“Ecco come Ferrara e Bologna si sovrappongono nel Rinascimento”. Intervista a Vittorio Sgarbi


La mostra “Rinascimento a Ferrara” è una delle principali del 2023: una rassegna dalla quale emergono molti temi, primo tra tutti l’intreccio delle vicende ferraresi e di quelle bolognesi. Ne abbiamo parlato con Vittorio Sgarbi, curatore della mostra con Michele Danieli.

La mostra Rinascimento a Ferrara. Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa, a cura di Vittorio Sgarbi e Michele Danieli (a Ferrara, Palazzo dei Diamanti, dal 18 febbraio al 19 giugno 2023), è una delle più significative dell’anno, oltre che una delle più discusse. Molti i temi che emergono, primo tra tutti l’intreccio delle vicende ferraresi e di quelle bolognesi. Quale visione esprime questa mostra? Come è nata? Come si evolverà il progetto? Ne abbiamo parlato con Vittorio Sgarbi. Intervista di Federico Giannini.

Vittorio Sgarbi alla mostra Rinascimento a Ferrara. Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa
Vittorio Sgarbi alla mostra Rinascimento a Ferrara. Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa

FG. La mostra Rinascimento a Ferrara. Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa è una delle più importanti di quest’anno e non solo. Per cominciare ad approfondire alcuni temi rilevanti che emergono dalla rassegna inizierei proprio dal titolo: so che in sede d’organizzazione ne avete discusso a lungo, anche perché non si parla solo di Rinascimento a Ferrara, ma è una mostra in cui s’intrecciano vicende ferraresi e vicende bolognesi.

VS. Io ho aperto la strada al Rinascimento bolognese: è singolare che lo faccia da Ferrara, ma è inevitabile perché la metà delle opere che abbiamo esposto è di pittori ferraresi a Bologna. Da qui risultano due problemi: il primo, perché quella mostra e perché a Ferrara, a Palazzo dei Diamanti, il secondo è il titolo. La prima mostra, quella del 1933 voluta da Italo Balbo e da Renzo Ravenna, si chiamava “Esposizione della pittura ferrarese del Rinascimento”, un titolo forse più corretto del nostro. Ma un titolo poteva essere anche “Il Rinascimento a Ferrara”, ovvero tutto quello che di Rinascimento c’è a Ferrara. Poi poteva essere “Rinascimento di Ferrara”, ed è un’altra formula ancora, perché il complemento di specificazione vorrebbe significare un rinascimento che è nato lì e che si diffonde. Io ho scelto “Rinascimento a Ferrara”, perché la mostra avviene a Ferrara, però di fatto gran parte di quegli artisti non lavorano più a Ferrara, quindi lo stato in luogo che è nella parola “a” in realtà non corrisponde al fatto che la mostra fa arrivare opere da Bologna.

Abbiamo ricordato la grande mostra del 1933: in cosa questo progetto si differenzia da quello di novant’anni fa?

La mostra che non poteva essere una replica di quella di Nino Barbantini del 1933, commentata da Longhi con l’Officina Ferrarese del 1934 (anche se ho voluto far mettere a Palazzo dei Diamanti una lapide che dice che qui nacque l’Officina Ferrarese: ne farò mettere un’altra dicendo che qui l’arte contemporanea arrivò grazie a Franco Farina, quindi ricorderemo i due momenti importanti), perché ripeterla sarebbe stato improprio. Anche perché negli anni scorsi, tra le varie attività della Fondazione Ferrara Arte che io oggi presiedo, è stata fatta qualche mostra d’arte antica: Bononi, che ha avuto successo, e poi Cosmè Tura e Francesco del Cossa, che erano i due capifila del Rinascimento a Ferrara. Allora a questo punto ho voluto procedere per creare una mostra del Rinascimento che fosse articolata in un tempo di due o tre anni e che toccasse tutti gli artisti che non sono stati fatti in tempi moderni: il primo dopo Tura e Cossa è Ercole de’ Roberti e il secondo è Lorenzo Costa, quindi di fatto abbiamo coperto un buco di artisti che c’erano nella mostra di novant’anni fa, ma che non hanno mai avuto una monografica. E come Tura e Cossa l’hanno avuta nel 2007, oggi l’hanno avuta Ercole e Costa.

