L'importanza dell'arte e della sua storia


Il testo integrale dell'incontro 'L'importanza dell'arte e della sua storia' di Federico Giannini, che si è tenuto il 24 gennaio 2015 alle ore 18 presso la Sala di Rappresentanza del Comune di Carrara.

Si è tenuto oggi, alle ore 18, presso la Sala di Rappresentanza del Comune di Carrara, l’incontro L’importanza dell’arte e della sua storia, nel corso del quale il nostro Federico ha parlato al pubblico in sala a proposito dell’utilità che l’arte e la storia dell’arte svolgono per la società di oggi. Per chi si fosse perso l’incontro, pubblichiamo di seguito il testo integrale. Cliccando qua potete invece scaricare il PDF con le slide proiettate in sala. Buona lettura!

L'importanza dell'arte e della sua storia

Prima di iniziare a parlare dell’importanza dell’arte e della sua storia, vorrei esprimere un doveroso ringraziamento all’Assemblea Permanente di Carrara e in particolare a Manuel Dell’Amico che mi ha gentilmente invitato a tenere questo incontro, questo intervento che mi auguro possa fornire al pubblico qualche piccolo spunto su cui magari riflettere, discutere e condividere. Ringrazio il gruppo cultura dell’Assemblea, che ha organizzato l’incontro e ovviamente ringrazio i partecipanti dell’Assemblea Permanente che hanno accolto con favore e con interesse questa proposta. Vorrei inoltre esprimere pubblicamente il mio sostegno a questa Assemblea e vorrei esprimere il mio apprezzamento, sentito, per il lavoro che sta svolgendo, e per il fatto che sta dando una grande dimostrazione di civiltà, dimostrando a tutto il paese che un gruppo, folto, di cittadini uniti, e che hanno a cuore il bene della propria città, può fare davvero molto e può costituire l’inizio per cambiarne le sorti, in modo attento e consapevole. Ci tengo a sottolineare tutto questo intanto perché è quello che veramente provo nei confronti dei cittadini che stanno lavorando per provare a dare un futuro migliore al luogo in cui vivono, e poi perché durante questo nostro incontro avremo modo di vedere che storia dell’arte e amore per la propria città, per il proprio territorio, per il proprio patrimonio artistico e culturale, vanno di pari passo e sono intimamente legati l’una all’altro.

Non ci resta quindi che entrare nel vivo dei temi del nostro incontro. E inizierei dicendo che quello in cui voglio condurvi questa sera è un viaggio. Un viaggio che attraversa secoli d’arte, e opere di alcuni tra i più grandi artisti della storia dell’arte. L’obiettivo di questo viaggio sarà rispondere ad alcune domande che possono sembrare scontate e banali, ma in un mondo e in un paese in cui l’arte e la cultura vengono messe sempre più in secondo piano, è sempre doveroso e necessario ribadire le risposte. Alla fine del nostro viaggio capiremo quindi a che cosa serve la storia dell’arte, perché studiarla, perché coltivare l’amore per le opere d’arte, perché immergersi nell’arte andando a visitare un edificio storico, un museo, una chiesa: per quale motivo, insomma, non dobbiamo disinteressarci all’arte, ma anzi dobbiamo difenderla e tutelarla.

Prima di iniziare questo viaggio vorrei però ricordare una persona, a cui dedico questo intervento: si tratta di Gordon Moran, un grande studioso e storico dell’arte americano che ci ha lasciati alla vigilia di Natale, esattamente un mese fa. Questo ricordo non vuole essere retorico, ma è funzionale al viaggio che stiamo per compiere. Molti di voi probabilmente non conoscono la vicenda umana e professionale che ha riguardato questo grande uomo, che ho avuto il piacere di incontrare, di conoscere e con cui ho avuto anche il piacere, a più riprese, di scambiare opinioni, ricevere consigli, incoraggiamenti e apprezzamenti nella mia attività di divulgazione della storia dell’arte. Gordon Moran arrivò dagli Stati Uniti a Siena, lui che si era laureato dalle sue parti, all’Università di Yale, con una tesi di storia dell’arte senese, su Ambrogio Lorenzetti, grande artista del Trecento, e arrivò per dimostrare una sua teoria: ovvero che il famosissimo affresco che raffigura Guidoriccio da Fogliano all’assedio di Montemassi, che decora una delle pareti della Sala del Mappamondo nel Palazzo Pubblico di Siena, non era, come si pensava fino ad allora, opera di uno dei più celebrati artisti della storia dell’arte italiana, ovvero Simone Martini, ma era opera di un più modesto pittore vissuto forse anche secoli dopo, un pittore modesto di cui all’epoca degli studi di Moran ancora non si sapeva il nome, e di cui ancora oggi non siamo certi dell’identità. Bene, Gordon Moran dovette sfidare un ambiente ostile, quello degli accademici italiani, che non ammettevano che uno studioso arrivato da oltreoceano provasse a mettere in dubbio delle teorie che erano ormai consolidate da secoli. Gordon Moran dovette subire l’ostracismo degli accademici italiani, perché non veniva neppure invitato ai convegni su Simone Martini, dovette subire il dileggio, le facili ironie, e subì tutto questo con l’eleganza e lo stile che si confacevano alla sua figura di grande gentiluomo, come ce ne sono pochi al giorno d’oggi. Eppure Gordon Moran continuò il suo lavoro sempre con grande serietà, e con prove difficili da confutare: e finalmente, dopo alcuni anni, le sue teorie iniziarono a convincere anche molti studiosi italiani, primo tra tutti Federico Zeri, uno dei più celebri e stimati storici dell’arte del Novecento. Una parte della critica accademica ancora non crede alle teorie di Gordon Moran, ma in tanti sono convinti che questo studioso americano abbia ragione, e ulteriori sviluppi, degli ultimi anni, sembrerebbero proprio confermare le teorie di Gordon Moran: ovvero il Guidoriccio da Fogliano non sarebbe opera di Simone Martini. Dalla storia di Gordon Moran possiamo trarre un importante insegnamento: e cioè che con la tenacia, con la caparbietà, con la passione, con la cultura specialmente quando queste qualità sono unite a eleganza, raffinatezza e rispetto, è possibile ottenere grandi risultati e raggiungere traguardi che fino a prima sembravano insperati, e di questo saremo sempre grati a Gordon Moran. E questo è già, del resto, una prima conferma al fatto che la storia dell’arte abbia una importante utilità.

