La pecora di Damien Hirst. Riflettere sul significato dell'arte


Suscita polemiche a non finire l'esposizione della pecora di Damien Hirst ad Arezzo per Icastica. Si tratta di arte? Proviamo a ragionarci su...

Ha suscitato un enorme scalpore la notizia secondo cui l’inglese Damien Hirst esporrà una sua pecora in formaldeide a Icastica, mostra che si terrà ad Arezzo tra un paio di settimane. Intendiamoci: l’operazione di Hirst, abituato a mettere animali morti sotto teche colme di formaldeide, non è affatto nuova. Da anni ormai Hirst abitua il pubblico a opere di questo genere. Tuttavia, malgrado la non-novità dell’operazione, Hirst continua a suscitare polemiche: il nostro post su Facebook con cui ieri abbiamo rilanciato la notizia, ha ottenuto quasi trecento commenti, divisi tra gli indignati, gli indifferenti, coloro che considerano Hirst un genio e coloro che invece lo considerano un cialtrone.

Al di là dei giudizi personali, queste operazioni aiutano in realtà a riflettere sul significato dell’arte. A cominciare dal come dovrebbe essere valutata un’opera per far sì che possa non solo definirsi arte, ma entrare a far parte della stessa storia dell’arte. Hirst non è un artista innovativo: segue un filone, quello dell’arte concettuale, di cui non è altro che uno degli ultimi esponenti. Da Piero Manzoni in poi (anche se Manzoni non è strettamente inquadrabile come artista concettuale, benché di tali tendenze fu anticipatore) la provocazione è stata uno degli aspetti che hanno caratterizzato buona parte dell’arte concettuale. Se vogliamo, la pecora di Hirst sarebbe già stata un’opera d’arte superata nel 1973, perché l’anno prima Gino de Dominicis “esponeva” alla Biennale di Venezia un ragazzo affetto da sindrome di Down che osservava, seduto, alcune opere (e, a proposito: oggi di De Dominicis probabilmente si ricordano solo gli appassionati di arte contemporanea, anche se sono passati solo quarantadue anni dall’evento e sedici anni dalla scomparsa dell’artista). Anche per questo appare insensato il paragone, avanzato da molti, tra artisti come Hirst e Cattelan ad altri come Caravaggio e Monet: molti li pongono sullo stesso piano. Tuttavia, una delle caratteristiche che distinguono il genio da chi genio non lo è (per quanto sia antipatico e commerciale il termine “genio”, ma dato il suo largo utilizzo, non è possibile non affrontare l’argomento), è proprio l’originalità: per questo Caravaggio e Monet furono dei geni. Perché furono i primi a inventare un linguaggio e a rompere certi schemi. Duchamp è stato un genio, che la sua arte piaccia o meno, perché è stato forse l’artista che ha dimostrato, con un’opera che ha scatenato polemiche a non finire (e continua a farlo a distanza di un centinaio di anni), uno degli assunti su cui si basa l’arte, cioè l’originalità dell’idea.

Accanto a questi esiste poi una più grande schiera di artisti che sono passati alla storia dell’arte perché sono stati in grado di rielaborare le conquiste dei grandi maestri adattandole o fondendole a suggestioni diverse per creare una strada personale. E in questo senso i nomi si sprecano. Gli odierni artisti concettuali possono rientrare in questa categoria? Fino a che punto la provocazione può definirsi arte? Potrebbe essere interessante introdurre un ulteriore elemento di riflessione, quello del messaggio dell’opera. Ciò che forse distingue un artista da un buon venditore (del resto, esiste una larga parte del marketing che è basata proprio sulla provocazione che mira a far parlare di un prodotto per fargli acquistare valore) è la capacità di riuscire a far sì che la provocazione serva a stimolare una riflessione su un contenuto, su un messaggio, più che sulla provocazione in sé e sulla sua forma. Quasi nessuno si interroga sul messaggio delle opere di Hirst, di Cattelan, di Vanessa Beecroft o di personaggi similari, proprio per il fatto che la provocazione portata all’estremo prende il sopravvento su qualsiasi contenuto e genera dibattito non sulla sostanza, ma sulla forma. Che sia anche questa una forma d’arte? Probabile. Ma allora se l’assunto è questo, sono artisti anche i pubblicitari che hanno inventato l’immagine del David di Michelangelo armato di fucile. È lo stesso Duchamp che ha insegnato, contrariamente a quanto possa apparire, che non basta prendere un oggetto qualsiasi definendolo “opera d’arte” per creare, appunto, un’opera d’arte. Altrimenti saremmo tutti artisti. C’è chi dice che quando Hirst, Cattelan o altri suscitano numerose polemiche, questi personaggi raggiungono il loro scopo. E noi facciamo il loro gioco. Ma la domanda è: qual è il loro scopo? E qual è il loro gioco? Far parlare di sé, probabilmente, visto che difficilmente si parla del significato delle opere. E allora, se lo scopo delle loro operazioni è far sì che se ne parli, qual è la linea che divide l’arte dal marketing?