Un progetto di lungo termine dunque. Quali saranno i prossimi capitoli?

La prossima mostra sarà su Mazzolino e Ortolano, due maestri meravigliosi che nessuno ha mai visto, poi la terza sarà su Girolamo da Carpi, che è un grande pittore e architetto, in dialogo con maestri che hanno lavorato con lui e già però monografati (ovvero Garofalo e Dosso Dossi), e l’ultima sarà su Bastianino e Scarsellino, due grandi pittori anche loro mai monografati. Quindi si chiude un percorso che va dal 1471, quando Borso d’Este diventa duca di Ferrara, al 1598, quando gli Estensi vengono cacciati e vanno a Modena. Questo è il quadro: quattro tempi di Rinascimento a Ferrara con lo stesso titolo. In questa celebrazione maestosa e solenne della mia città non solo si rivaluta il Rinascimento, non solo si rivalutano la potenza degli estensi, ma si rivaluta anche l’arte degli Estensi: sono artisti formidabili ma dai nomi piccolini, perché nessuno conosce Mazzolino, Garofalo, Ortolano, Scarsellino, Bastianino: però sono molto importanti tanto che il mercato ha spesso premiato artisti come Dosso Dossi che poi hanno fatto cifre milionarie.

Allestimenti della mostra Rinascimento a Ferrara. Ercole de' Roberti e Lorenzo Costa
Allestimenti della mostra Rinascimento a Ferrara. Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa
Allestimenti della mostra Rinascimento a Ferrara. Ercole de' Roberti e Lorenzo Costa
Allestimenti della mostra Rinascimento a Ferrara. Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa

E come è nata quest’idea d’un progetto sul Rinascimento a Ferrara?

Sono state prese due occasioni. La prima è quella del restauro da me fortemente criticato, poi corretto con le mie linee guida, di Palazzo dei Diamanti: adesso tutti dicono che è bellissimo, ma prima c’era un gabbiotto che sarebbe stato attaccato con un prolungamento delle stanze nuove, tutte cose che ho fatto bocciare attraverso una raccolta di 60.000 firme di tutti i più grandi architetti e storici dell’arte, da Emiliani a Cervellati. Quindi li abbiamo messi nell’angolo e loro sono stati costretti a modificare l’intervento: così, corretto il restauro del palazzo, abbiamo avuto due anni in cui il palazzo doveva stare chiuso. Trattandosi di Palazzo dei Diamanti poteva riaprire con una mostra d’arte contemporanea perché lì, negli anni dal 1963 o al 1993, c’è stato il periodo in cui direttore delle Gallerie Civiche d’Arte Moderna è stato Franco Farina, famoso maestro che aveva fatto tutte le mostre d’arte contemporanea facendo sì che Ferrara, per quelli che erano della mia età, fosse la prima sede espositiva di arte contemporanea in Italia quando non c’era niente in quegli anni: non c’era Rivoli, non c’era il Pecci, non c’era Panza di Biumo, non c’era il Maxxi, non c’era il Madre, non c’era il Mambo. Quindi un miracolo: una piccola città che nel più bel palazzo del Rinascimento fa l’arte contemporanea. La seconda occasione è data dal fatto che a Palazzo dei Diamanti, al piano di sopra, c’è la Pinacoteca Nazionale nella quale non va quasi nessuno, perché c’è la scala, e la parte espositiva al piano di sotto è generalmente destinata all’arte contemporanea. Quindi noi abbiamo voluto fare la pittura del Rinascimento con omaggio a Roberto Longhi e con collegamento col piano di sopra, cosa che è stata realizzata di fatto con un biglietto unico. Da quando sono rientrato come sottosegretario poi ho l’idea di rendere Ferrara una città con i suoi musei autonomi, come avviene a Firenze con gli Uffizi, e separarla da Modena: la timidezza (o la distrazione) di Franceschini ha creato un paradosso, per cui ci sono le Gallerie Estensi con capofila la città di Modena, dove gli Estensi vanno dopo Ferrara. Allora Modena avrà i suoi musei e Ferrara avrà i suoi musei, che sono niente meno che il museo nel più bel palazzo del Rinascimento, ovvero la Pinacoteca Nazionale piena di capolavori ferraresi, il Museo di Spina che è il primo museo archeologico dell’Emilia Romagna e che si trova in un palazzo del Rinascimento, e Casa Romei, e quindi si andrebbe a creare un sistema di museo autonomo a Ferrara che dovrebbe iniziare quest’anno con le prossime nomine dei direttori. Quindi in questo processo è chiaro che occorreva creare una celebrazione per la riapertura del museo e l’autonomia della sua pinacoteca, con la pinacoteca a dialogare con la mostra.