Il nostro viaggio può quindi avere inizio, e questo inizio avviene a pochi metri da qua, da questo luogo in cui ci troviamo adesso: il nostro viaggio parte infatti dal nostro Duomo, il Duomo di Carrara. È qui che troviamo la prima opera che vi voglio illustrare, ossia la decorazione del portale principale, quello che troviamo in facciata. Come saprete, all’epoca, siamo tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo, quindi non molto dopo l’anno 1000, le persone che sapevano leggere e scrivere non erano molte, anzi erano pochissime, e inoltre all’epoca ogni aspetto della vita quotidiana era regolato dalla religione cristiana. Si poneva dunque un problema: il problema di conferire una sorta di educazione alle masse che non sapevano né leggere né scrivere, perché comunque era necessario fare in modo che le masse imparassero i precetti del cristianesimo, le sue norme di comportamento, e ovviamente anche le sue storie. Uno dei modi privilegiati era quindi parlare attraverso le immagini, attraverso i simboli, che arricchivano le opere pensate per un pubblico vasto: è per questo che quando passiamo davanti alle chiese antiche le vediamo così ricche di decorazioni e di figure. E questo proprio perché quelle figure avevano la funzione di parlare e di insegnare, un po’ come avviene oggi con i libri: quelle opere d’arte erano i libri, nel nostro caso, dei carrarini dell’anno 1000-1100. E, in tal senso, il portale maggiore del Duomo di Carrara è un interessante compendio di precetti che dovevano regolare la vita del cristiano: oggi è necessaria una guida che ci faccia comprendere qual è il loro significato, ma un tempo la percezione di questi simboli era molto più immediata, anche perché davano senso di comunità, e le persone, i carrarini dell’anno 1000-1100, si riconoscevano in questi simboli, in questi simboli trovavano la propria identità, per loro questi simboli erano un vero patrimonio linguistico. Partendo dall’alto, nella lettura dei simboli del portale, abbiamo quindi un’aquila che tiene tra gli artigli un libro, e ai lati abbiamo a sinistra un bue e a destra un leone. Questi sono gli animali del cosiddetto “tetramorfo”, parola greca che significa “dalle quattro forme”, e che rappresenta il simbolo dei quattro evangelisti, ognuno rappresentato da un elemento, anche se questo tetramorfo è un po’ atipico perché uno dei quattro elementi tradizionali, ovvero l’uomo alato, o l’angelo, simbolo dell’evangelista Matteo, è qui sostituito dal libro tenuto dall’aquila, probabilmente per esigenze di equilibrio compositivo, perché l’arte romanica è un’arte votata sempre alla forte armonia tra i suoi elementi. Per completezza, diciamo che il bue rappresenta san Luca, l’aquila san Giovanni e il leone san Marco. Questa simbologia deriva da un passo del libro del profeta Ezechiele, in cui si descrive una visione che lo stesso profeta avrebbe avuto: avrebbe cioè visto una nube con una creatura, il tetramorfo appunto, costituita dai quattro elementi che abbiamo citato poc’anzi: uomo alato, aquila, bue, leone. Fin dagli inizi del cristianesimo i teologi hanno associato i simboli agli evangelisti, ognuno fornendo la propria interpretazione, e semplificando l’interpretazione proposta da san Girolamo nel quarto secolo dopo Cristo, possiamo scoprire il perché di questi simboli. L’uomo alato simboleggia Matteo in quanto il suo Vangelo si apre con la genealogia di Gesù, quindi una storia di uomini, il leone è simbolo di san Marco perché il suo Vangelo inizia con la predicazione, nel deserto, di san Giovanni Battista, definito “voce che grida nel deserto”, quindi una voce forte come quella di un leone, il bue è simbolo di san Luca perché il Vangelo da lui scritto inizia con un sacrificio fatto da san Zaccaria, e il bue era animale sacrificale, e infine Giovanni è simboleggiato dall’aquila perché il prologo del suo Vangelo contiene il celebre inno al Verbo, visto come una sorta di volo verso Dio, come quello di un’aquila.