C’è poi un ulteriore spunto su cui riflettere. Nel suo saggio (in forma di dialogo) The critic as artist, Oscar Wilde attribuiva al critico d’arte una capacità creativa superiore rispetto a quella dello stesso artista. Un messaggio quanto mai attuale: pensiamo solo a come nacque la Transavanguardia, un movimento creato praticamente a tavolino, negli anni Ottanta, da uno dei più influenti critici dell’epoca (e di adesso), Achille Bonito Oliva. Tanto che spesso il vero protagonista della Transavanguardia, che riunisce in gran parte artisti privi in realtà di una formazione artistica, è considerato il critico d’arte che ha dato vita al movimento. Un movimento che, senza il suo ingombrante critico d’arte, probabilmente non sarebbe mai neppure esistito. Per gli artisti di oggi il discorso non cambia: sono osannati e promossi dalla critica e senza la critica forse neanche esisterebbero. Quello di cui Wilde parlava alla fine dell’Ottocento è ancor oggi realtà quotidiana, e oggi la critica ha probabilmente un potere ben più alto rispetto a quello dell’arte. La storia però ci ha dimostrato come critica e storia dell’arte non vadano di pari passo. Pensiamo solo a Lorenzo Lotto, costretto alla fine della sua carriera a ritirarsi in convento perché non aveva di che vivere, dato che la sua arte non fu compresa e l’artista dovette sempre lavorare in centri periferici, a volte senza riuscire a guadagnare abbastanza per una sussistenza dignitosa. Oggi invece Lorenzo Lotto è riconosciuto come uno dei più grandi nomi della storia dell’arte.

Infine, una notazione di carattere più “pratico”, mi si passi l’aggettivo. Arezzo ha uno splendido Museo d’Arte Medievale e Moderna, assolutamente non valorizzato (non ha neppure un proprio sito web!), e tuttavia ricco di importanti opere di grandi artisti locali e non (solo tra gli artisti locali potremmo citare Luca Signorelli, Bartolomeo della Gatta e Giorgio Vasari). L’ultima mostra degna di nota, di quelle organizzate nei suoi ambienti, è forse la grande mostra su Piero della Francesca del 2007, che avevamo visitato anche noi di Finestre sull’Arte (anche se il sito sarebbe nato solo due anni dopo). Fu una delle migliori mostre degli ultimi dieci anni, e poteva rappresentare un trampolino per lanciare il museo e la città stessa, facendola diventare una sorta di Forlì della Toscana, per quanto riguarda la promozione dell’arte e delle mostre. Si è preferito invece puntare sull’arte contemporanea, ma non basta provocare con facili operazioni come quella di Hirst per potersi dire contemporanei. Anche perché si può essere contemporanei valorizzando l’antico: tutti si ricordano della mostra su Piero della Francesca, a sette anni di distanza. Quasi nessuno ricorda la scorsa (nonché prima) edizione di Icastica. E anche i numeri parlano chiaro: la mostra su Piero ha registrato 160.000 visite, la scorsa edizione di Icastica invece poco più di 20.000. E allora, se un modello funziona, perché non replicarlo e potenziarlo?


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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