Lei ha citato a più riprese Roberto Longhi, tanto da averlo anche omaggiato con una targa a Palazzo dei Diamanti. Bene: sono passati ottantanove anni dall’Officina Ferrarese di Longhi, che è uno scritto che tutti abbiamo letto e su cui tutti abbiamo studiato perché è ancora attualissimo per ricavare linee interpretative sul Rinascimento a Ferrara. Ci sono però secondo Lei delle parti su cui si potrebbero aprire delle nuove riflessioni oppure sviluppare delle nuove idee, nuove visioni a partire proprio da quel testo fondamentale?

Si prospetta una visione post-longhiana, o ultra-longhiana, che si sostanzia nell’includere i maestri ferraresi che Roberto Longhi, quando nel 1933 viene a Ferrara e l’anno dopo scrive l’Officina ferrarese, tende a escludere. Longhi faceva un percorso di rivalutazione dell’arte padana, considerando quella che è a Bologna e a Modena e poi arriva fino a Morandi come grande maestro bolognese (il più grande del Novecento), quella più lombarda che ha il suo capofila nel più grande pittore di tutti che è Caravaggio, e quella ferrarese che è un’enclave di pittori visionari, metafisici e surrealisti che abbiamo visto in questa bellissima mostra, però non consente, o non valorizza, un Rinascimento a Bologna. Io da anni lavoro a questo progetto. Certo, fare a Ferrara il Rinascimento a Bologna è un controsenso, e farlo a Bologna avrebbe senso ma sarebbe fatto in gran parte di ferraresi. Di fatto io l’ho proposto a Fabio Roversi Monaco [ndr: presidente della Fondazione Genus Bononiae] dopo la mia mostra, criticatissima ma bellissima, Da Cimabue a Morandi fatta in omaggio a Longhi (mentre Rinascimento a Ferrara l’ho resa di omaggio a Carlo Volpe che è l’allievo di Longhi che ha studiato i ferraresi a Bologna). All’epoca però nacque una polemica con le firme, contro di me, di una quantità di invidiosi della mostra che s’inventarono che io avevo spostato l’Estasi di santa Cecilia di Raffaello dal museo dove si trova e dove non va tradizionalmente nessuno, cioè la Pinacoteca Nazionale di Bologna, a Palazzo Fava, un’istituzione della Fondazione Genus Bononiae: tutto falso, perché è vero che al centro della mostra c’era il capolavoro di Raffaello che cambia la storia dell’arte emiliana nel 1515, l’Estasi di santa Cecilia, ma è anche vero che l’aveva prestata Luigi Ficacci, all’epoca soprintendente, d’accordo con Roversi Monaco, presidente della fondazione, e ovviamente io non è che mi mettevo contro. Sembra che però sia stato soltanto io ad aver spostato l’opera di 800 metri. E poi tra l’altro quell’opera è andata a Madrid e nessuno ha detto niente. Io adesso quelli lì li odio, perché attribuiscono a me una colpa che io non ho, e hanno cercato di sputtanare una mostra bellissima. Io a quel punto mi trovo a essere il parafulmine di una cosa che non mi riguarda e li mando a cagare: quella mostra era molto bella, ha avuto poi 100.000 visitatori ma è partita con la macchia, con il peccato originale dello spostamento di Raffaello, per spostarlo da un museo dove non va nessuno e per un accordo che ha fatto senza di me Roversi Monaco con Ficacci. Questa è la storia vera. Se tu sei il capo del soggetto che organizza la mostra e il prestito è ottenuto dal soprintendente, perché devo pagarla io? Tutti hanno raccolto le firme contro di me, ma poi la mostra ha avuto successo anche perché era piena di opere bellissime e rare. Alcuni di loro tra