Questi quattro simboli, i simboli degli evangelisti, sono i più importanti del portale, e infatti stanno in cima, e sono così importanti per il fatto che i vangeli erano i libri a cui ogni cristiano doveva ispirarsi, e le persone dovevano appunto recarsi in chiesa per ascoltare la lettura e l’interpretazione di questi testi. Poi che questo fosse solo un proposito e che in realtà i vangeli siano i libri più travisati e mal interpretati della storia, e che la Chiesa stessa abbia seguito molto poco il loro messaggio... diciamo che non è il punto, ma è importante sapere che il vangelo doveva essere, e se non erro credo che dovrebbe ancora essere, il libro a cui i cristiani devono ispirarsi. Scendendo, troviamo sotto il bue un asino e sotto il leone un cane. L’asino è l’animale con cui Cristo entrò in Gerusalemme, dunque è simbolo di umiltà, perché Cristo era umile, e pertanto umile deve essere anche il cristiano, ma l’asino è anche l’animale che aiuta l’uomo nel suo lavoro nei campi, dunque è simbolo di lavoro. Il cane invece è simbolo di fedeltà, altra caratteristica che deve avere il cristiano, ma anche della caccia, quindi altra attività che all’epoca costituiva una imprescindibile fonte di sostentamento per la comunità locale. Sotto a questi due animali abbiamo due grifoni, che simboleggiano Cristo, perché animali dalla doppia natura, ovvero per metà leone, quindi animale che sta sulla terra, e per metà aquila, quindi animale del cielo. Come Cristo, che secondo la religione cristiana è figlio di Dio, dunque abita i cieli, ma si è fatto uomo, e quindi è sceso in terra, per salvare l’umanità: ecco perché il grifone è simbolo di Cristo. Infine, sotto ancora, i due leoni a bocca aperta: simbolo della lotta al peccato in quanto in procinto di divorare i peccatori. Anche le piante giocano un ruolo fondamentale: abbiamo l’acanto, quello che vediamo sopra l’architrave, simbolo di immortalità, abbiamo la palma simbolo di martirio e quindi di fede in Cristo, e queste piante sono intrecciate a spirale, per simboleggiare il ciclo della vita.

Come abbiamo visto, in questo portale c’è tutto ciò che un cristiano deve essere: attento alla lettura dei vangeli in chiesa, dunque attento al loro messaggio, umile, fedele, lavoratore, lontano dal peccato, forte nella fede. Ovviamente al giorno d’oggi da una parte abbiamo perduto la percezione di queste simbologie, e dall’altra parte, a doverci indicare qual è la via per vivere bene, più che la Chiesa, sono i nostri valori universali, che si sono formati con la storia e con gli eventi: l’opera d’arte subisce quindi una trasformazione del suo significato. Per cui se quell’opera, nell’anno 1000-1100, trovava una propria utilità nel comunicare alle persone come vivere bene, secondo la morale dell’epoca ovviamente, oggi questo significato non è più attuale perché l’opera ne ha assunto un altro, ovvero quello di essere testimone di un tempo storico e di farci capire quali fossero i valori in cui un tempo le persone credevano e che creavano l’identità di una comunità, di una società. E sappiamo bene che conoscere la storia è uno dei modi migliori per trarne insegnamenti: l’arte ci aiuta dunque in questo processo di conoscenza della storia.

