“La performer è un attrice che vive una verità”: intervista a Giulia Perelli


Che cos’è e cosa fa una performer? In che modo performance e videoarte consentono di esplorare il nostro mondo? Ne parliamo con Giulia Perelli (1985), artista, attrice, regista che da quindici anni propone una ricerca artistica centrata su corpo, visione e simbolo.

Cosa vuol dire essere una performer? Ne parliamo con Giulia Perelli (Lucca, 1985), attrice, autrice, performer e artista visiva. Si forma tra Roma e il Belgio, lavora in Europa, Asia e Americhe, alternando progetti personali a collaborazioni con registi e artisti internazionali. È protagonista di opere teatrali e cinematografiche pluripremiate, crea installazioni, videoarte e performance ospitate in festival, gallerie e teatri. Nel 2011 entra nella compagnia di Jan Fabre e prende parte a due storiche performance in tournée mondiale. Da allora esplora una ricerca artistica centrata su corpo, visione e simbolo. È protagonista di Democracy in America di Romeo Castellucci (2016–2019), veste ruoli maschili e femminili in lavori per Sky Arte, Gucci Garden, William Kentridge, Carlos Saura. Come artista ha realizzato opere come Pietas e Vivere qui, tra parola e danza. Nel 2020 ha realizzato video d’arte e due film su testi di Fabre. È finalista alla Biennale College 2021 con MezzoMiracolo. Tra i progetti recenti: M.E., su Maria Eletta Martini, Non parlate di me, su Marilyn Monroe, e un lavoro su Maria Callas, prodotto dal Teatro del Giglio. Vive in un bosco, dove arte e natura continuano a legarsi. In questa intervista di Noemi Capoccia esploriamo il percorso artistico di Giulia Perelli e cerchiamo di capire come mezzi quali la performance e la video-arte possono essere utili per trasmettere un’urgenza, per esplorare il mondo.

Giulia Perelli. Foto: Giorgio Leone
Giulia Perelli. Foto: Giorgio Leone

Il suo percorso artistico si muove tra teatro, videoarte, installazioni e performance. Quanto ha influenzato la crescita in Toscana nella natura e la sua formazione tra Roma e il Belgio?

Sono tre luoghi-case per me, che hanno formato il mio immaginario e sono stati terreni di coltivazione molto diversi. La Toscana è la casa della natura, dello sguardo che vede lontano e del silenzio, della bellezza, dell’armonia, della prospettiva: avere davanti le Apuane fa sentire piccoli, e sicuramente influisce sulla percezione dell’importanza dell’essere umano nello spazio. Cioè poca. C’è qualcosa di più grande di noi: il paesaggio, il clima e le stagioni che scandiscono anche un ciclo interiore di raccoglimento, semina, rinascita, espansione. In natura avviene in modo inevitabile, per me. Roma è la mia casa delle parole. Il luogo dove ho iniziato ad esprimermi più liberamente. Mi sono trasferita lì appena maggiorenne, da sola, senza punti di riferimento, se non un sogno. È il luogo dove ho imparato il mestiere d’attrice e autrice dei miei spettacoli. Mi ha dato scambi pieni di fermento interiore, affinità con persone sensibili, con linguaggi e temi comuni. Complici fondamentali. A Roma, nel mondo artistico in generale, ho trovato molta attenzione all’autorialità. Anche io parto da un sentire molto personale per creare qualcosa. Non è l’unica via, non è scontato, ma è centrale nel mio lavoro. Poi, una volta imparato ad esprimermi con le parole (penso allo spettacolo Lucciole, dove il testo era dominante) sono andata tra i fiamminghi, dove il linguaggio verbale non erano il mezzo più comprensibile per comunicare. Non solo per la lingua, ma per il tipo di teatro. Lì ho sviluppato un ascolto e un’espressione diversa, che mi ha fatto scendere ad una diversa sensibilità. Il corpo è stato protagonista. Il Belgio, che per me è principalmente l’esperienza al Troubleyn, il teatro di Jan Fabre ad Anversa, mi ha dato un’espansione verso una libertà ancora maggiore, interiore, creativa e in generale di vita, per diversi motivi: il primo, è che ero spinta ad oltrepassare ogni limite sul palco. Dovevo osare. Avevo e forse ho ancora una tendenza a limitarmi, a contenermi, per motivi personali, ma anche per una certa modestia e giudizio tutto italiano; sarà che abbiamo avuto degli artisti sublimi nel passato, valorizzati di più dei contemporanei a livello sociale ed economico, quindi siamo molto più intimoriti e giudiziosi. Invece Fabre non è modesto e vuole lavorare con performer che lo sfidano, che lo superano. Voleva che fossi una dea in scena, una “Guerriera della Bellezza”, altrimenti ero fuori dalla festa. Richiede una grandezza energetica molto forte, sia fisica che intellettiva ed emotiva. Quindi mi sono tuffata come da una scogliera molto alta, con il grande permesso di vivere completamente. Da Anversa sono partita per lunghe tournée internazionali, con una compagnia internazionale, con cui ho condiviso un linguaggio fertile, spietato, fortissimo, quello del mondo di Fabre che noi tutti della compagnia co-creiamo e alimentiamo con le nostre personalità e le diverse culture e immaginari. Il Belgio è stata la mia casa dell’arte visiva, della performance, del teatro contemporaneo, che distava anni luce da quello che vedevo in Italia. Questa apertura mi ha dato anche il permesso di spaziare tra media diversi. Poter essere sia regista che performer, sia attrice che artista visiva. L’eclettismo non spaventa all’estero, anzi. Io semplicemente funziono così, viaggiare tra linguaggi diversi alimenta un fuoco. Avevo sempre giocato con diversi mezzi di trasporto, ma rimaneva nel mio privato. L’esperienza internazionale mi ha dato il permesso di capirne un valore possibile e quindi condividere professionalmente quel lavoro sotterraneo che prima tenevo segreto, faceva solo parte dell’esplorazione. È incredibile che, nel luogo dove non parlavo la mia lingua, mi sono sentita capita di più. Abbiamo bisogno di occhi capaci di riconoscere il nostro mondo interiore. Abbiamo bisogno di qualcuno che lo ami.

