Paestum, luogo partecipato e inclusivo per dare un segnale forte al sud. Parla il direttore Gabriel Zuchtriegel


Il Parco Archeologico di Paestum è uno dei siti più attivi in Italia. Tante le iniziative che negli ultimi quattro anni hanno trasformato questo luogo. Ne parliamo con il direttore Gabriel Zuchtriegel.

Il Parco Archeologico di Paestum, sotto la direzione di Gabriel Zuchtriegel, archeologo classe 1981, ha conosciuto importanti trasformazioni ed è diventato un sito molto attivo. Sono state molte le novità, dall’apertura dei depositi ai piani di manutenzione, passando per le mostre e le tante iniziative, alcune delle quali uniche. Il mandato di Zuchtriegel scadrà il prossimo anno, e dal momento che il Parco di Paestum è uno dei luoghi sui quali maggiormente ha inciso l’autonomia stabilita con la riforma nel 2015, abbiamo intervistato il direttore per comprendere quali principî hanno animato le tante azioni intraprese dal Parco durante questi quattro anni. L’intervista è a cura di Federico Giannini, direttore responsabile di Finestre sull’Arte.

Gabriel Zuchtriegel
Gabriel Zuchtriegel

FG. Direttore Zuchtriegel, la Sua gestione del Parco Archeologico di Paestum è stata davvero molto attiva. Gli scavi sono andati avanti in maniera incessante, ci sono state mostre, iniziative speciali, aperture ai rapporti internazionali, interessanti esperimenti e molto altro. A breve il Suo mandato scadrà: vorremmo quindi sapere se può fare un bilancio della Sua gestione.
GZ. Abbiamo iniziato tante cose e molte sono ancora da terminare. Il primo punto essenziale è quello della ricerca: il parco ha sviluppato un proprio programma di ricerche scientifiche che poi abbiamo portato avanti collaborando anche con università e istituzioni. Siamo stati il primo museo statale in Italia a fare uno scavo, abbiamo anche raccolto dei fondi per questo, e lo ritengo molto importante perché la ricerca è il vero cuore della nostra attività, che non consiste nel raccontare solo quello che sappiamo già, ma anche nel raccontare la ricerca come metodo, domande, dubbî. Il secondo grande tema è quello dell’accessibilità, dell’inclusione, dell’apertura al territorio: Paestum intanto garantisce percorsi senza barriere architettoniche (abbiamo il primo tempio greco ancora in piedi dove si può entrare in carrozzina, abbiamo fatto un percorso per persone non vedenti con modelli tattili, e adesso abbiamo anche un percorso per persone autistiche), e la stessa apertura dei depositi, che ora sono aperti ogni pomeriggio, è un segnale di apertura e condivisione. Noi facciamo le nostre ricerche e il nostro lavoro, ma vogliamo anche condividere il dietro le quinte, infatti l’iniziativa dei depositi si chiama Museo dietro le quinte: vogliamo raccontare alle persone anche tutto il processo dell’archeologia e dello scavo per sensibilizzarle su queste tematiche. Inclusione però vuol dire anche accessibilità economica: ci sono agevolazioni (abbiamo introdotto l’ingresso gratuito tutti i giovedì sera nell’ambito dell’aumento della gratuità voluto dal ministro Bonisoli), ci sono tantissime iniziative e collaborazioni con il territorio, con le associazioni e le fondazioni, e soprattutto abbiamo finalmente, da poco più di un anno, l’associazione degli amici di Paestum (sul modello di ciò che fanno già altri musei soprattutto al nord e anche in altri paesi: penso per esempio alle associazioni come il “Friends Groups” del Metropolitan Museum o le Freundeskreis dei musei tedeschi), ovvero un gruppo di persone del territorio e anche oltre (perché ci sono persone che vengono anche da più lontano), che sostengono la nostra attività. E poi vorrei citare anche il biglietto annuale a un costo simbolico, un euro in più rispetto al biglietto normale, introdotto nell’ottica di favorire la fruizione del museo non come un evento singolare e puntuale ma come un punto di riferimento: i visitatori sanno cioè che pagando quell’euro in più possono tornare tutti i giorni dell’anno. Quindi il tema è quello di fare del museo non solo un luogo della cultura, della storia, dell’archeologia (perché questo ovviamente lo è sempre), ma anche un punto di riferimento, una specie di centro culturale e sociale per il territorio, e di creare sinergie con tutte le eccellenze che sono sul territorio. Infine, terzo punto essenziale è la conservazione, il restauro: nel passato il sistema di assegnazioni e di gestione non permetteva nel sito di Paestum una continua manutenzione e anche un monitoraggio di quello che bisognava fare. Adesso abbiamo ripreso il piano di manutenzione e restauro dei templi, che era stato sospeso circa dieci anni fa per mancanza di fondi, abbiamo avviato anche un grande progetto di restauro e manutenzione delle mura di Paestum grazie a un finanziamento europeo e, tra le altre attività, stiamo avviando un piano di manutenzione ordinario per l’area archeologica, che può sembrare una cosa banale ma chi conosce un po’ la situazione sa che la vera chiave di successo del cambiamento è passare da una gestione di emergenze, dove poi dobbiamo investire sempre delle somme molto elevate, a una ordinaria manutenzione che si fa ogni anno, investendo ed evitando così che si arrivi al punto in cui si verificano l’emergenza, il crollo, il degrado che rendono necessario rimediare con risorse anche molto cospicue. Quindi questo è assolutamente strategico, così come lo è anche per esempio il monitoraggio antisismico del tempio di Nettuno (un progetto per cui abbiamo raccolto 110.000 euro di fondi anche da privati), che prevede un controllo continuo del monumento, con tecnologia avanzata, in tempo reale, raccogliendo i dati che arrivano in una centralina e che saranno poi consultabili in rete attraverso un’ottica di open data e accessibilità. Per noi, conservazione e restauro sono aspetti fondamentali.