Per entrare più in confidenza con questo concetto possiamo fare un altro esempio, sempre molto vicino a noi. La chiesa che vedete qua nella foto è la chiesa di San Lazzaro, la trovate sull’Aurelia andando a Sarzana, poco dopo Fosdinovo. È una chiesa che, a vederla così, potrebbe non dire niente, perché è sobria, quasi anonima, insomma non diremmo mai che dentro possa contenere dei grandi capolavori. E invece questa chiesa, che ovviamente merita assolutamente di essere visitata, conserva uno dei più grandi capolavori del Seicento ligure: è un dipinto di Domenico Fiasella, che fu uno dei maggiori artisti dell’epoca, e che rappresenta san Lazzaro che chiede alla Madonna protezione per la città di Sarzana. A prescindere dall’altissimo valore artistico del dipinto, valore artistico che comunque sarebbe degno d’attenzione, vorrei che per questa sera ci concentrassimo piuttosto sul piano dei contenuti: in questo dipinto c’è... un santo, san Lazzaro, che è il santo a cui è dedicata la chiesa in cui si trova l’opera, e questo santo sta chiedendo alla Madonna di proteggere la città di Sarzana. In particolare, le sta chiedendo di proteggerla dalla peste. Nel dipinto, la minaccia che incombe su Sarzana, che vediamo sullo sfondo, e di cui riconosciamo il profilo, è simboleggiata dalle nubi che stanno oscurando gli edifici della città. Siamo nel 1616 e all’epoca la peste era un problema molto serio. La scienza moderna, la scienza come la conosciamo oggi, stava nascendo proprio in quegli anni, e dal momento che, come possiamo ben immaginare, le grandi masse non avevano affatto percezione del fatto che stava nascendo la scienza moderna, l’unico modo per proteggersi dalle malattie, oltre che affidarsi alle cure allora conosciute, era la credenza di votarsi a un santo che facesse da mediatore, per così dire, presso la Madonna, per ottenere appunto protezione. Curioso tra l’altro che il santo di cui stiamo parlando, san Lazzaro, protettore contro la peste, sia un personaggio di pura fantasia in quanto è il lebbroso che compare nella parabola dell’uomo ricco raccontata da Gesù nei Vangeli, quella che dice che c’era questo povero lebbroso che tutti i giorni sperava di ottenere qualche briciola di pane dal banchetto di questo riccaccio arrogante, e poi succede che un giorno questo Lazzaro muore e viene premiato con un posto in paradiso per le sofferenze patite con dignità in vita, al contrario del ricco che invece sarebbe stato destinato all’inferno. Il ricco, consapevole del proprio destino, avrebbe pregato Abramo di mandare Lazzaro dai suoi figli, dai figli del ricco, per dir loro di non ripetere i suoi errori e di essere caritatevoli con i poveri. Dunque, abbiamo detto personaggio di fantasia elevato al rango di santo, anche se comunque non è raro che molti dei santi che la Chiesa venera siano figure più leggendarie che reali... e santo protettore delle malattie in quanto lui stesso, secondo la parabola, era un uomo malato. Ecco, questo dipinto ci racconta una cosa molto particolare, ovvero il fatto che anticamente gli uomini, per trovare sollievo dalle loro angosce, si rivolgevano a entità soprannaturali per ottenere dei benefici, e l’arte era quindi considerata il tramite per ottenerli, questi benefici. Anche in questo caso vediamo operata una trasformazione del significato: l’opera, da strumento dotato di un fine diciamo “pratico”, perché comunque dipinta in vista di ottenere un beneficio, diventa nuovamente testimonianza di un modo di vivere, di una credenza, del modo di pensare di una civiltà. E poi non è detto che ancora oggi ci sia chi crede al fatto che con un dipinto ci si possa proteggere dalle malattie, e probabilmente per queste persone il significato dell’opera sarà ancora questo, ma per la storia dell’arte se ne aggiunge un altro, che è quello di raccontare la storia, di raccontare ciò che siamo stati, e quindi noi studiamo la storia dell’arte e proteggiamo i beni culturali per proteggere il nostro passato, per proteggere quello che siamo stati e ovviamente per proteggere le tappe del cammino che ci ha portato alla formazione di quelli che oggi sono i nostri valori universali.

Tuttavia non è questo l’unico fine dell’arte, ovviamente. Perché l’arte non guarda solo al passato. L’arte è anche un modo per rappresentare i sogni, e non è detto che questi sogni, in un futuro più o meno lontano, possano anche diventare realtà. E per capire come l’arte possa rappresentare un sogno che in futuro potrebbe essere destinato a diventare realtà occorre tornare ulteriormente indietro nel tempo: il nostro viaggio dall’Italia si sposta in Francia, in una data precisa, il 1893, e in una località precisa, ovvero Saint-Tropez. A Saint-Tropez troviamo un pittore che ha appena compiuto trent’anni: si chiama Paul Signac, è uno dei più grandi artisti che operarono tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, in quanto possiamo considerarlo, insieme a Georges Seurat, come il padre del pointillisme, e in questo periodo sta dipingendo un’opera a cui ha deciso di dare un titolo molto forte, emblematico. Il titolo, in italiano, è questo: “Al tempo dell’anarchia. L’età dell’oro non è nel passato, ma è nell’avvenire”, e il dipinto è quello che vedete qua. Signac, pittore anarchico militante, sarà poi costretto a cambiare il titolo: non più “Al tempo dell’anarchia” bensì “Al tempo dell’armonia”. Questo perché per l’anarchismo non era un momento facile. Gli anarchici erano malvisti, soprattutto dopo che il 24 giugno 1894 un anarchico italiano, Sante Caserio, a Lione aveva pugnalato e ucciso il presidente della repubblica francese, Marie-François Sadi Carnot. Poco importa che Sante Caserio avesse dichiarato che il suo gesto non era contro la persona, ma contro il sistema che rappresentava, come ebbe a scrivere alla madre dal carcere. Le scrisse: “se ho commesso questo mio fatto è precisamente perché ero stanco di vedere un mondo così infame”. Era insomma la stessa idea che avrebbe mosso, pochissimi anni dopo, Gaetano Bresci, che a seguito dell’uccisione del re Umberto I dichiarò che non aveva voluto uccidere la persona, Umberto, ma aveva voluto uccidere il re, il principio. Dicevo, poco importa quale fosse l’idea che mosse la mano di Sante Caserio, perché in Francia si scatenò una repressione molto forte nei confronti degli anarchici, e dato il clima che si era creato, Signac preferì cambiare il titolo della sua opera. Ma non il contenuto ovviamente. E il contenuto di questo dipinto, quello che questo dipinto rappresenta, è nient’altro che una società ideale in cui vige l’anarchia: una sorta di manifesto politico, quindi, di cui discuto in questo mio intervento anche perché Carrara, in Italia, è la città più rappresentativa per il movimento anarchico. Quella che vediamo nel dipinto è una società in cui gli uomini possono vivere nell’armonia, una società dove non ci sono differenze dovute all’aspetto fisico, al denaro, al ceto sociale, una società dove ogni persona garantisce alla propria comunità il contributo che è in grado di portare, e dove c’è anche molto spazio per dedicarsi alle proprie attività preferite, perché una società dove tutti lavorano e dove la ricchezza è equamente distribuita, è anche una società in cui c’è più tempo libero per tutti. Ed ecco quindi il senso del titolo del dipinto: l’anarchia diventa sinonimo di armonia perché in una società in cui vige un sistema anarchico perfetto, gli uomini devono essere in grado di organizzarsi senza che ci siano prevaricazioni dovute a qualsivoglia forma di gerarchia, e abbattendo le barriere sociali. Ecco quindi che vediamo a sinistra l’uomo che raccoglie il fico e che è un autoritratto di Paul Signac, il pittore, qui rappresentato assieme alla sua moglie, Berthe Roblès, che dona un fico a un bambino. C’è un uomo che legge, a simboleggiare la cultura, valore fondamentale di questa società idilliaca, ci sono uomini che giocano a bocce, a significare appunto le attività ludiche, i passatempi. Ci sono due innamorati, perché l’amore è fondamentale in una società, e se manca l’amore possiamo dire che non esiste la vita, ci sono pittori, ci sono persone che fanno il bagno in mare, c’è una donna che coglie dei fiori, insomma ognuno si dedica alla propria attività preferita. E poi, sullo sfondo, abbiamo il lavoro, rappresentato dai contadini nei campi che riposano all’ombra dell’albero. Riposano per il fatto che le macchine, che vediamo più indietro, consentono, secondo una visione ottimistica del progresso, di compiere il lavoro al loro posto. Signac in questo dipinto guarda con fiducia al progresso tecnologico proprio perché libera l’uomo dai compiti più difficili e rischiosi: e progresso significa anche più ricchezza da distribuire equamente tra coloro che appartengono a questa società. E se la ricchezza è equamente distribuita, non ci sono abusi, e ognuno può vivere più felice.