l’altro dopo hanno firmato dalla mia parte per non distruggere Palazzo dei Diamanti (ed era una cosa cosa importante non farlo diventare un gabbiotto per gli uccelli con quella specie di protesi che avevano immaginato). Comunque, Roversi Monaco si diverte molto del successo di Da Cimabue a Morandi e mi chiede un’altra mostra. Così progettiamo la mostra “Rinascimento a Bologna”, che è una novità, perché spieghiamo che Bologna non è meno importante di Ferrara e ha un Rinascimento che comincia con i pittori ferraresi, ma che poi diventano pittori bolognesi: Lorenzo Costa, Amico Aspertini, Girolamo da Carpi e altri. Lui si eccita, gli mando una proposta nel 2015, poi gliele mando una seconda nel 2016 anche una terza nel 2017: a quel punto però scopro che la mostra “Rinascimento a Bologna”, progettata come una mostra grande con 150 opere, si riduce a una mostra sul primo nucleo da cui tutto parte, ovvero il Politico Griffoni, un capolavoro di Francesco del Cossa diviso fra la National Gallery di Londra, la Pinacoteca di Brera, i Musei Vaticani, la Fondazione Cini: tutti i pezzetti di questo polittico sono dispersi in una decina di musei. Il Polittico Griffoni è la vendetta di un grande ferrarese visionario e surreale che si chiama Francesco del Cossa e che ha fatto degli affreschi bellissimi sulla parete più bella di Schifanoia (i mesi di marzo, aprile e maggio, in cui si vede che ha dipinto meglio perché c’è l’oro e c’è l’azzurrite, e perché gli affreschi sono ben conservati mentre gli altri sono tutti sgretolati). A un certo punto Francesco scrive al duca Borso d’Este dicendo che si vede pagato come l’ultimo garzone di Ferrara e chiede di essere pagato un po’ di più. Lo stronzo gli dice di no, e Francesco del Cossa gli dice vaffanculo e se ne va a Bologna, comincia a lavorare per i Bentivoglio, e fa la prima opera a Bologna che è il Polittico Griffoni, un’opera totalmente ferrarese, però fatta per Bologna: da lì parte il Rinascimento bolognese che è fatto da ferraresi che incrociano il più grande scultore del Rinascimento padano che lavora a Bologna (ed è bolognese ma è originario della Puglia), e che si chiama Niccolò dell’Arca. Niccolò dell’Arca nel 1463 fa la prima scultura espressionistica, meravigliosa e straordinaria, che influenza probabilmente i ferraresi, ma siccome c’è il pregiudizio dai tempi di Varchi che ci sia un primato della pittura sulla scultura, Gnudi ed altri sostengono che quell’opera meravigliosa, che è il famoso Compianto, sia fatta in due tempi, perché secondo loro non è possibile che siano quelle figure che urlano che gridano a influenzare i ferraresi, ma sono i ferraresi a influenzare i bolognesi, quindi si apre un dibattito che io risolvo scoprendo un’opera di Niccolò dell’Arca che ora è nella mia collezione [ndr: il busto di San Domenico del 1474-1475] e che permette di dire che il Compianto è tutto nel 1463. Quindi è una spinta bolognese per la pittura ferrarese, quando invece si dice che è la pittura ferrarese che influenza Niccolò dell’Arca negli anni: tutte stronzate. Quindi il Rinascimento bolognese c’è, parte da Niccolò dell’Arca e poi si incrocia con Ferrara, dopodiché Ferrara va Bologna, quindi si potrebbe fare una grande mostra di tutti i ferraresi a Bologna, con Ferrara che rimane un po’ sguarnita, però di fatto a Ferrara sono nati. Ecco allora perché “Rinascimento a Ferrara”, perché c’è un continuo andirivieni.