Paestum dall'alto
Paestum dall’alto


Paestum in notturna
Paestum in notturna

Un dato interessante della Sua gestione, a cui ha accennato in riferimento al piano per il Tempio di Nettuno, è proprio la raccolta di fondi da privati. Qual è il vostro approccio in questo senso?
Abbiamo dato il via a un percorso con le aziende nella stessa ottica d’inclusione e di dialogo. E in tre anni abbiamo raccolto circa 300.000 euro di donazioni e sponsorizzazioni, di cui 170.000 solo negli ultimi dodici mesi: è un segnale fortissimo in un sud dove noi siamo partiti da zero, perché non c’erano una tradizione e una cultura di questo tipo. Noi abbiamo trovato una risposta, soprattutto sul territorio, da parte di privati che ci sostengono, e sottolineo che sin dall’inizio abbiamo affrontato questa tematica non come un espediente per riempire delle lacune meramente economiche, ma come una forma, tra le varie, di partecipazione dei cittadini e delle imprese alla gestione e al rilancio dei beni culturali. Anche questa attività di raccolta fondi per noi è un modo per entrare in dialogo, non finisce con l’operazione economica e col bonifico, ma anche questo crea legami tra le persone, le realtà sul territorio e i beni culturali.

E sempre parlando di accessibilità, possiamo dire che il Museo Archeologico di Paestum è stato il primo ad aprire le porte dei depositi in modo permanente al pubblico. Quello dei depositi è uno dei principali temi del dibattito attuale attorno ai musei, perché le discussioni circa l’accessibilità al patrimonio passano anche attraverso l’esposizione di quanto è conservato nei depositi: secondo Lei ci può essere una formula per legare museo e depositi e soprattutto per intavolare una discussione seria sull’argomento, dato che di depositi si parla spesso a sproposito?
Quando abbiamo aperto i depositi in maniera stabile abbiamo pensato di consentire a tutti anche la fruizione di questi spazî, il che è un po’ delicato: non è facile perché il pubblico visita un vero deposito, e non una mostra sui depositi o un deposito-museo. I visitatori arrivano dunque nei depositi vedendo i restauratori che a volte fanno operazioni in diretta, gli oggetti entrano ed escono per le mostre, e in sostanza si può davvero vedere il museo dietro le quinte. Siamo riusciti, attraverso una collaborazione con l’associazione Cilento for all, a rendere il tutto accessibile. Per il resto i depositi sono un tema molto caldo, soprattutto nell’archeologia, perché sono archivî in continua crescita: ogni scavo che viene fatto, anche scavi di emergenza che si verificano sul territorio per nuove costruzioni o attività edilizia, accrescono il deposito. Certo, dentro i depositi capita di trovare capolavori, ma ci sono anche migliaia di frammenti di ceramiche, terrecotte o simili: una grande mole di materiali. Quella rappresentata dai depositi è una grande sfida anche per la gestione e la ricerca, e nella nostra esperienza uno dei problemi consiste nel fatto che i depositi versano in uno stato molto delicato. Il museo è visitabile e va mantenuto in uno stato decente altrimenti si nota subito, e spesso nei depositi la situazione, al contrario, è molto difficile: tuttavia, rendendo il deposito fruibile come abbiamo fatto noi, come una parte del percorso, si va a incidere anche sulla gestione del deposito. Detto concretamente, non ho mai visto questi nostri depositi così ordinati, così puliti, così sistemati come adesso che sono visitabili, perché non ci possiamo permettere di presentarci in una maniera non assolutamente all’altezza e perfetta. Questo giova anche agli altri fruitori dei depositi (i ricercatori, gli archeologi) e innesca pertanto un circolo virtuoso: l’accessibilità e la visibilità di questi luoghi contribuiscono anche alla loro gestione, conservazione e sistemazione.