Molti hanno descritto questo dipinto come un’utopia, e altri semplicemente come una società ideale: attraverso questo dipinto noi possiamo comprendere che l’arte è un mezzo per dar forma a un’idea, a un sogno, e per coinvolgere più persone possibili in questa idea e in questo sogno. Tanto più che l’opera che qui vedete è esposta in uno spazio pubblico, ovvero il municipio di Montreuil, in Francia: ed esporre un’opera come questa in un luogo che è di tutti i cittadini ha un altissimo significato perché consente a tutti di emozionarsi e di riflettere sul contributo che un artista ha dato per mostrare cosa significa una società felice, libera e non violenta, e quindi un contributo per un mondo migliore.

Ho appena usato una parola, “emozionarsi”, che rappresenta un altro concetto importante da associare alla storia dell’arte e alla sua utilità. Sì perché il primo approccio che si ha nei confronti di un’opera d’arte è sempre quello emozionale. C’è poco da fare, il primo giudizio che tutti diamo quando ci accostiamo a un’opera d’arte è un giudizio direi estetico, un giudizio che deriva dalla percezione che noi abbiamo di quell’opera, e quindi deriva dalla suggestione che il dipinto esercita su di noi, sia essa una suggestione positiva, perché quell’opera ci esalta, ci commuove, ci provoca, o semplicemente perché la troviamo esteticamente gradevole, sia essa una suggestione negativa, perché magari ci disgusta, ci rattrista o ci fa orrore. E il bello di questo potere che l’arte ha su di noi consiste nel fatto che queste emozioni non sono universali, perché un quadro che magari emoziona me non ha lo stesso potere su di un’altra persona, che probabilmente non proverà niente di fronte a quel dipinto, e viceversa. Ci sono poi magari dei dipinti che esercitano un fascino su molte persone, e uno di questi dipinti è quello che vedete alle mie spalle, la Venere di Urbino di Tiziano, opera del 1538 su cui anche io mi soffermo sempre a lungo quando vado agli Uffizi, dove è conservata. L’ho scelta in quanto è un’opera che, oltre a piacere davvero a tantissime persone, detta proprio in modo molto semplicistico, esercita anche un fascino molto particolare, perché è provocante non solo nel corpo, che si offre senza nascondere alcunché all’osservatore, ma è provocante nella posa, nella gestualità, nell’espressione... basti pensare che un grande scrittore come Guy de Maupassant ebbe a dire, in occasione di un suo viaggio in Italia, che secondo lui la donna più bella che aveva trovato a Firenze era proprio la Venere di Tiziano. Quello che comunque voglio dire è che questo assunto può avere un senso per Guy de Maupassant, ma può anche non aver alcun senso per un’altra persona, così come la Venere di Tiziano può esercitare un fascino su di me, ma non su di un’altra persona: proprio per il fatto che le emozioni sono un qualcosa di profondamente intimo e personale, e per questa loro natura le emozioni non possono essere né ingabbiate né tanto meno vendute. Ecco perché non credo, e dico a tutti di non credere, a quei critici d’arte che impostano tutte le loro mostre, il più delle volte brutte, mal organizzate, senza un filo logico, sull’assunto delle emozioni, specialmente laddove si vuol far credere che queste emozioni siano da contrapporsi alla conoscenza. Personalmente credo che non esista un approccio peggiore nei confronti dell’arte, che quello di una mostra allestita con l’intento dichiarato di emozionare tutti i propri visitatori. Perché le emozioni sono un fatto estremamente personale e nessun critico può emozionarvi a comando con una mostra preconfezionata con questo scopo: ecco, quando questo succede significa che abbiamo perso anche il gusto di provare emozioni nostre e personali, e io credo che non ci sia conformismo peggiore del conformismo delle emozioni. L’arte quindi ha questa “utilità”, tra virgolette, questo potere: quello di emozionarci e di farci comprendere che quello che proviamo di fronte a un’opera, un quadro, una scultura, è un qualcosa di totalmente nostro, che nessuno ci può togliere, e che nessuno ci può dire in che modo dobbiamo vivere.

