Ha senso parlare di arte femminile o femminista? Intervista alla critica Paola Ugolini


Ha ancora senso parlare di arte femmile o femminista? Ci sono punti di tangenza tra istanze femministe e realtà e arte contemporanea? In che termini ridefinire la questione? Ne parla Anna De Fazio Siciliano in questa intervista con la critica Paola Ugolini.

La storia e il presente, per le donne sono qualcosa da riscrivere di continuo. Soprattutto oggi, per la complessità del mondo in cui viviamo e operiamo. Riscrivere e fare la Storia con il proprio nome, HERSTORY e non HISTORY, significa interrogarsi e confrontarsi anche a partire dalle parole, dalle questioni linguistiche, e da tematiche che rientrano nell’orbita della dimensione pubblica e privata, veri luoghi d’indagine. Questo interrogarsi su temi e parole, su immagini e rappresentazione visiva, nel nostro caso, si compie attraverso il linguaggio artistico che, più trasversale rispetto ad altre modalità di espressione, presuppone un’indagine approfondita proprio perché non appartiene esclusivamente agli “studi di genere” o alla militanza ‘femminista’. Ecco perché occorre chiedersi di cosa parliamo quando diciamo arte “femminile”. Esiste e ha senso parlare di arte specificatamente ‘femminile’ o ‘femminista’?

Sono domande che partono da molto lontano e che affondano la loro origine nel movimento femminista degli anni Settanta. Il femminismo è stato, ed è ancora, un’organizzazione militante rivoluzionaria e non violenta che, in quel periodo storico, ha rappresentato non solo un nuovo fenomeno sociale e culturale ma, soprattutto, il punto di partenza e poi l’abbrivio a profondi cambiamenti legislativi e di costume. Ma oggi sono ancora validi quei presupposti? Ci sono ancora punti di tangenza con la realtà e con la scena artistica post-contemporanea? Una vexata quaestio attualmente molto dibattuta, ma in che termini bisogna ri-definirla? Lo abbiamo chiesto a Paola Ugolini, critica d’arte specializzata in gender studies rapportati alle esperienze artistiche, che ci parlerà anche della mostra, che ha curato con Cecilia Canziani e Lara Conte, Io dico Io /I say I, attualmente in corso alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma.

Quanto la questione “femminile” sia ancora urgente e quanto sia presente nel panorama artistico contemporaneo lo confermano numerose mostre e pubblicazioni, ma quanto si debba ancora costruire un’attenta narrazione sull’argomento lo dimostrano due episodi, apparentemente banali, e diametralmente opposti. Il primo è quello legato alla preferenza di farsi chiamare “direttore” della Direttrice d’orchestra Beatrice Venezi al Festival di Sanremo, e il secondo è la foto, diventata virale sui social, delle studentesse afgane riprese mentre sostenevano gli esami di ammissione all’Università.

Afghanistan, luglio 2020, studentesse in attesa di sostenere i test d'ammissione all'università
Afghanistan, luglio 2020, studentesse in attesa di sostenere i test d’ammissione all’università

ADFS. Partiamo da un gesto. “Spinare una rosa”, dal lavoro di Silvia Giambrone (Agrigento, 1978) presente nel progetto Mascarilla 19 (a mio avviso eccezionale) da te curato e prodotto da Beatrice Bulgari.

PU. Il gesto a cui ti riferisci è una delle azioni che l’attore di Domestication, il cortometraggio prodotto dalla Fondazione InBetweenArtFilm per Mascarilla 19, compie all’inizio del film mentre seduto ad un tavolo di cucina prende da un vaso una rosa gialla e comincia a levare le spine dal gambo con i denti, per poi posizionare le spine allineate in ordine sul ripiano del tavolo. Mascarilla 19 è il titolo del progetto nato esattamente un anno fa, durante il primo lockdown, da un’intuizione di Beatrice Bulgari, presidente della Fondazione, che era rimasta colpita da un articolo letto su un quotidiano straniero in cui si diceva di come il premier spagnolo Pedro Sánchez avesse ideato con il ministero per le pari opportunità un protocollo per aiutare le donne vittime della violenza domestica che potevano entrare in una qualunque farmacia del paese, uno dei pochi esercizi commerciali aperti, usando una parola in codice, “mascarilla 19”, per chiedere aiuto. L’idea nata a causa delle restrizioni per contenere la pandemia, per cui moltissime donne sono state e tutt’ora sono costrette a coabitare coattamente con i loro carnefici, è stata l’input per provare ad affrontare questo argomento scabroso con il linguaggio trasversale dell’arte contemporanea e nello specifico delle immagini in movimento. Il progetto è stato curato da Alessandro Rabottini, direttore artistico della Fondazione con Leonardo Bigazzi e me. Gli otto cortometraggi, realizzati da altrettanti artiste e artisti sia italiani che internazionali, hanno raccontato la tragedia della violenza di genere partendo da angolature molto diverse. Silvia Giambrone, per esempio, ha voluto rappresentare l’addomesticamento alla stessa e come, in una relazione tossica, l’abuso si normalizzi non venendo più percepito come tale.

