La Fontana dei Putti di Pisa, dalla demolizione a Lupin III e Instagram


La Fontana dei Putti di piazza del Duomo a Pisa, opera di Giovanni Antonio Cybei e Giuseppe Vaccà, sta conoscendo un'incredibile fortuna grazie... a Instagram.

La mode se démode, le style jamais!”, così recita un celebre adagio, attribuito a Coco Chanel, ma che sembra tagliato su misura per aderire a certe consuetudini, assai ricorrenti nel mondo dell’arte; oggi lo prendiamo in prestito per descrivere una vicenda esemplare, quella della Fontana dei Putti nella piazza del Duomo a Pisa, disprezzata a lungo da pubblico e critica, e che gode oggi di una inaspettata popolarità.

Che il gusto muti, e che questo continuo cambiamento non riguardi solo il taglio dei cappotti ma anche le alterne fortune di interi movimenti e correnti artistiche, è ormai risaputo; raramente tuttavia ci si sofferma a riflettere sulle conseguenze di questo incessante fluttuare sul nostro paesaggio urbano. Quasi in ogni epoca ci si è disfatti senza troppe remore di opere il cui gusto veniva percepito come superato, inadeguato, antiquato, se non esplicitamente scorretto, sbagliato, cattivo, e si è provveduto all’adeguamento, o più spesso alla rimozione, demolizione e sostituzione di manufatti artistici o intere architetture senza troppe esitazioni.

Quando poi l’arte si trova ad attraversare epoche turbolente, con terremoti sociali e repentini cambi di regime… guai ai vinti, anche a quelli in marmo! Divinità pagane e antichi filosofi? Perfetti per la cottura nelle calcinare romane (sembra che quelli in marmo greco dessero la calce di qualità migliore). Ingombranti stemmi nobiliari su altari e portali? Via con lo scalpello rivoluzionario pronto a “cassarli”, secondo usanze ancora in gran voga, che vedono scomparire monumenti sovietici, statue di generali unionisti in USA, fino ad arrivare ai vandalismi dell’ISIS o alla discussione sulla rimozione di qualche “DUX” superstite.

Alla fine del XVIII secolo, al crollo dell’ancien régime, e alla scomparsa delle parrucche bianche e delle fibbie sulle scarpe, si accompagna un mutamento di gusto, palesemente politico, che da un lato promuove il nascente “neoclassicismo” e dall’altro condanna senza appello l’arte del settecento. A farne le spese non sono solo le tendenze apertamente anticlassiche della prima metà del secolo, presto etichettate con il termine dispregiativo “Rococò”, ma anche l’esteso e importante fenomeno del “classicismo” settecentesco, condannato a una damnatio memoriae suggellata dalle tombali parole del conte Leopoldo Cicognara: “L’architettura e la scultura erano ancora inceppate nelle cattive abitudini, e non si videro opere che annunziassero in alcuna maniera il loro prossimo risorgimento” (1824).

La Fontana dei Putti, nella piazza del Duomo di Pisa, ha avuto la sfortuna di “esordire” (nel 1765) proprio alla soglia di un periodo di grandi cambiamenti; il monumentale gruppo scultoreo, con i tre colossali putti a reggere le armi della primaziale e della città, è figlio di una cultura figurativa squisitamente settecentesca, assai spregiudicata, amante dell’asimmetria, in definitiva anti-classica, portata all’estrema conseguenza di una composizione in moto perpetuo e squisitamente decorativa. Lo stesso autore del gruppo, Giovanni Antonio Cybei, appena tre anni più tardi, si sarebbe espresso con una poetica completamente differente, archeologizzante e aulica, nel monumento funebre di Francesco Algarotti, a poche decine di metri di distanza nel Camposanto Monumentale.