La natura ha un ruolo centrale nella sua vita e nel suo processo creativo. In che modo, ancora oggi, il suo legame con l’ambiente si manifesta nella sua arte?

È il tema più urgente che abbiamo, quello della natura. Senza la terra e i suoi elementi, semplicemente non possiamo vivere. Però, a parte qualche facile slogan, questo non è al centro del dibattito politico. L’umanità si sta condannando. Basterebbe piantare alberi da frutto in ogni città per non morire di fame. Invece preferiamo i parcheggi, come se fosse normale. Bisognerebbe ripensare, re-immaginare un mondo ideale. In questo anche gli artisti potrebbero aiutare a ri-vedere, cambiare prospettiva, avere fantasia. Al di là del lato ecologico poi, c’è quello più spirituale: sento un legame di parentela con la natura, appartengo a lei. È un legame molto semplice e quotidiano, ma profondo. Ogni elemento della natura, nell’antichità, era riconosciuto come un essere con una sua sapienza, o come una divinità. Ogni pianta veniva vista nelle sue capacità terapeutiche, vi si costruivano storie e miti straordinari che sapessero raccontare le loro virtù. Mi viene in mente una frase di Claude Lévi-Strauss: “Nessuna situazione mi pare più tragica, più offensiva per il cuore e per l’intelligenza, di quella di un’umanità che coesiste con altre specie viventi con le quali non può comunicare…Un tempo, la natura stessa aveva un significato che ognuno, nel suo intimo, percepiva. Avendolo perso, l’uomo oggi la distrugge, e si condanna”. Penso che percepire nel proprio intimo sia sviluppare una bussola interiore necessaria un po’ per tutto nella vita. Stare a contatto con il proprio sapere selvaggio.

Lei ha collaborato con artisti internazionali come Jan Fabre e Romeo Castellucci. Come queste esperienze hanno influenzato la sua ricerca artistica? Quali insegnamenti ha potuto trarre da questi incontri?

Ho scoperto che significa, per me, essere performer: la performer è un attrice che vive una verità. È un’attrice spogliata da ogni maschera, e quindi esposta al reale. Non è solo nuda fisicamente (non sempre, poi): c’è una nudità più profonda: quella dell’essere senza pelle, più vulnerabile possibile. Del sentire, essere energia e canale. Questa è la mia linea nel lavoro e nella vita. Superare la limitazione non è alimentare l’ego, ma perderlo, mettersi al servizio di una forza creativa più grande della nostra coscienza. Ho vissuto e imparato tantissimo da questi grandi geni del teatro, che sono soprattutto artisti, oltre che registi. Nel lavoro con loro, per la fatica, l’impegno e l’intensità delle performance, ho praticato molto la presenza, la concentrazione e come generare energia anche nella stanchezza. Che sono superpoteri. La cosa più importante che mi ha dato Jan Fabre: la libertà di osare da un lato, la potenza della precisione millimetrica dall’altro. E Romeo Castellucci, direi quasi il contrario: la responsabilità chirurgica dell’onestà intellettuale, come premessa dell’agire, e la possibilità generativa dell’abbandono, al sogno o all’incubo, in scena. Castellucci raggiunge vette altissime, di profondità celesti ed abissali, nella sintesi. È un artista immenso, è il mio preferito, mi ha donato il ruolo più bello e importante che potessi fare. Un ruolo molto impegnativo, a livello emotivo, fisico e mentale. Ma l’ho fatto lasciandomi attraversare da una potenza. Romeo è un artista maturo, profondo e responsabile di ciò che mette al mondo. Io credo molto nella bellezza della maturità dell’artista. Mi interessa la coscienza.