Che peso ha quel gesto di estirpare le spine alle rose? Le stesse rose che, suppongo, siano un dono di un uomo a una donna, nella scena di una convivenza e violenza domestica, indagine specifica della Giambrone…

Quel gesto è ovviamente una metafora della violenza ma anche del piacere e del dolore. L’uomo e la donna che recitano all’interno dell’ambiente domestico scelto da Silvia Giambrone non si incontrano mai e probabilmente sono l’uno il ricordo dell’altra o viceversa, sono presenze immaginate e archetipiche. Le azioni che compiono, anche quelle banali come guardarsi allo specchio o lavarsi la faccia, sono sature della violenza che ormai si è incistata così profondamente nella loro relazione da essere vissuta come una condizione di normalità.

Continuiamo con una riflessione a partire dal commento, scritto il 6 marzo, dall’artista Francesca Merz, in seguito al dilagare delle discussioni nate dopo l’intervento della giornalista Barbara Palombelli e dopo la dichiarazione della direttrice d’orchestra Beatrice Venezi durante la quarta serata del Festival di San Remo. “Nessuna di noi, femminista, vive al di fuori della società”, scriveva Merz, “e nessuna di noi, femminista, per quanto rabbiosamente convinta della propria superiorità rispetto alle altre, vive le sue scelte e la sua vita senza essere profondamente condizionata da schemi sociali e patriarcali enormi, la differenza, a mio avviso, è semplicemente l’autocoscienza, ovvero rendersi conto di quanto siamo invischiate noi stesse in questo metodo di autogiudizio”.

Noi donne siamo figlie del patriarcato e tutte, più o meno consapevolmente, ne siamo imbevute e questa è una questione con cui dobbiamo fare i conti continuamente. Come ha scritto Simone de Beauvoir nel suo illuminante Saggio del 1949, Le deuxième Sexe, donne non si nasce, si diventa. Solo con lo studio e la presa di coscienza del nostro essere sessuate al femminile, quindi non uomini mancati ma soggetti diversi, potremmo veramente incidere in modo radicale all’interno della società, per polverizzare gli schemi precostituiti e fare uno scatto in avanti. Le filosofie femministe sono tante è vero, ma il nocciolo di base è uno: parità e uguale trattamento in tema di diritti, di possibilità di carriera e di rappresentanza sociale. Io, personalmente, trovo abbastanza ridicolo che una donna si senta talmente sminuita nel suo essere donna, ovvero soggetto sessuato al femminile, da ritenere più autorevole farsi definire nella sua professione al maschile. Non dobbiamo mai dimenticare che il femminismo è anche nelle parole e non solo nelle azioni di piazza o nelle rivendicazioni. La sociolinguista Vera Gheno nel saggio Femminili singolari scrive “…succede che ciò che non viene nominato tende a essere meno visibile agli occhi delle persone. In questo senso, chiamare le donne che fanno un certo lavoro con un sostantivo femminile non è un semplice capriccio ma il riconoscimento della loro esistenza: dalla camionista alla minatrice, dalla commessa alla direttrice di filiale, dalla revisora dei conti alla giudice, dalla giardiniera alla sindaca. E pazienza se ad alcuni le parole ‘suonano male’: ci si può abituare”. L’italiano è una lingua sessuata al maschile, quindi cominciare a declinare al femminile le professioni è per me non solo linguisticamente corretto ma è anche una presa di posizione politica, militante. Ritenere cacofoniche parole come architetta, ministra, avvocata, sindaca è retaggio di una mentalità irrimediabilmente maschilista, una rideterminazione del femminile si deve pensare anche a partire dalle parole e da un loro uso consapevole. Rinominare le professioni al femminile è una pratica necessaria per agire attivamente il femminismo.