Vorrei tornare ora a parlare ancora di aspetti simbolici di un’opera d’arte: se finora abbiamo visto opere d’arte che cercano di comunicare qualcosa, opere d’arte realizzate per chiedere una grazia, opere che sono trasposizione di sogni e di ideali, e opere che emozionano, vediamo adesso un’opera che racconta una storia, una storia che è effettivamente avvenuta, ma che viene raccontata anche attraverso un punto di vista dell’autore che, con gli espedienti che vedremo, vuole comunicare dei valori agli osservatori, dei valori in cui crede fortemente. Quella che qui vedete è la cosiddetta Tavola Doria, che si chiama così perché un tempo apparteneva alla famiglia Doria di Genova. Si tratta della copia del celebre cartone che Leonardo da Vinci eseguì in preparazione di un affresco che avrebbe dovuto realizzare a Firenze, nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio. Ora non sappiamo bene se la Tavola Doria sia stata realizzata da Leonardo in persona o se invece è una copia fatta da qualche altro artista, il dibattito è ancora tutto aperto... ma lasciamo per ora da parte le questioni sull’attribuzione per concentrarci sul significato di quest’opera. Nel 1503, la Repubblica di Firenze, che aveva cacciato i Medici da poco meno di dieci anni, aveva avuto l’idea di decorare quella che all’epoca era la Sala del Maggior Consiglio, oggi nota appunto come Salone dei Cinquecento, con affreschi che dovevano raffigurare scene delle battaglie in cui i fiorentini avevano sconfitto i loro nemici e quindi battaglie grazie alle quali i fiorentini avevano aumentato il loro potere e il loro prestigio. La Repubblica decise così di affidare a Leonardo da Vinci la realizzazione della battaglia di Anghiari, e a Michelangelo, un anno dopo, la realizzazione della battaglia di Cascina: fu un grande momento della storia dell’arte, perché due tra i più grandi artisti del tempo e di tutta la storia, si trovarono a lavorare negli stessi ambienti, e su temi simili. Nessuno dei due poi portò a termine il proprio compito, per vari motivi, e anche i cartoni originali sono andati perduti, quindi conosciamo le opere dei due artisti solo attraverso le copie, anche se come dicevo prima, per la Tavola Doria si ipotizza che sia stato lo stesso Leonardo a dipingerla.

Come detto, Leonardo dovette realizzare l’affresco che doveva rappresentare la battaglia di Anghiari. La battaglia si svolse il 29 giugno del 1440, in questo paesino, Anghiari, vicino ad Arezzo, e vide opposti da una parte i fiorentini e dall’altra i milanesi: questi ultimi, i milanesi, avevano l’obiettivo di estendere i domini del Ducato di Milano nel centro Italia, e i fiorentini ovviamente difendevano i loro interessi contro l’avanzata dei milanesi. Alla fine di una giornata molto difficile Firenze riuscì a sconfiggere Milano, e questa sconfitta inflisse un duro colpo ai milanesi che, dopo qualche mese, decisero di abbandonare i loro piani di espansionismo ai danni della Toscana.

Leonardo raffigura un momento cruciale della battaglia, ovvero quello della lotta per lo stendardo, cioè lo stendardo dei milanesi che i fiorentini stanno cercando di conquistare... e ci stanno riuscendo, anche se non vediamo bene lo stendardo perché è coperto dalle figure dei personaggi che si scontrano e che se lo stanno contendendo. In alto vediamo quattro personaggi: quello al centro, con il cappello rosso, è Niccolò Piccinino, il comandante dell’esercito milanese. Era di Perugia ed era un cosiddetto capitano di ventura, ovvero un condottiero che combatteva non per la propria patria, ma per lo Stato che gli offriva un posto di comando a pagamento, in sostanza un mercenario che vendeva i propri servizi al miglior offerente. All’epoca Piccinino lavorava per il ducato di Milano. Quello a sinistra, vicino a lui, è suo figlio, Francesco Piccinino, anche lui mercenario come il padre, mentre invece i personaggi che notiamo a destra sono Pietro Giampaolo Orsini, il comandante dei fiorentini, e Ludovico Scarampo Mezzarota, comandante delle truppe dello Stato Pontificio che era all’epoca alleato dei fiorentini.