Allestimenti della mostra Rinascimento a Ferrara. Ercole de' Roberti e Lorenzo Costa
Allestimenti della mostra Rinascimento a Ferrara. Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa
Allestimenti della mostra Rinascimento a Ferrara. Ercole de' Roberti e Lorenzo Costa
Allestimenti della mostra Rinascimento a Ferrara. Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa

Però la mostra del Rinascimento bolognese che avrebbe dovuto dar corpo a questa visione post-longhiana è rimasta sulla carta.

Io ho proposto questa mostra fatta a Ferrara, in cui però gran parte delle opere e degli artisti hanno a che fare con Bologna, tra questi anche un pittore chiave (che ancora una volta ho scoperto io) che si chiama Antonio da Crevalcore che scopro nel 1984-1985 e su cui ho fatto una monografia. Un artista nato a Crevalcore, vicino a Cento, quindi di cultura ferrarese, ma che lavora a San Petronio a Bologna, ed è un altro caso di esportazione di un ferrarese. Quindi a Bologna hai Francesco del Costa, Ercole de’ Roberti, Niccolò dell’Arca, Antonio da Crevalcore... cazzo il Rinascimento c’è, però poi Roversi Monaco ha incaricato un mio amico, che si chiama Mauro Natale, allievo di Zeri, di fare la mostra sul polittico Griffoni. Alché lo chiamo e gli dico che quello è il cuore della mia mostra, che doveva prevedere quest’opera e tutte le altre cose fino al 1530-1540 come Biagio Pupini, Girolamo da Treviso il Giovane, tutta gente che non conosce nessuno. Natale invece estrae il cuore del carciofo e fa la mostra sul polittico Griffoni a Palazzo Fava, una mostra per cui oltretutto è stato speso un sacco di soldi. Certo, è stata una mostra interessante, ed è stata fatta anche durante il Covid, ma se tu sei una persona normale e leggi “Il Rinascimento a Bologna” ti rendi conto che quella è una mostra che verrebbe qualunque persona a vederla, cosa che invece non si può dire per una mostra sul Polittico Griffoni di Francesco del Cossa. Perché non sai cosa vuol dire polittico, non sai cosa vuol dire Griffoni, Francesco del Cossa non lo conosce nessuno, ti arriva pure il Covid, per cui è stata un’occasione persa: una mostra fatta con un embrione della mia mostra, e con un’opera che certamente è fondamentale ed è incastonata lì, ma che andava messa nel contesto. Comunque passano gli anni e io faccio il Rinascimento a Bologna... a Ferrara, perché sia Ercole de’ Roberti che Costa sono pittori nati a Ferrara ma attivi a Bologna. Quindi, per tornare alla domanda di prima su Longhi, ciò che cambia rispetto all’epoca di Longhi è che Longhi, nonostante il suo allievo Volpe, non voleva accettare che il Rinascimento ferrarese diventasse anche bolognese, cioè lui aveva la sua idea di una specie di satellite che si chiude in se stesso, ovvero Ferrara, una città piena di pazzi, piena di geni, che sono i ferraresi: non capisce però che i ferraresi calano come i marziani con un’astronave a Bologna, trovano terreno fertile perché c’è Niccolò dell’Arca, e nasce un Rinascimento bolognese. Poi magari un giorno la faranno questa mostra, fra dieci o vent’anni, e io invece la annuncio adesso. Perché esiste già in pectore nella mente di Volpe, in quella del suo allievo Benati, e nel mio progetto che è stato bocciato perché è arrivato Natale che ha fatto la mostra sul polittico Griffoni (che nessuno capisce che vuol dire... Rinascimento a Bologna, ma è l’embrione da cui parte il Rinascimento). Allora adesso chi va a Ferrara vede un pezzo del politico Griffoni che è stato fatto per Bologna, vede Niccolò dell’Arca che ha fatto per Bologna un’opera che ho nella mia collezione, vede Crevalcore che ha fatto San Petronio, quindi di fatto io ho organizzato una mostra sul Rinascimento bolognese con i pittori di Ferrara, e questa è la novità della mostra. Tant’è che poi Costa è tutto bolognese, perché nasce sì a Ferrara ma poi lavora a Bologna: per cui questa mostra è un’evoluzione rispetto a Longhi, perché intanto riguarda due pittori che hanno lavorato più a Bologna che a Ferrara, e poi apre la strada del Rinascimento a Ferrara, perché questi pittori sono di Ferrara ma il Rinascimento scoppia a Bologna. Esiste dunque un grande nodo di un Rinascimento bolognese che è ancora irrisolto: tutti sanno cos’è il Rinascimento fiorentino, tutti sanno cos’è il Rinascimento veneziano, tutti sanno cos’è il Rinascimento romano, anche il Rinascimento ferrarese comunque dopo Longhi è conosciuto, mentre quello bolognese non esiste. Oltretutto nel Rinascimento bolognese cade un meteorite che è appunto la pala di Raffaello che nel 1515 orienta tutto quello che veniva da Ferrara verso una dimensione raffaellesca e comincia una fase in cui ci sono Innocenzo da Imola, Girolamo da Treviso il Giovane, Biagio Pupini, tutti i pittori bellissimi che sono una contaminazione fra l’occupazione di ferraresi a Bologna e l’occupazione di Raffaello che anche lui arriva a Bologna, manda quest’opera e fa un casino per cui tutta la pittura naturalmente cambia. Bologna è un’area di sincretismo, perché assomma le premesse ferraresi e poi Roma con Raffaello, da cui poi arriva Parmigianino. Per questo io dico che ho fatto una mostra sul Rinascimento a Bologna... a Ferrara. E l’ho chiamata Rinascimento a Ferrara. Insomma, un casino!