Giovanni Antonio Cybei e Giuseppe Vaccà, Fontana dei Putti
Giovanni Antonio Cybei e Giuseppe Vaccà, Fontana dei Putti (1746-1765; marmo; Pisa, Piazza del Duomo)

Una fontana esisteva nella piazza già dal 1659, senza ornamenti particolari, ma si deve allo zelo dell’Operaio dell’Opera Francesco Quarantotti, in carica dal 1729, la realizzazione della struttura attuale in una posizione tanto strategica, “nell’angolo di strada lastricata che va alla chiesa”. La prima fase dell’opera, conclusa nel 1746, prevedeva l’erezione di un basamento e della fontana vera e propria, la cui realizzazione fu affidata al carrarese Giuseppe Vaccà; il buon livello dell’esecuzione non maschera tuttavia il repertorio assai datato, con richiami al manierismo e una tendenza neo cinquecentesca di gusto tipicamente fiorentino. Per la parte superiore si decise di completare il lavoro con la realizzazione di un più ambizioso gruppo in marmo, e questa volta fu l’operaio Anton Francesco Maria Quarantotti, succeduto al padre nella carica, a stringere accordi con il solito Vaccà per la fornitura della scultura (1763). L’incarico era però al di sopra delle possibilità del carrarese o della sua bottega, ed egli dovette accontentarsi del ruolo di imprenditore, accettando di lavorare su un disegno preparato da Giovanni Battista Tempesti, e non potendo che affidare a un artista di grande esperienza, Giovanni Antonio Cybei, la traduzione plastica dello stesso e la sua realizzazione in marmo.

L’impostazione spavalda dell’opera, inaugurata nel 1765, è quindi frutto di un dialogo artistico tra pittore (il Tempesti autore di un primo, perduto disegno) e scultore (il Cybei, autore del modello conservato nella Primaziale, con sostanziali modifiche rispetto al disegno, e del marmo); il suo vorticoso, continuo e movimentato ritmo, senza un punto di vista privilegiato, l’architettura interamente antropomorfa, il gigantismo delle figure, dovevano in un certo senso disorientare lo spettatore, e nonostante l’apprezzamento iniziale, le critiche non tardarono ad arrivare. Il primo giudizio scritto, arrivato fino a noi, è del 1767, quando Filippo D’Angelo, autore di una Memoria del Duomo manoscritta, ne etichetta l’autore come “un pessimo statuario”.

Giovanni Antonio Cybei e Giuseppe Vaccà, Fontana dei Putti, vista anteriore
Giovanni Antonio Cybei e Giuseppe Vaccà, Fontana dei Putti, vista anteriore. Ph. Credit Luca Aless.


Giovanni Antonio Cybei e Giuseppe Vaccà, Fontana dei Putti, vista posteriore
Giovanni Antonio Cybei e Giuseppe Vaccà, Fontana dei Putti, vista posteriore. Ph. Credit Jordi Ferrer.


Il modello della fontana
Il modello della fontana

Pochi anni più tardi (1787-1793) usciva una di quelle opere che lo Schlosser catalogava ne La Letteratura dei Ciceroni, guide turistiche, certo erudite, ma tenute in considerazione di fonti primarie fino a tempi recenti: Pisa Illustrata nelle Arti del Disegno, di Alessandro Da Morrona. Negli anni di Canova e della Rivoluzione Francese difficilmente si poteva concepire un giudizio positivo sui putti del Cybei, e il Da Morrona, elegantemente lapidario, trattava il gruppo scultoreo con la più completa indifferenza: “… lasciata la fontana diricontro, priva di merito, se la materia, ed il lavoro nella base si eccettua… ”. Al limite salviamo il bel marmo insomma, o il lavoro del basamento, la fontana vera e propria, eseguita da maestranze carraresi qualche anno prima.

Quanti visitatori avranno passeggiato per la “Piazza dei Miracoli” con questo libello in mano, volgendo uno sguardo di biasimo verso i poveri, ciclopici, seminudi fanciulli in marmo? Raramente però si lascia in piazza un’opera che sia “vituperio delle genti”, e non mancano quasi mai dei solerti cittadini, paladini del decoro pubblico, che non siano pronti a passare all’azione riparatrice.