Silvia Giambrone, un fotogramma di Domestication (2020)
Silvia Giambrone, un fotogramma di Domestication (2020)


Silvia Giambrone
Silvia Giambrone

Secondo te, la mancanza di sensibilità nei confronti del sessismo linguistico e di un’attenzione alle tematiche di genere femminile (non solo linguistiche) dipendono dalla propria biografia, ovvero, quanto una mentalità patriarcale più o meno radicata e introiettata può condizionare la carriera, la vita sentimentale e professionale di una donna e di un’artista?

La mancanza di sensibilità per le questioni di genere è la conseguenza di un vuoto culturale, di una formazione specifica, i media per altro non fanno altro che dipingere le femministe come delle donne-streghe brutte e pelose che odiano gli uomini. Questa parola, quindi, fa ancora paura a tutte quelle donne e anche a quegli uomini che, per ignoranza, non hanno fatto un percorso di crescita personale e di gender studies. In occidente oggi la mentalità patriarcale sta ricevendo dei grossi scossoni ma, purtroppo, ancora viviamo in un mondo misogino in cui i diritti delle minoranze, migranti, donne, appartenenti alla comunità GLBTI, sembrano solo gentilmente concessi e comunque sempre pronti per essere revocati al primo segno di crisi. La pandemia ha platealmente mostrato che la parità di diritti non è stata raggiunta, le donne stanno infatti subendo una grande discriminazione in termini lavorativi in quanto la società (che si fonda sulle regole non scritte del patriarcato) ritiene che siano loro a dover sacrificare lo stipendio e la carriera per occuparsi della gestione della famiglia. Viviamo in un paese che negli anni Settanta ha prodotto un femminismo molto vitale sia sul piano teorico sia pratico ma che, con l’arrivo della televisione commerciale, è stato seppellito da un inquietante sfruttamento dell’immagine delle donne, in cui il loro valore viene misurato unicamente in base ai criteri più basici: il corpo, l’aspetto esteriore, l’abilità di essere subalterne rispetto agli uomini. Ancora oggi viviamo una profonda contraddizione fra donna reale e la produzione consumista della donna ideale omologata dalle reti Mediaset e Rai, tutto questo genera confusione e aumenta la resilienza degli stereotipi di genere.

In agosto, mentre in Italia si parlava dell’aumento dei casi di violenza domestica (la regione dove è più alto il numero è la Calabria) motivo per cui il progetto Mascarilla 19 ha trovato terreno fertile, ha fatto il giro del mondo la foto delle donne afghane che sotto il sole e nonostante i rischi, sostenevano la prova di ammissione per entrare all’Università… quanta distanza c’è in Italia da quell’immagine?

Attualmente enorme a dire il vero… ma le distanze possono sempre accorciarsi se le donne e anche gli uomini non incominciano a prendere coscienza della loro diversità e a rendersi conto che la collaborazione e la mutualità sono l’unica risposta sensata per garantire il futuro della nostra specie.

In questi giorni, sto leggendo il pamphlet della scrittrice francese Pauline Harmange, Odio gli uomini. Credo che la sua posizione, forte e che ha rischiato di essere censurata per istigazione all’odio di genere, sia comunque importante da considerare, che ne pensi?

Quel pamphet è molto intelligente e il suo titolo così forte e assertivo necessario per scuotere le coscienze. Le affermazioni di Pauline Harmange sono parecchio rivoluzionarie ma anche decisamente sensate come quando scrive che le donne “sono incoraggiate dalla società, dalla letteratura e da tutto il resto ad amare gli uomini, ma dobbiamo assolutamente avere il diritto di non farlo”. Detto questo ogni campo del sapere deve essere indagato da un punto di vista non egemone, riposizionare la presenza femminile è un passo necessario per poter rileggere la storia in maniera non situata.

