazione di uno dei soggetti biblici più noti e abusati, trasformandolo in un’occasione di celebrazione barberiniana. Però partiamo dall’inizio.

Valentin de Boulogne, Sansone
Valentin de Boulogne, Sansone (1630 circa; olio su tela, 157 x 125 cm; Cleveland, The Cleveland Museum of Art)

La rassegna Valentin de Boulogne: Beyond Caravaggio, ospitata al secondo piano del Metropolitan Museum of Art di New York, è la prima ad avere ad oggetto il pittore caravaggesco francese. La mostra prende in esame la sua intera produzione: dagli esordi vicini a Cecco del Caravaggio e Bartolomeo Manfredi fino ai capolavori per i Barberini compresi tra la fine degli anni ‘20 e la morte avvenuta nel 1632. Il MET espone tre quarti delle circa sessanta opere attribuite all’artista, e tra quelle esposte figurano tutte e sei le tele del Louvre, che ospiterà la stessa mostra dalla fine di febbraio fino ad agosto del prossimo anno.

La mostra nasce da un’idea di Keith Christiansen, curatore capo del dipartimento di pittura europea del MET, e di Annick Lemoine, maître de conférences presso l’Università di Rennes, e tradisce una conoscenza stratificata delle vicende biografiche e artistiche del pittore. È evidente, infatti, il legame della rassegna con una “prima puntata” espositiva, cioè la mostra I bassifondi del Barocco, a cura di Francesca Cappelletti e della stessa Lemoine, tenutasi a Roma all’Accademia di Francia. La mostra newyorkese (e così poi la sua tappa parigina) rappresenta un approfondimento monografico della precedente tarato su di un pittore forestiero che fu tra i primi ad assimilare e, contemporaneamente, trasformare il caravaggismo.

Valentin de Boulogne nacque a Coulommiers, nei pressi di Parigi nel 1591. Poco si sa dei suoi esordi in Francia, dove verosimilmente imparò i primi rudimenti della pittura nella bottega del padre. Nel 1612 era certamente a Roma, dove, come scrisse il Baldinucci, “imitò molto il Caravaggio, al quale fu similissimo nel genio di rappresentare nelle sue tele suoni, giuochi, zingane, e simili”. È proprio questo tipo di umanità che ricorre nei grandi quadri dal formato rettangolare di Valentin: zingare che leggono la mano ad avventori prontamente derubati, ingenui giocatori di carte gabbati grazie alla complicità di bari alle loro spalle o, ancora, piccoli gruppi di concertisti riuniti attorno a tavole d’osteria o a blocchi di marmo scolpiti. Grazie allo spoglio degli Stati delle Anime, registri con cui le parrocchie romane censivano i loro fedeli più o meno praticanti, è stato possibile risalire ai luoghi in cui Valentin visse durante i suoi anni romani. Tra via del Babuino e via Margutta, nell’area compresa tra le chiese di Santa Maria del Popolo e Trinità dei Monti, si concentrarono, infatti, nei primi decenni del Seicento, molti pittori forestieri, soprattutto francesi (e fra loro Valentin), fiamminghi e olandesi. Questi ultimi diedero vita a una forma associativa nuova, allegra e assai distante dall’“ingessata” Accademia di San Luca, istituzione che si faceva garante dei diritti dei pittori in cambio di una tassa associativa. I Bentvogels, gli “uccelli da stormo”, come decisero di chiamarsi, furono invece per lo più giovani pittori dediti ai bagordi e agli eccessi, le loro riunioni erano assai poco ufficiali e l’accesso alla loro gilda avveniva attraverso particolari iniziazioni a metà tra il paganesimo e la pura cialtroneria. Tra di essi figuravano Gerrit van Honthorst, anche noto come Gherardo delle Notti, Dirck van Baburen e, ovviamente, il nostro Valentin che, pur essendo francese, fece nel 1624 il suo ingresso nella Bent con il nome di “Amador”, l’Innamorato. Due anni dopo, avvenne il suo primo incontro con l’Accademia di San Luca, allorquando, certo tramite la mediazione dei pittori classicisti Simon Vouet e Nicolas Poussin, risulta l’organizzatore della festa del santo patrono dei pittori. Dallo stesso anno, iniziarono per lui le commissioni per il cardinale Francesco Barberini e per la famiglia papale. Sarà grazie all’interessamento del prelato che Valentin realizzerà due suoi capolavori: l’Allegoria dell’Italia, conservata oggi presso l’Istituto finlandese di Roma, e una grandiosa pala d’altare per San Pietro con il Martirio dei Santi Processo e Martiniano.

Valentin de Boulogne, Allegoria dell'Italia
Valentin de Boulogne, Allegoria dell’Italia (1627-1628; olio su tela, 345 x 333 cm; Roma, Institutum Romanum Finlandiae, Villa Lante sul Gianicolo)


Valentin de Boulogne, Martirio dei santi Processo e Martiniano
Valentin de Boulogne, Martirio dei santi Processo e Martiniano (1629; olio su tela, 302 x 192 cm; Roma, Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana)