Il primo a prendere l’iniziativa fu tale Girolamo Marconi, scultore pisano passato alla storia per essere stato l’unico, tra gli incaricati per la realizzazione delle statue degli “Uomini Illustri” destinate agli Uffizi, a cui sia stato revocato il lavoro dopo vari bozzetti respinti; l’idea era di sostituire gruppo e fonte con una bella statua di San Ranieri, e un sobrio basamento con lo stemma cittadino. Il bozzetto venne presentato nel 1842, e il progetto ricevette approvazione e apprezzamenti, ma senza tradursi in nulla di concreto; forse non si era ben calcolato il costo per smantellare un’opera di queste dimensioni, chissà.

Un paio di decenni più tardi, nel clima di entusiasmo seguito all’unificazione nazionale, negli anni dal “piccone facile” di Firenze capitale, a Pisa sorse l’Associazione per gli abbellimenti della piazza del Duomo, che tra i vari interventi prevedeva, inesorabile, la “Remozione del gruppo dei tre Putti”, giudicato “opera di poco conto”, e la sua sostituzione con la statua del buon Buscheto, architetto del Duomo. Il nobile intento di ristabilire l’italico verbo neo-medioevale tanto in voga al tempo, non portò ad alcun risultato nemmeno questa volta, e per un nuovo tentativo di abbattere il gruppo si dovrà aspettare l’arrivo del nuovo Arcivescovo, il lombardo Pietro Maffi, giunto nell’arcidiocesi pisana nel 1905; ma il nuovo secolo era iniziato, e i tempi destinati a cambiare. L’intenzione era quella di innalzare un monumento a Galileo Galilei, idea a dire il vero assai curiosa per un uomo di chiesa, ma non per il Maffi, appassionato astronomo, presidente della Specola Vaticana, e già autore di un volume di Astronomia Popolare. Per aggirare l’annosa questione dei costi elevati, egli proponeva la rimozione del solo gruppo scultoreo, optando per il riutilizzo della sottostante fontana. Il progetto, reso pubblico nel 1906, fu sommerso dalle critiche, e per la prima volta qualche timida voce si alzò anche a difesa dei Tre Putti, come elemento ormai storicizzato; il Maffi, nel frattempo divenuto cardinale, tornò all’attacco una seconda volta nel 1922, forse sperando nell’appoggio del regime (d’altronde era autore di un celebre discorso filonazionalista, pubblicato con un titolo illuminante: Per il trionfo delle nostre armi) e ripiegando sulla creazione ex-novo di un monumento al Galilei, “simmetrico alla fonte e come questa, all’inizio di una via e introduzione al prato”. Il Maffi sembrava molto deciso questa volta, ed invitò lo scultore genovese Antonio Bozzano, insegnante nella scuola d’arte di Pietrasanta, ad eseguire un bozzetto per l’opera, attirando su di se il sospetto che si volesse prima realizzare l’opera in marmo, per poi proporne la sistemazione sulla fontana per evitare la spesa di un nuovo basamento. A salvare definitivamente la Fontana dei Putti, fu la non-elezione al soglio pontificio dello stesso cardinal Maffi, tra i papabili nel Concilio del 1922 che vide salire al soglio pontificio l’arcivescovo di Milano Achille Ratti (Pio XI). Con un progetto sostenuto da un pontefice, sarebbe stata la fine per il gruppo del Cybei, per il quale si chiudeva un secolo di insidie; i Tre Putti avevano finalmente guadagnato il loro posto tra i monumenti della piazza.

Cominciava l’epoca della rivalutazione, per un’opera fino a quel momento così osteggiata; rivalutazione che non sarebbe nata considerazioni accademiche o della critica, ma avrebbe avuto un carattere spontaneo, naturale e, perché no, popolare. Primo veicolo di questo nuovo gradimento fu la cartolina postale, il nuovo rivoluzionario formato che spopola in Italia dalla fine dell’ottocento per circa un secolo; alla più classica visuale della Piazza dei Miracoli, ripresa all’incirca dalla Porta Nuova, che racchiude Battistero Duomo e Torre escludendo la fontana, si affiancano presto decine di immagini che includono la fontana, spesso usata come contraltare per il campanile, e il moltiplicarsi di tali inquadrature indica un certo apprezzamento da parte del pubblico, che evidentemente le compra e le spedisce. Qualche raro esemplare eleva la fontana al rango di soggetto, episodi limitati, ma nei decenni, migliaia e migliaia di questi souvenir girano il mondo contribuendo, poco alla volta, a fare entrare la fontana nell’immaginario collettivo, come elemento imprescindibile del paesaggio urbano della Piazza dei Miracoli.