Vorrei che ci concentrassimo sulle espressioni di questi personaggi. Guardate l’urlo di Niccolò Piccinino, un urlo che lo rende feroce e brutale e che quasi deforma la sua faccia, e vedete anche lo sguardo cattivo, quasi bestiale, del figlio Francesco, che per giunta sta anche fuggendo cercando di portare via con sé lo stendardo. E ancor più rabbiosa è la lotta dei due personaggi che si stanno azzuffando in modo furibondo sotto i cavalli: la loro furia cieca fa sì che non badino neppure al pericolo che stanno correndo a rimanere sotto le zampe dei cavalli. Quello sopra sta combattendo a mani nude, vediamo che si appresta a trafiggere solo con le dita gli occhi dell’avversario: per capire il perché di questo particolare è bene conoscere un dettaglio della storia. Dobbiamo dunque sapere che Niccolò Piccinino, quando andava in guerra, si portava dietro una soldataglia che le fonti storiche ci descrivono come un gruppo di soldati rozzi, animaleschi, sbandati che saccheggiavano i borghi in cui si imbattevano, rubavano e stupravano. Ecco, mentre questa gentaglia si avvicinava ai luoghi della battaglia, succedeva che reclutasse tutti gli uomini che trovava lungo la strada, uomini che erano per lo più contadini o comunque persone povere che venivano assoldate con l’unica promessa della spartizione del bottino derivante da un’eventuale vittoria, e queste persone, nella speranza di aumentare leggermente il loro status economico, si univano a questo orrendo esercito, e il più delle volte erano non soltanto persone prive di qualsiasi esperienza o preparazione militare, ma addirittura erano persone che andavano in battaglia senza armi, perché non le avevano, e appunto combattevano a mani nude: ecco quindi il perché di questo particolare che Leonardo inserisce nella sua opera. Ma nell’opera di Leonardo c’è anche un’altra espressione degna di menzione, l’espressione dei due cavalli: hanno lo sguardo timoroso, anzi spaventato, e non importa che un cavallo appartenga ai milanesi e l’altro cavallo appartenga ai fiorentini. Hanno entrambi paura della feroce lotta degli uomini.

A quel tempo, agli inizi del Cinquecento, epoca in cui la nostra penisola era sconvolta dalle cosiddette “Guerre d’Italia”, la guerra faceva parte della realtà di tutti i giorni, era vissuta come parte del quotidiano, ma nonostante ciò Leonardo aveva avuto, con questo dipinto, il coraggio di denunciare l’atrocità, la brutalità e la stupidità della guerra, attraverso le espressioni e le pose degli uomini che nella guerra si privano della loro dignità di esseri umani, ma anche nelle espressioni dei cavalli: sono espressioni di condanna, i cavalli hanno paura, a dimostrare che anche gli animali rifiutano la guerra, e si dimostrano in questo caso di gran lunga superiori agli esseri umani. Non è un’interpretazione campata in aria o piegata a fini ideologici, perché Leonardo da Vinci era davvero contrario alla guerra: nel suo Trattato della Pittura, nel suggerire come comporre le scene di battaglie, Leonardo da Vinci dà questa definizione della guerra: “pazzia bestialissima”. Per Leonardo, la guerra è una “pazzia bestialissima”, lontana dunque dalla ragione, e che fa somigliare gli esseri umani più a bestie che a uomini, e anzi li rende addirittura inferiori alle bestie, come emerge dalla lettura delle figure del dipinto. Ecco quindi che l’arte diventa allo stesso tempo un modo per raccontare un fatto veramente accaduto, la battaglia di Anghiari, ma diventa anche strumento per veicolare un’idea, quella dell’avversione nei confronti della guerra, ed ecco quindi che un’opera, nonostante sia stata realizzata ben cinquecento anni fa, è ancora di fortissima e stringente attualità.

Questo nostro viaggio si conclude a Firenze, e termina di fronte a quella che per molti è la più alta espressione dell’arte di tutti i tempi, una delle opere più famose della storia ma anche una di quelle più maltrattate e banalizzate: il David di Michelangelo. E in questa altissima espressione dell’arte c’è anche molta Carrara, perché il David di Michelangelo è stato realizzato con il marmo cavato dalle nostre montagne. Un’opera che oggi ammiriamo sia per l’eccezionale abilità tecnica con cui Michelangelo la eseguì, perché riuscì a scolpirla da un blocco di marmo molto difficile, già sbozzato, di fronte al quale si erano arresi altri grandissimi artisti a cui il lavoro era stato commissionato, come Agostino di Duccio e Antonio Rossellino, e sia per la sua incommensurabile bellezza, per questa sua rappresentazione ideale del corpo umano: basti pensare che, nel 1564, durante l’orazione che si tenne in occasione del funerale di Michelangelo, uno dei più grandi intellettuali dell’epoca, Benedetto Varchi, disse che il David di Michelangelo aveva superato ogni scultura della Roma antica. Per comprendere la portata di questa frase, di questo complimento, bisogna ricordare che a quel tempo, nel Cinquecento, le opere della Roma antica erano viste come il modello supremo dell’arte, come le opere della perfezione mai più raggiunta, che gli artisti potevano soltanto imitare.