Il taglio dell’esposizione è strettamente monografico: fatta eccezione per tre opere di Manfredi, Cecco del Caravaggio e Ribera in apertura, sono esposte solo opere del pittore di Coulommiers. I loro soggetti sono prevalentemente complesse e, talvolta, disordinate, scene di taverna, con letture della mano, giochi di carte e concerti, ma non mancano soggetti biblici come il Giudizio di Salomone (in due versioni assai simili), l’Innocenza di Susanna e Cristo e l’adultera. Accanto ad alcuni di questi, come al David con la testa di Golia del museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, sono state sapientemente accostate spade provenienti dalle ricche collezioni del MET con le quali le armi dipinte possono essere utilmente confrontate. Numerosi sono i quadri che raffigurano un solo personaggio dalle ginocchia in su: Mosè, Sansone e Giuditta con la testa di Oloferne, ad esempio, ma anche ritratti veri e propri di personaggi gravitanti attorno ai Barberini, incluso, forse, un autoritratto come Suonatore di liuto. Tra i martirî, quello di San Sebastiano, realizzato in anni giovanili, mostra forte l’influenza di Ribera, mentre quello di San Lorenzo, più narrativo e dal formato orizzontale, è un interessante tentativo di dare maggiore fluidità al naturalismo caravaggesco. Come si è anticipato, sono però le opere che chiudono la mostra, realizzate per o grazie ai Barberini, a rappresentare il culmine della produzione valentiniana. Sebbene l’illuminazione non ne faciliti la fruizione ottimale, l’esposizione è un’occasione unica per vedere insieme l’Allegoria e la pala d’altare per San Pietro, nate una di seguito all’altra. Nel 1963, Francis Haskell si mostrava particolarmente critico nei confronti della prima che definiva “an awkward attempt to use his Caravaggesque manner on an essentially unsuitable theme” (“un goffo tentativo di applicare la maniera caravaggesca a un tema assolutamente inadatto”) e senz’altro nulla di simile era mai stato realizzato prima di allora da un pittore caravaggesco. Anche in questo caso, le api barberiniane svolazzano all’interno del quadro, sopra il tronco a sinistra, rendendo ancora più manifesto il mecenate e l’oggetto dell’adulazione dell’artista. Infine, il martirio dei due santi-commilitoni Processo e Martiniano rappresenta il punto più alto della parabola valentiniana. Come riconobbe Roberto Longhi nel 1943, Valentin riuscì dove Caravaggio aveva fallito: dopo il rifiuto della Pala dei Palafrenieri del 1605, una pala caravaggesca s’imponeva sull’altare della chiesa più importante della Cristianità, non temendo e, anzi, sollecitando il confronto con il Martirio di Sant’Erasmo del classicista Poussin. La morte di Valentin, avvenuta nel 1632 a causa della febbre provocata da un bagno notturno in una fontana di Roma, pose fine alla produzione di questo artista “pre-romantico” che molto ancora avrebbe potuto dire attraverso i suoi quadri.

Valentin de Boulogne, Davide con la testa di Golia
Valentin de Boulogne, Davide con la testa di Golia (1620-1622 circa; olio su tela, 99 x 134 cm; Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza)


Valentin de Boulogne, Giuditta e Oloferne
Valentin de Boulogne, Giuditta con la testa di Oloferne (1625 circa; olio su tela, 97 x 74 cm; Tolosa, Musée des Augustines)


Valentin de Boulogne, L'innocenza di Susanna
Valentin de Boulogne, L’innocenza di Susanna (1625; olio su tela, 175 x 211 cm; Parigi, Louvre)

La mostra non è tra le più semplici. È evidente, dall’inserimento di “Caravaggio” nel suo titolo, che i suoi curatori volessero fare presa sul grande pubblico e su chi già conosce e apprezza l’opera del Merisi. Un simile proposito non è certamente da condannare; eppure, il legame dichiarato nel titolo dell’esibizione non trova all’interno della mostra stessa tutto il riscontro che ci si aspetterebbe. Lo stile di Valentin, infatti, fatto di studi, calchi e reinterpretazioni dall’opera di Caravaggio, ma anche modulato sulle sue stesse ambizioni e nato negli stessi ambienti, è a tratti svilito, tanto da apparire talvolta una superficiale imitazione e banalizzazione di quello del maestro lombardo. Il riferimento alla Negazione di San Pietro di Caravaggio, distante poche sale da quelle della mostra, o alla Vocazione di San Matteo della cappella Contarelli, antesignana di tutte le scene di taverna di Valentin, avrebbe senz’altro giovato alla rassegna newyorkese che ha voluto mantenere, invece, un taglio strettamente monografico.

L’idea di una mostra con le opere di un solo pittore, il cui corrispondente catalogo si propone come un saggio esaustivo della sua produzione, si scontra con la necessità di confronti con quanto realizzavano i pittori a lui contemporanei: nel caso di Valentin, che fossero caravaggeschi o no. La lunga sequenza di scene da taverna, per quanto ciascuna differente in qualche misura dalla precedente e dalla successiva, stanca il visitatore medio che avrebbe forse preferito una maggiore varietà negli accostamenti, anche a costo di “scomporre” unità tematiche ben definite. I bassifondi del Barocco, pur presentando opere di diversa qualità, ma sfruttando la varietà dei pittori coinvolti e l’eterogeneità degli ambienti dell’Accademia di Francia, sede romana della mostra, riusciva davvero a far rivivere la Roma dei primi decenni del Seicento; viceversa, Valentin de Boulogne: Beyond Caravaggio, sebbene scientificamente più matura, non riesce a catturare come la precedente.


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L'autore di questo articolo: Vincenzo Sorrentino

Nato a Napoli nel 1990, si è laureato a Pisa in Storia dell’arte nel 2014 e si è addottorato a Firenze nel 2018, all’interno del programma “Pegaso” in cui sono consorziate le Università toscane. Ha svolto un internship di sei mesi nel dipartimento di scultura della National Gallery of Art di Washington D.C. e da gennaio 2019 è iscritto alla Scuola di Specializzazione in beni storico artistici dell’Università di Firenze.




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