Il Tempio di Nettuno
Il Tempio di Nettuno


Museo Archeologico di Paestum, la sala Mario Napoli
Museo Archeologico di Paestum, la sala Mario Napoli


La più celebre tra le lastre della Tomba del Tuffatore
La più celebre tra le lastre della Tomba del Tuffatore

Continuiamo a parlare d’inclusione: Lei prima ha detto che Paestum vuole raccontare al pubblico anche la “la ricerca come metodo”. In questo senso, una delle mostre più significative che si sono tenute durante la Sua gestione è stata quella dedicata alla Tomba del Tuffatore (L’immagine invisibile. La Tomba del Tuffatore). Nella presentazione dell’esposizione si dichiarava che la mostra in realtà era una “una ‘anti-mostra’ che vuole porre delle domande, mettendo i visitatori nella condizione di partecipare al dibattito e di coglierne i motivi”. Ora, il pensiero che giunge più spontaneo è che è molto difficile far partecipare i visitatori a un dibattito attorno a un’opera, dal momento che non a tutto il pubblico è dato avere gli strumenti per prendere parte a una discussione di questo tipo: quale era dunque il senso dell’operazione?
Non è più complesso il dubbio rispetto alla chiarezza, e noi abbiamo cercato di dimostrare quest’ipotesi facendo addirittura una guida della mostra anche per bambini, intitolata Dioniso, il dio che si nasconde. Il nostro lavoro, come storici dell’arte, archeologi o architetti, è pieno di dubbî, di ambiguità, d’incertezze, di scelte, di prese di posizione, di temi ideologici che incidono anche sulla lettura del passato. Quindi il nostro compito, almeno secondo me, è quello di raccontare anche questo. Perché se facciamo finta che abbiamo trovato le soluzioni per tutto, allora non raccontiamo la vera storia, ma raccontiamo una costruzione, una finzione che non trasmette neanche quello che per me è il fascino del nostro lavoro, che non sono solo le risposte, ma sono anche le domande, le discussioni, i dibattiti. E ovviamente la maggior parte delle persone pensa che sia una cosa già abbastanza complessa e difficile. Io però non ho questa impressione. La mostra sicuramente era ambiziosa anche nel concetto di base che abbiamo scelto, ma è stata un successo inaspettato, seguita anche su riviste e giornali importanti anche all’estero e questo ci ha fatto molto piacere. Tuttavia il principio di base è molto semplice: io non racconto la verità assoluta, ma racconto anche il metodo per arrivare a un’ipotesi scientifica, e quindi dico anche che questa è, appunto, un’ipotesi, e come questa ne esistono anche altre. Io credo che se pensiamo che il pubblico si aspetti da noi delle verità apodittiche o assolute facciamo un errore clamoroso, perché spesso il dubbio, il dibattito, la discussione, la contraddizione sono ancora più interessanti anche per i non addetti ai lavori.

Mi pare tuttavia di capire che, comunque, si è trattata pur sempre di una partecipazione “passiva” da parte del pubblico, non è che il pubblico potesse effettivamente partecipare al dibattito: veniva però messo nelle condizioni di comprenderne gli sviluppi della ricerca attorno a un’opera.
Su questo abbiamo molto discusso, e lo stesso vale per lo scavo. Su base giornaliera ma anche settimanale noi facciamo aggiornamenti sui social, video che condividiamo in rete che raccontano lo scavo, visite guidate condotte dagli archeologi che lavorano nello scavo, proprio nell’ottica della condivisione del dubbio e dell’incertezza, e questo ha fatto molto discutere tra colleghi perché è ancora molto radicata una visione secondo la quale prima bisogna rilevare il dato, studiarlo nella sua interezza, discuterlo solo tra addetti ai lavori, arrivare a una conclusione, e poi alla fine annunciare questa conclusione, questa “verità stabilita”, al “popolo”, per così dire. Il concetto della divulgazione: io ho in mano un processo di conoscenza e di ricerca e alla fine di questo processo sta la distribuzione, la divulgazione al mondo di questa conoscenza a quelli che non sono in grado di capire il metodo. Il nostro è un altro approccio, è quello dell’archeologia pubblica, della condivisione che prevede la partecipazione e la condivisione fin dall’inizio. Credo che noi non perdiamo nulla se ammettiamo che in tutti i settori facciamo ipotesi, che a volte sono sbagliate, che poi troviamo un altro dato che punta in un’altra direzione... e questo è proprio il fascino del nostro lavoro.