Bene, Michelangelo realizzò il suo David tra il 1501 e il 1504. Ricordavamo prima che i Medici, i signori che da decenni, di fatto, governavano Firenze, erano stati cacciati dalla città: siamo per l’esattezza nel 1494, e i fiorentini avevano proclamato la Repubblica. Michelangelo, che era un convinto repubblicano, uno dei repubblicani più accesi di Firenze, non poteva tirarsi indietro di fronte al compito di realizzare un’opera che doveva avere una altissima valenza simbolica: rappresentare, cioè, i valori della Repubblica di Firenze. Conosciamo la storia di re Davide, personaggio biblico che con la forza dell’astuzia e con solo una fionda, aveva ucciso Golia, l’enorme capo dei filistei che minacciavano gli ebrei. Il David di Michelangelo è quindi simbolo di una lotta che pur partendo dal basso, pur partendo molto svantaggiata, e pur potendo contare su poco a sua disposizione, può comunque abbattere un nemico molto più forte e potente. Il David di Michelangelo è simbolo della libertà che abbatte la tirannia, è simbolo della libertà che sfida i prepotenti e gli oppressori e riesce a vincerli, è simbolo della giustizia, dell’onestà e in sostanza delle buone virtù che trionfano sull’iniquità, sulla disonestà, sull’ingiustizia. Questi sono i sentimenti che il David deve ispirare, questi i significati di un’opera che, svestiti i suoi panni di opera di significato religioso, diventa invece un’opera dall’altissimo significato civile: coraggio, giustizia, libertà. L’utilità della storia dell’arte pertanto sta, in questo caso, nella sua capacità di condividere questi importanti valori universali. E questo malgrado le banalizzazioni che il David ha subito, lo vediamo ormai ovunque, anche in riproduzioni dozzinali che affollano finanche i supermercati. E questo proprio perché spesso l’atteggiamento di molti nei confronti della storia dell’arte è quello dell’adorazione acritica: in tanti fanno le code davanti ai musei non per ricavare valori dalle opere d’arte, ma per dire “io c’ero”, per vedere e in certi casi proprio per adorare, lo dico perché vado spesso nei musei e noto qual è l’approccio di molti nei confronti delle opere... per adorare quella determinata opera d’arte che vedono ovunque, su libri, magliette, matite, confezioni di pasta, insomma dove volete voi, spesso senza capire neanche che cosa hanno di fronte a loro. Qualche giorno fa, in un articolo pubblicato su Repubblica, il direttore degli Uffizi, Antonio Natali, parlando dei grandi maestri del Rinascimento fiorentino le cui opere sono conservate agli Uffizi, scriveva queste parole: “se vogliamo essere eredi di quei padri grandi, non limitiamoci a venerarne le reliquie, cerchiamo semmai di emularne alcune virtù; l’inventiva, per esempio, la spregiudicatezza e la cultura”. E a questo che deve servire la storia dell’arte: a fornire un esempio per tutti noi, a emozionare, a trasmettere valori, a raccontare il passato, a rappresentare un ideale. Ed è per questo che una città che non protegge la propria cultura ma anzi, al contrario, la svilisce e la mortifica, e credo che Carrara sia un esempio lampante e chiaro a tutti in tal senso, è una città che insulta se stessa, è una città che offende i cittadini che la abitano, è una città che commette un immane torto nei confronti delle generazioni che ci hanno preceduto, ed è una città che ruba il futuro alle generazioni che verranno. Se una città non protegge la propria cultura e le proprie testimonianze artistiche, è un po’ come se buttasse via un pezzo di se stessa, e ritengo che non ci sia miglior esempio, ahinoi, della nostra Carrara, che affida la propria cultura all’azienda comunale che si occupa dello smaltimento dei rifiuti: credo che questa sorta di metafora involontaria sia la più calzante per far comprendere qual è la considerazione che Carrara nutre nei confronti dell’arte e della cultura. E una città che maltratta le proprie testimonianze artistiche è una città che ovviamente riduce la possibilità, per i propri cittadini, di formare il proprio senso civico, di pensare con la propria testa, di vivere in un luogo in cui non ci siano disuguaglianze, dove ci sia concordia e rispetto reciproco tra i cittadini, dove manchino le prevaricazioni: perché è a tutto questo che serve l’arte, dato che i valori universali condivisi dall’arte, di cui tanto abbiamo discusso durante questo intervento, hanno proprio lo scopo di renderci persone che pensano con la propria testa e che agiscono di conseguenza. La parola “politica” deriva dal greco “polis”, che significa “città”, e quindi letteralmente politica significa “occuparsi della città”: se dunque vogliamo una politica attenta ai cittadini e una politica che sia in grado di assolvere in modo esemplare e lodevole al proprio compito, dobbiamo noi stessi occuparci della nostra città, iniziando proprio dal patrimonio culturale e artistico, che come detto costituisce testimonianza storica di quello che i nostri antenati ci hanno lasciato, insieme di valori da condividere e da seguire nel presente, nonché modo di guardare al futuro. Una volta che ci saremo resi conto, dunque, di quanto sia importante la storia dell’arte, non potremo che concordare con un importante critico d’arte francese, che visse nel Settecento, e che si chiamava Étienne La Font de Saint-Yenne: questo critico d’arte, nel 1754, in una sua opera, si faceva una domanda retorica, che però secondo me racchiude qual è il senso dell’arte, e della storia dell’arte. La domanda è: “non siete d’accordo sul fatto che la pittura è stata inventata sia per il piacere, che per l’utilità?”. Non penso sia un azzardo dire che possiamo essere veramente d’accordo con lui. Grazie a tutti!


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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