Un aspetto interessante della mostra è la riaffermazione dell’attribuzione del Settembre di Schifanoia a Ercole de’ Roberti, in mostra si vede la riproduzione che è una sorta d’invito ad andare a vedere l’affresco dal vivo, e poi in catalogo il saggio di Michele Danieli torna su questo tema. E anche qui si ritorna a Longhi, mi piacerebbe che si potesse aggiungere qualcosa su questa attribuzione fondamentale.

È un miracolo di Longhi che senza nessun documento e senza nessuna testimonianza ci impone sulla base del suo ipse dixit che quell’affresco sia talmente d’invenzione, talmente surreale, talmente prospettico e talmente pierfranceschiano che lui dice che è di Ercole de’ Roberti. E noi studiamo Ercole de’ Roberti solo sull’occhio di Longhi. Uno solo contraddice Longhi, Ranieri Varese, ma non se lo fila nessuno, Danieli invece conferma anche lui che l’esordio del diciassettenne Ercole è proprio lì a Schifanoia e poi dopo poco lui andrà con Francesco del Cossa a Bologna, lo segue, erano amici evidentemente. Però la certezza filologica che sia Ercole Roberti è solo l’occhio di Longhi. Cioè lui ha buttato il nome di Ercole ma non abbiamo nessun documento, nessuno che lo dice.

Prima abbiamo citato una figura che dalla mostra emerge con una preminenza rilevante, quella di Antonio da Crevalcore. Mi piacerebbe concludere intanto dicendo qualcosa su di lui, e poi vorrei chiedere se, al di là dei nomi “noti” (perché comunque Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa sono nomi di rilievo), ci sono, in quel periodo e in quell’area, altri artisti come Antonio da Crevalcore poco studiati, poco noti, che meriterebbero di essere studiati e riscoperti.