Cambiando argomento, possiamo dire che il Parco di Paestum ha ospitato molte iniziative, di varia natura, alcune delle quali anche insolite per un museo. A Paestum abbiamo visto concerti (in un’occasione Lei ha anche suonato il pianoforte), abbiamo visto girare scene di film, abbiamo visto cene solidali e molto altro. Si può insomma dire che Paestum sia uno dei siti più attivi: considerando dunque le attività che si sono svolte durante la Sua gestione, qual è l’immagine che Lei ha voluto dare del museo?
L’immagine è quella di un luogo partecipato e inclusivo non solo nel racconto, ma anche nella ricerca, nella gestione, nella tutela. È quella di una trasparenza anche del nostro agire, è l’immagine di una vivacità, cioè della contemporaneità del museo. Quello che noi facciamo ha un legame diretto con la contemporaneità. Ogni generazione si costruisce il suo passato, non perché cambia il passato, non perché cambiano i dati (che sono sempre quelli), ma perché cambiano le domande, le prospettive, i metodi, e quindi il passato non rimane mai uguale. Il museo, insieme ad altre istituzioni come l’università o le associazioni culturali, tutte in un modo o nell’altro coinvolte, contribuisce alla rilettura e all’attualizzazione del passato, che è un processo continuo, che si svolge anche senza il nostro volere, ma che è essenziale per la cultura della memoria. Quello che noi siamo, lo siamo in base a quell’immagine del nostro percorso inteso come umanità e comunità nel passato, quindi ci orienta anche verso il futuro.

Gabriel Zuchtriegel al pianoforte
Gabriel Zuchtriegel al pianoforte

Prima abbiamo parlato di ricerca e del fatto che Paestum punti molto sulla ricerca. Ma secondo Lei, l’Italia fa abbastanza per far sì che i musei vengano messi nelle condizioni di far ricerca in maniera ottimale?
Nella discussione pubblica il tema della ricerca è stato molto sottovalutato. Però nella riforma dei beni culturali è presente: i musei hanno nei loro compiti istituzionali anche la ricerca, e io sono dell’avviso (ma ne hanno già parlato negli anni Ottanta persone come Giovanni Pinna e Lanfranco Binni, che hanno scritto un libro intitolato Il Museo. Storia e funzioni di una macchina culturale: adesso ci siamo avvicinati a quello che loro hanno ipotizzato) che la ricerca, nel settore della storia dell’arte, dell’archeologia, dell’antropologia, non sia solo un dominio delle università, ma possa giovare alla ricerca una pluralità. Altre istituzioni come i musei che contribuiscono alla ricerca non per sminuire il ruolo delle università, ma per creare una pluralità di voci, di approcci che può solo giovare alla ricerca, che ha sempre bisogno di innovazione e di prospettive nuove. Proprio in quest’ottica noi abbiamo investito risorse nostre nella ricerca, collaboriamo anche con università italiane e straniere, invitiamo le università a fare ricerche a Paestum e siamo aperti, ma abbiamo anche il compito, come museo e parco archeologico, di fare il nostro, non in competizione con le università, ma per aggiungere una prospettiva e una visione che a volte sono anche diverse, perché sappiamo che i modi di gestione e di finanziamento incidono sulle scelte e le università hanno determinati orientamenti, mentre il museo ne ha altri. Questo non vale forse tanto per lo scavo quanto per le attività di analisi archeometriche e di analisi delle collezioni perché lì entra in gioco anche il tema della conservazione. Se noi riusciamo a vedere dei colori su una metopa antica che a occhio nudo non si vedono, allora questo è un grande risultato per la ricerca, ma per noi si pone anche la domanda su come poter conservare quei resti e su come poi li possiamo raccontare al pubblico. Noi, quando facciamo ricerca, abbiamo in mente anche questa prospettiva, quella della conservazione e della trasmissione di queste conoscenze al pubblico... che, poi, arricchisce il lavoro. Noi per esempio abbiamo fatto una mostra insieme all’Università di Salerno, e questo credo sia stato un arricchimento per ambedue le parti: per l’università, perché noi abbiamo aiutato a raccontare al pubblico la loro ricerca, e per il museo, perché l’università ha messo a disposizione la sua conoscenza ottenuta durante gli anni.