Il vero e proprio trionfo dei Tre Putti, il ribaltamento completo rispetto all’antica volontà di cancellarli dal panorama, arriva infine nella stretta contemporaneità, negli anni della rivoluzione tecnologica, The Age of the Image (rubo la definizione a un discusso saggio di Stephen Apkon del 2013), l’epoca in cui l’immagine diventa un linguaggio di massa grazie alla tecnologia. Il proliferare degli Smartphone, muniti di fotocamere sempre più sofisticate, e l’immediatezza nella condivisione sui social-network, ha portato a una crescita esponenziale nel numero di fotografie scattate ogni anno nel mondo, cifra più che raddoppiata negli ultimi quattro anni, fino a superare largamente la spaventosa cifra del trilione, numeri che hanno più zeri di un codice IBAN (per la precisione 18).

In questo nuovo contesto tutti diventiamo creatori di immagini, comunichiamo con mezzi prettamente visivi, e se sono più di tre milioni i visitatori che ogni anni salgono sulla Torre di Pisa, possiamo farci un’idea di quanti scatti siano quotidianamente dedicati alle più classiche inquadrature nella Piazza dei Miracoli; e allora basta una ricerca su Instagram, ma anche su Google, Facebook, Tumblr… per toccare con mano la nuova popolarità del gruppo del Cybei. Se a prevalere sono gli infiniti modi nei quali il turista può giocare con la prospettiva della “Leaning Tower” a debita distanza, le vedute che comprendono la fontana sembrano seconde solo ai selfie dei reggi-torre; al di la della consistenza numerica del fenomeno, che ci sembra inutile voler quantificare con esattezza, il dato sulla enorme popolarità dell’opera è lampante. La presenza nell’inquadratura della fontana, non sembra una presenza casuale, ma una scelta funzionale, riconoscendo al gruppo il valore di quinta scenografica, di riferimento visivo, di punto focale sul quale far convergere le prospettive dei più noti monumenti. Il pubblico esplora spontaneamente le possibilità offerte dai diversi punti di vista, esaltati nel movimento continuo dei grandi putti, palesando un carattere estremamente moderno, in definitiva geniale, quasi visionario dell’opera, nel suo rapportarsi in maniera dialettica, ma mai statica, con i monumenti circostanti. Ed ecco che tutto diventa gioco, non dissacrante come la posa reggi-torre, ma comunque ludico, considerando il divertimento con cui gli improvvisati (o non) fotografi giovano sui rapporti di luce ed ombra, sull’esaltare o meno i contrasti, sulle relazioni del gruppo con la torre o sulla celebre inquadratura con cupola e campanile, chi chiude la composizione inquadrando anche il battistero… nell’epoca delle immagini Cybei ci parla in un linguaggio che ottiene comprensione universale e spontanea. Questo fiorire continuo di immagini comincia anche a riflettersi anche al di fuori del web, nei contesti più disparati, radicando sempre di più i Tre Putti nell’immaginario collettivo contemporaneo.