Carol Rama, Appassionata (1943; Torino, Collezione privata). Foto Pino Dell’Aquila © Archivio Carol Rama, Torino
Carol Rama, Appassionata (1943; Torino, Collezione privata). Foto Pino Dell’Aquila © Archivio Carol Rama, Torino


Ketty La Rocca, Con attenzione (1971; The Ketty La Rocca Estate)
Ketty La Rocca, Con attenzione (1971; The Ketty La Rocca Estate)


Silvia Giambrone, Il Danno (2018). Courtesy l’artista & Studio Stefania Miscetti. Foto Giordano Bufo
Silvia Giambrone, Il Danno (2018). Courtesy l’artista & Studio Stefania Miscetti. Foto Giordano Bufo


Monica Bonvicini, Fleurs du Mal (pink) (2019). Courtesy l’artista & Galleria Raffaella Cortese, Milano © Monica Bonvicini & VG Bild Kunst. Foto Alessandro Garofalo
Monica Bonvicini, Fleurs du Mal (pink) (2019). Courtesy l’artista & Galleria Raffaella Cortese, Milano © Monica Bonvicini & VG Bild Kunst. Foto Alessandro Garofalo

C’è un’altra considerazione che vorrei fare con te prima di arrivare alla mostra in corso alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma... Ci sono molte mostre, pubblicazioni ed eventi, legati alla questione dei gender studies. Mostre come “Hysteria” di Maria Angeles Vila Tortosa, “Soggetto Imprevisto”, e “Chi sono io?” solo per citarne alcune, hanno segnato un momento prezioso nel percorso di conoscenza femminile e di repertorio visivo.

Queste mostre sono tutte importanti. Ho curato svariate mostre che riposizionano la presenza delle artiste donne (fra cui Hysteria de Secretis Naturae) e accolgo ogni volta con gioia questo tipo di progetti espositivi, come ho detto prima, è importante poter creare una narrazione diversa e le mostre da te citate sono degli importanti esercizi intellettuali di riscrittura da un punto di vista non egemone della storia dell’arte degli ultimi cinquanta/sessant’anni.

Veniamo alla mostra romana, Io dico io. Gli ambiti dove, secondo me, il retaggio di un patriarcato secolare è più marcato sono quelli che riguardano la Presenza, la dimensione del corpo/sesso, il linguaggio e la presa di parola. Per “Presenza” intendo i luoghi fisici e reali dove è preclusa o limitata la presenza delle donne, e sono, com’è noto molteplici, le alte cariche in politica, per esempio per l’ambito del “Linguaggio” parliamo di sessismo linguistico, ovvero, soggiogamento linguistico all’uso del “maschile neutro”. Chiaramente, la questione legata al “Sesso” e all’uso del “Corpo” è l’ambito dove maggiormente si esercita la “prepotenza maschilist”» e che più degli altri aspetti pertiene l’ambito artistico, con gli sviluppi della Body Art, ad esempio. Resta la “Presa di Parola”, un ambito che a partire da Carla Lonzi, per proseguire con Tomaso Binga, (alias Bianca Pucciarelli Menna) fino ad arrivare alla mostra Io dico io, sottolinea come le donne abbiano, anche in questo caso, ereditato abitudini controproducenti, perché emerge quanto sia sempre l’uomo nel tempo ad aver maggiormente esercitato la presa di parola. Per questa ragione la mostra Io dico io è di particolare importanza. Raccontaci perché.