Abbiamo fatto un cenno alla riforma. Com’è noto, Lei è uno dei direttori dei nuovi musei autonomi creati con la riforma del Ministero dei Beni Culturali: dopo quattro anni di lavoro, quali sono le Sue impressioni su questa parte della riforma? Crede che l’autonomia abbia portato dei benefici tangibili?
Credo che sia sotto gli occhi di tutti quello che è stato fatto grazie all’autonomia e questo è molto importante, non solo a Paestum ma anche a Napoli, a Reggio Calabria, a Taranto, a Ercolano, a Villa Giulia. Non solo grazie a singole persone ma grazie a un sistema di gestione nuovo, quindi non è colpa di chi ci ha preceduto se certe cose non sono state fatte. Penso sia tangibile anche il rafforzamento del dialogo tra musei e territori.

Però comunque in alcune realtà i problemi rimangono. Per esempio, Lei ha citato Taranto che ha ancora molti problemi di lacune di personale, e lo stesso accade in altre realtà. Quindi secondo Lei, dato che i problemi comunque ci sono, quali potrebbero essere i temi su cui intervenire con eventuali modifiche future, anche in considerazione del fatto che è attualmente allo studio un nuovo riassetto del Ministero?
Il tema del personale è sicuramente molto importante ma non è legato direttamente all’autonomia o meno. È un problema che riguarda un po’ tutti, soprattutto le Soprintendenze e i Poli Museali. Penso che il piano del ministro Bonisoli di fare altre assunzioni vada nella direzione giusta, indipendentemente da come poi si organizzano i singoli istituti del Ministero. Il tema va affrontato, ma questo vale per qualsiasi tipo di organizzazione.

Ancora su temi legati alla riforma: si è insistito molto sul tema delle aperture. Voi avete aperto alle visite in notturna. Da più parti si richiede ai musei di rendere strutturali le aperture di sera, perché sarebbe un modo per avvicinare i musei soprattutto al pubblico locale. Eppure si trova spesso molta resistenza quando si parla di questo argomento. Voi come lo avete affrontato? E perché è così difficile rendere stabili le aperture di sera?
È un discorso di personale e di risorse. Noi cerchiamo di fare il possibile anche insieme alla Regione Campania, che negli anni scorsi ha reso possibile le aperture serali e notturne. È una cosa da proseguire e spero che anche quest’anno, assieme alla Regione, si riesca a garantire queste aperture.

Per concludere, quali sono secondo Lei le principali sfide che Paestum dovrà affrontare in futuro?
Le principali sfide sono il piano di manutenzione ordinario, la gestione dei fondi strutturali per la riqualificazione del museo, dell’area archeologica e dell’ex stabilimento Cirio (sono 38 milioni di euro, quindi una sfida enorme per un’amministrazione come la nostra che è giovane e si trova a dover fare un salto di qualità anche nella gestione finanziaria e progettuale, ma sono sicuro che riusciremo grazie anche ai nostri collaboratori), e la buffer zone, cioè tutto quello che gira intorno a Paestum, dove c’è una situazione di degrado e di abusi spaventosa, che prima o poi dovrà essere affrontata in maniera sistematica, perché così com’è ora non può andare avanti. Paestum è un patrimonio mondiale UNESCO e noi dobbiamo garantire che ci sia anche un contesto consono all’importanza di questo sito.

E per quanto riguarda infine il Suo futuro, si vede ancora a Paestum nei prossimi anni?
Beh forse dovrei guardare le stelle, ma non sono astrologo... ! Io adesso cerco di finire il mio primo mandato, che è ancora pieno di attività, nel modo migliore, e poi spetterà al Ministero fare una valutazione, come credo sia assolutamente giusto. Io apprezzo questo cambiamento: fare mandati a tempo determinato e poi procedere con una valutazione. Non sarò però io a compiere questa valutazione, non sarebbe giusto, pertanto resto in attesa di sapere come si giudicherà il mio operato. Io ce la metto tutta, e devo sottolineare che, nonostante tutto quello che si dice del pubblico in Italia, arrivando a Paestum ho trovato una squadra motivata, in gamba, di persone che mi hanno accolto molto calorosamente e hanno cominciato a lavorare con grande entusiasmo, inclusi i colleghi che sono prossimi alla pensione. Vedere loro sposare con entusiasmo questo progetto, questo nuovo percorso del museo, è stata forse una delle gratificazioni più grandi in questi anni, e quindi spero, anche per i colleghi, che Paestum in futuro possa continuare questo percorso, anche indipendentemente dalla mia persona. E spero infine che l’autonomia, l’apertura e l’integrazione col territorio andranno avanti.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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