Nel 2015 viene trasmessa per la prima volta la quarta serie animata dedicata al mitico “ladro gentiluomo” Lupin III, derivata dal Manga del fumettista giapponese Monkey Punch, a sua volta ispirato ai racconti di Maurice Leblanc: Lupin III - l’Avventura Italiana. Rispolverata la mitica Fiat 500 gialla usata nel 1979 per il lungometraggio Il Castello di Cagliostro (non a caso diretto da Hayao Miyazaki, grande appassionato dell’Italia) Lupin tornava nella penisola per una serie intera, in ventisei episodi, con una vicenda che alla fine vedrà protagonista niente di meno che Leonardo da Vinci in persona; la sigla iniziale era dedicata a una lunga carrellata tra i luoghi comuni del turismo in Italia, dalla scalinata di Trinità dei Monti, a un canale di Venezia, la Rocca di San Marino, il Panorama di Firenze da piazzale Michelangelo, e una bella inquadratura della Torre Pendente… con la Fontana dei Putti in bella evidenza a farle da contraltare, ripetuta ovviamente all’inizio di ogni episodio. A dire il vero non si trattava della prima avventura di Lupin ambientata a Pisa: già nella seconda serie, l’episodio La Fabbrica del Terremoto (1977, alla tv italiana nel 1981) raccontava dello “scienziato pazzo” di turno e del suo ricattare il governo con la minaccia di un terremoto artificiale, il cui bersaglio sarebbe stata la città di Pisa e il suo celebre campanile pendente (non per niente nella versione in lingua inglese l’episodio si intitolava Shaky Pisa). In quel caso però, la fontana era magicamente sparita dalla visuale della piazza, come se fosse stata invisibile, un atteggiamento diametralmente opposto a quello tenuto dai disegnatori della nuova serie.

Per concludere questa carrellata sulla nuova popolarità dei Putti del Cybei, ci addentriamo in un luogo alquanto insolito per parlare di arte, un vero tempio della cultura popolare: un mega market “cinese”. Proprio qui, tra il labirinto di corsie in cui secondo la leggenda “c’è tutto”, si misura il gusto della massa, si toccano con mano gli orientamenti, anche estetici, di quello che un tempo si chiamava “l’uomo della strada”, e ci si imbatte ancora una volta, in maniera del tutto inaspettata, nell’immagine ormai iconica dei nostri Tre Putti.

Una recente (e molto diffusa) serie di buste regalo in carta, Made In P.R.C., è dedicata alle principali mete turistiche europee, e se sul sacchetto con la scritta GB troverete l’immancabile Big Ben, e sotto un FRA a lettere capitali troneggia l’inconfondibile sagoma della Tour Eiffel, la busta dedicata al nostro paese, ITA, è rallegrata da una accoppiata vincente Torre di Pisa/Fontana dei Putti, ormai un vero e proprio must. Per la solita serie anche altri temi dedicati al viaggio, con frasi evocative (“When I think of you the miles between us disappear”), timbri postali da tutto il mondo, francobolli americani, cabine del telefono inglesi…e l’immancabile cartolina da Pisa con il bianco dei Putti e della torre a scagliarsi sul cielo di un blu irreale.

Cartoline di Pisa con la Fontana dei Putti
Cartoline di Pisa con la Fontana dei Putti


La Fontana dei Putti in una foto su Instagram
La Fontana dei Putti in una foto su Instagram


Collage con foto della fontana tratte da Instagram
Collage con foto della fontana tratte da Instagram


La Fontana dei Putti in Lupin III
La Fontana dei Putti in Lupin III


I pacchi regalo con la fontana
I pacchi regalo con la fontana

Siamo arrivati al paradosso di un’opera che, dopo aver rischiato la demolizione ed essere stata ricoperta di insulti, arriva a simboleggiare l’Italia sui sacchetti-ricordo, nelle sigle dei cartoni animati, e al caso forse unico, di una rivalutazione che non passa dalle parole di un critico, dalle immagini di un film, dalle pagine di un libro, da qualche forma “alta” di cultura insomma, ma viene dal “basso”, dalle cartoline illustrate da Instagram e dalle fotocamere degli smartphone.