Io dico Io/I say I è l’assertiva affermazione con cui la donna prende coscienza di sé e della sua unicità, in particolare “Io Dico Io” è l’incipit del saggio La presenza dell’uomo nel femminismo, scritto dalla filosofa femminista Carla Lonzi (1931-1982) nel 1971. L’occasione per la realizzazione di questa collettiva trans generazionale e polifonica di sole artiste italiane, che ho curato, su invito di Cristiana Collu con Cecilia Canziani e Lara Conte, e che attualmente è allestita negli spazi della Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea, è stata la donazione degli archivi di Carla Lonzi al Museo da parte di suo figlio Gian Battista Lena (il materiale archiviale è esposto al primo piano del museo ed è consultabile sul sito on line). Questo titolo racconta la volontà femminile di prendere la parola senza aspettare che le venga concessa, è la rivoluzionaria affermazione con cui la donna diventa padrona della propria capacità di pensare, ovvero della parola come forza creatrice. “In principio era il Verbo (lógos), il verbo era presso Dio e il verbo era Dio” recita il primo verso del vangelo di Giovanni stabilendo quindi che la parola è divina e incarnata. Ma bisogna ricordare che si è incarnata attraverso il sì di una donna che dunque l’ha messa al mondo, anche per gli uomini. Con il tempo e la smemoratezza, parlare in pubblico e l’arte oratoria sono divenute prerogative maschili mentre la chiacchiera e il pettegolezzo sono state confinate fra le mura domestiche o al mercato, tra donne. Nell’antichità la voce delle donne non doveva essere udita in pubblico perché l’oratoria era una delle caratteristiche che definivano la mascolinità come genere “politico” [nda: si doveva venerare la dea Tacita Muta]. Mary Beard nel suo saggio Women and Power scrive che: “Nella tradizione della letteratura occidentale, il primo esempio noto di un uomo che toglie pubblicamente la parola ad una donna; dicendole che la sua voce non deve essere udita in pubblico è all’inizio dell’Odissea di Omero, circa 3.000 anni fa... Tutto ha inizio nel primo libro del poema quando Penelope scende dalle sue stanze private nel grande salone del palazzo, dove trova un bardo che intrattiene i suoi pretendenti cantando le difficoltà che gli eroi Greci stavano trovando nel tornare a casa. Lei non è divertita e, davanti a tutti, gli chiede di suonare qualcosa di più allegro. A questo punto il giovane Telemaco interviene dicendo ‘Madre, torna di sopra nei tuoi appartamenti, e torna al tuo lavoro al telaio...parlare è affare da uomini, di tutti gli uomini, e il mio soprattutto; perché mio è il potere in questo palazzo’. E lei tornò di sopra.” (Mary Beard, Women & Power. A manifesto. Profile Books LTD, London 2008, pp. 3-4). Dalla mitologia greca ad oggi certamente le cose sono molto cambiate e le voci femminili si sono indubbiamente fatte sentire ma sempre a prezzo di enormi difficoltà e battaglie, soprattutto se consideriamo che la nostra cultura occidentale ha continuamente sottovalutato le donne. Troppo spesso le voci femminili vengono silenziate perché la donna socialmente gradita è una donna silenziosa, non oppositiva e accogliente, tant’è vero che la rappresentazione femminile nei media italiani è in gran parte quella riservata ad una creatura di bell’aspetto, sorridente e muta. Prendere la parola e far sentire la propria voce è quello che ha fatto Carla Lonzi che, oltre ad essere stata una brillante critica d’arte, dal 1970 con la fondazione di Rivolta Femminile, il primo collettivo separatista italiano, comincia a definire criticamente la “nuova soggettività femminista” e a dare voce e spessore a quel “soggetto imprevisto”, la donna che ha preso coscienza di sé, che così prepotentemente e improvvisamente irrompe sulla scena pubblica-politica che è ancora oggi, come tu sottolineai nella tua domanda, è ancora in gran parte appannaggio maschile. L’arte ovviamente non è mai stata femminista o non femminista ma è innegabile che molte artiste hanno inglobato questo pensiero rivoluzionario nei loro lavori come dimostrano le innumerevoli sperimentazioni realizzate dalle artiste dalla metà degli anni Sessanta ad oggi. Io Dico Io mette in scena come in una grande rappresentazione visiva l’indagine sullo sguardo e sull’auto-rappresentazione come messa in discussione dei ruoli, la scrittura come pratica e racconto del sé; il corpo come misura, limite, sconfinamento; la preziosità come resistenza all’omologazione per ribaltare punti di vista, de-egemonizzare le narrazioni e suggerire nuove posture. Io dico Io è un’indagine aperta sul presente nata dalla necessità di prendere la parola per affermare la propria unicità al di fuori di uno sguardo legittimante, oltre gli stereotipi e le imposizioni per creare uno spazio di incontro e riconoscimento, alla scoperta delle proprie origini e identità differenti. La mostra, che ha inaugurato lo scorso 1° marzo è rimasta aperta solo per quindici giorni, i musei in questo momento sono chiusi, spero quindi che presto sia nuovamente possibile poterla visitare.


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