C’è il Pannonio, un pittore ungherese (ci sono opere connesse alla mostra in Pinacoteca), poi Maccagnino, che è un’invenzione di Longhi ma di cui non abbiamo certezza, poi ancora Vicino da Ferrara (nome che Longhi dà a un pittore molto elegante che sta “vicino” a Ercole de’ Roberti e anche a Francesco del Cossa, ed ecco perché “Vicino da Ferrara”, perché pittore che è... vicino a Ferrara). Quanto ad Antonio da Crevalcore, era un artista variamente misconosciuto, salvo un saggio di Zeri di cui rimangono vivi il San Francesco di Princeton e il ritratto del Correr di Venezia e poi un’altra opera, distrutta a Berlino: su di lui nessuno aveva scritto niente. Antonio da Crevalcore prima era tecnicamente... una riga del Venturi (della Storia dell’arte italiana) e una nota di Longhi. Diceva Bobi Bazlen, il celebre editor, che lui non scriveva libri, ma soltanto delle note senza testo, e che la sua opera sono le note senza testo, perché molti scrivono libri non avendo niente da dire, quindi diventano volumina. Ma i libri altro non sono che note gonfiate. Io ho fatto esattamente questo: ho preso una nota di Longhi e ne ho fatto un volume, perché la ricostruzione di Crevalcore deriva da una totale sottovalutazione sia di Venturi che di Longhi, poi Zeri si incuriosisce pubblicando tre o quattro opere di cui una o due sbagliate, poi appaiono i tre dipinti a Montecarlo che sono talmente importanti che io scrivo una monografia per Mondadori, e a quel punto le opere da allora (1985) apparse a Montecarlo, non sono state più viste, quindi io le ho pubblicate, e la gente ne ha parlato. Nel frattempo ho trovato un’altra opera che gli ho attribuito, ma che identifica una figura nuova, che è un pittore che si chiama Giovanni Antonio Bazzi, omonimo del Sodoma, e che è un pittore di cui abbiamo qualche documento che è stato studiato da un tale Buitoni che dà il nome a un’opera (che invece io avevo attribuito a Antonio da Crevalcore) che porta il nome di “Pala Grossi”, perché la teneva un signore che è morto e che si chiamava Grossi, che stava a Modena. Altro intervento sgarbiano: io ho ottenuto che quell’opera fosse data in deposito dalla famiglia Grossi a Ferrara, quindi adesso è esposta di fronte al trittico per cui quest’opera che io aggiungo, anche se l’attribuzione non corrisponde perché in realtà è di Bazzi, le opere di Bazzi, le opere già conosciute e il trittico mi fanno fare un volume da cui esce una personalità molto pesante, soprattutto per le tre opere comprate da Memmo, che non sono mai state esposte prima di oggi e che sono proprio il punto di fusione fra un pittore di cultura ferrarese, di formazione ferrarese, e Bologna dove le opere sono realizzate, quindi Crevalcore è il pittore chiave, Crevalcore e Niccolò dell’Arca che sono vicini sono i due artisti che fanno da ponte tra Ferrara e Bologna, l’uno Niccolò dell’Arca che anticipa da Bologna a Ferrara e l’altro che invece è Crevalcore che nasce in aria ferrarese poi va a Bologna. Quindi, tecnicamente, la mostra ha questo blocco chiave con la parte di Ercole de’ Roberti e Costa che sono più o meno monografati, ha la sala dove ci sono Niccolò dell’Arca, Crevalcore e il maestro della Pala Grossi cioè questo Bazzi, che sono proprio un enclave bolognese dentro la mostra del Rinascimento a Ferrara, perché Niccolò dell’Arca è nato in Puglia ma è tutto bolognese e lavora solo Bologna, quindi quello è Bologna verso Ferrara, poi c’è Crevalcore che è Ferrara verso Bologna e quindi di fatto noi dobbiamo rielaborare una strategia del Rinascimento che faccia sovrapporre Ferrara e Bologna. E la mostra lo fa anche se la facciamo a Ferrara... quindi la chiamiamo “Rinascimento a Ferrara”.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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