Anche la vicenda attributiva ha avuto una storia complicata, riflesso delle alterne fortune di questa tormentata scultura. Nonostante la fondamentale testimonianza di un autore rispettato e serissimo come Girolamo Tiraboschi, che già nel 1786, in una sua fondamentale biografia del Cybei, elencava tra le sue opere “I tre putti nella piazza del Duomo di Pisa”, il nome dell’autore del gruppo si era perso nel tempo, abbandonato all’oblio e alla dimenticanza fino a tempo recentissimi. Le parole del Tiraboschi erano state riprese anche dal marchese Giovanni Campori (1873) e dal Conte Giovanni Lazzoni (1880), ma la paternità dell’opera rimase anonima molto a lungo, e finì per essere ricondotta unicamente all’autore del basamento, perlomeno dalla Guida di Pisa del Bellini Pietri (1913) e dal saggio di Giorgio Castelfranco del 1931, La Fontana di G. Vaccà in Piazza del Duomo a Pisa, in entrambi i casi con una grande confusione sulle date. Nel 1990 poi, l’autorevole voce del professor Paolo Roberto Ciardi sembrava aver chiuso la questione, con la pubblicazione del contratto stipulato nel 1763 tra l’Operaio Quarantotti e Giuseppe Vaccà, da quel momento riconosciuto ufficialmente come autore dei Tre Putti. Sul finire degli anni ’90, il ritrovamento di un autografo del Cybei, nel quale egli raccontava di avere eseguito il gruppo per la fontana pisana, rimise tutto in discussione.

Immaginate come lo scrivente, allora studente dell’Università di Pisa, si sia sentito nel dover presentare allo stimatissimo (e temutissimo) professor Ciardi, una tesi di laurea in cui si confutava una sua tesi, contestando addirittura un documento antico...ma questa è un’altra storia, e fa parte della lunga e non ancora conclusa opera di rivalutazione, riscoperta e conoscenza dell’opera di Giovanni Antonio Cybei, l’artista dimenticato, il “Fantasma della Scultura”.

Bibliografia di riferimento

  • Marco Frati, La Piazza del Duomo di Pisa. Un millennio di miracoli in Antonino Caleca (a cura di), Il Duomo di Pisa, Pacini Editore, Pisa, 2014
  • Stephen Apkon, The Age of the Image. Redefininig Literacy in a World of Screens, Farrar, Straus and Giroux, New York, 2013
  • Stefano Renzoni, Giovanni Battista Tempesti pittore pisano del Settecento, Tesi di dottorato di ricerca, Università di Pisa, Storia delle arti visive de dello spettacolo, Pisa, 2012
  • Stefano Renzoni, Non omnis moriar. La Scultura ai tempi dei Lorena, in Romano Paolo Coppini, Alessandro Tosi (a cura di), Sovrani nel Giardino d’Europa. Pisa e i Lorena, catalogo della mostra (Pisa, Palazzo Reale, 10 maggio – 20 luglio 2008), Pacini Editore, Pisa, 2008
  • Andrea Fusani, Dal Choro alla Bottega. Nuove acquisizioni su Giovanni Antonio Cybei, in Commentari d’Arte, 14, Anno V – 1999, Roma, 2003
  • Mario Noferi, La Fontana dei Putti della Piazza del Duomo di Pisa, Felici Editore, Pisa, 2001
  • Andrea Fusani, Lo Studio e l’Accademia. Giovanni Antonio Cybei e la Carrara del settecento, Tesi di Laurea, Università di Pisa, Corso di Laurea in Conservazione dei Beni Culturali, a.a. 2000/2001
  • Roberto Paolo Ciardi, La seconda metà del secolo, in Roberto Paolo Ciardi (a cura di), Settecento pisano: pittura e scultura a Pisa nel secolo XVII, Cassa di Risparmio di Pisa, Pisa, 1990
  • Stella Rudolph, voce Cybei, Giovanni Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol.31, Istituto Treccani, Roma, 1985
  • Giorgio Castelfranco, La Fontana di G. Vaccà in Piazza del Duomo a Pisa, in Rivista d’Arte, XIII, Firenze, 1931
  • Augusto Bellini Pietri, Guida di Pisa, Pisa, 1913
  • Carlo Lazzoni, Carrara e le sue ville, Tipografia Drovandi, Carrara, 1880
  • Giuseppe Campori, Memorie biografiche degli scultori, architetti, pittori, ecc, nativi di Carrara e d’altri luoghi della provincia di Massa, Tipografia Vincenzi, Modena, 1873
  • Alessandro Da Morrona, Pisa Illustrata nelle arti del disegno, Livorno, 1812
  • Girolamo Tiraboschi, Notizie de’pittori, scultori, incisori, architetti nati negli stati del Duca di Modena, Modena, 1786

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