Giulia Perelli, Pietas
Giulia Perelli, Pietas
Giulia Perelli, Pietas. Foto: Giorgio Leone
Giulia Perelli, Pietas. Foto: Giorgio Leone

Nel suo lavoro, spesso combina diversi media artistici come la musica, danza, cinema e la poesia. Come riesce a integrare tutti i linguaggi in modo lineare?

Seguo le mie immagini interiori. Possono venire fuori frammenti apparentemente lontani ma che insieme fanno una scintilla. Non mi preoccupo troppo della forma, mi fido del processo, la forma ne è una conseguenza. Non importa che mezzo uso per esprimere, ma il contenuto che esprimo e la presenza con cui lo faccio e mi lascio fare. L’arte come dicevo prima, è un mezzo di trasporto. Per vivere, trasmettere l’indicibile, dare un nome allo sconosciuto, vedere e, magari, per trasformare. Deve essere onesto il processo di creazione e di abbandono. Sto molto attenta a cosa mettere al mondo, abbiamo già tanto rumore. Sono per un’ecologia mentale. E credo che essere responsabilmente onesti sia fare un passo verso un’intenzione di verità. E la verità cura. Cura sempre.

Il suo lavoro abbraccia inoltre temi legati alla politica e alla spiritualità. Secondo lei qual è il modo più semplice e diretto per bilanciare e legare questi due aspetti? In che modo è riuscita a farlo nella sua narrazione artistica?

Secondo me un modo semplice e diretto è avere in mente un evento “sacro” che può essere la narrazione di un mito, la storia di un profeta, di un eroe o un evento biblico o di altre religioni e riconoscerlo ora, oggi, dentro di noi o nella nostra società. Dov’è oggi la strage degli innocenti? Dov’è, oggi, l’esodo? Dov’è Cronos che brama di potere e non vuole morire mai? Percepire l’aspetto mitico degli eventi è una via diretta per capire le religioni. Altrimenti c’è il rischio che rimangano una credenza, l’oppio dei popoli, una fuga dalla realtà. Ho unito politica e spiritualità come provocazione in due manifesti, due Pietas: la prima, dedicata ai migranti dispersi nel Mediterraneo, una Pietà dentro l’acqua. Una denuncia contro i porti chiusi. La seconda Pietas è dedicata alla Terra di cui la madre-madonna diventa un’allegoria e il Cristo è di ghiaccio, in fase di scioglimento. Sono rivisitazioni e attualizzazioni di un’icona che è un archetipo nella nostra cultura, che sta in ogni vicolo del nostro paese, e che possiamo riconoscere nella nostra attuale realtà. È l’icona del massimo dolore, dell’ingiustizia di avere tra le braccia un figlio ucciso. In generale ho un senso molto sviluppato del sacro, permea tutta la mia vita.

Nel periodo del primo lockdown ha realizzato un ciclo di videoarte intitolato Dimensioni Interiori. Di cosa si tratta?

Sono 5 lavori di videoarte, 5 atti performativi. Nel primo lockdown ho vissuto un periodo di eremitaggio nella natura. Ho praticato ogni giorno l’ascolto, la contemplazione, un’apertura interiore al Vuoto, a ricevere un sogno, un’immagine, una conoscenza, una rivelazione magari. I video sono nati da questo processo interiore, volto proprio a ricevere. Ho imparato dal mondo vegetale e dai molti animali che ho incontrato o che sono venuti a trovarmi: la relazione, l’ascolto, la dissoluzione, la sapienza della mutazione. Relazione, ispirato anche a Joseph Beuys, è un video sul contatto tra me e un lupo, e anche tra il polline che pioveva come fiocchi di neve e la terra che lo riceveva. Che cos’è la morte? nasce dal dolore di chi non ha potuto salutare i propri cari, a causa delle restrizioni che avevamo. È stato un modo per confrontarsi con la morte, che in natura coesiste con la vita, è evidentemente una trasformazione e un nutrimento. È un video per chi ne ha paura, che vorrebbe allietare questa metamorfosi. E poi ci sono Cicatrici, Megafoni rossi e Scarpe. Fare arte è ricevere, è accorgersi della vita. Tutto questo è la nostra ricchezza, è quello che abbiamo.

Un bel niente, Nietzsche, di Giulia Perelli
Un bel niente, Nietzsche, di Giulia Perelli
Giulia Perelli, Relazioni, dimensioni interiori
Giulia Perelli, Relazioni, dimensioni interiori

Lei ha detto che la sua performance MezzoMiracolo, finalista alla Biennale di Venezia 2021, è dedicata “all’arte che nei suoi processi trova l’infinito”. L’esibizione analizza quindi temi come la relazione tra cielo/terra e la creazione/distruzione. Per quale motivo ha deciso di sviluppare la performance? E qual è stato il punto di partenza?

Avevo bisogno di tornare a motivare, a dare speranza, a trovare una chiave per vivere, per attivare la propria “buona volontà”. È una performance che affronta una domanda: come possiamo realizzare a terra le idee, che prima sono solo “del cielo”, ovvero ideali? Come possiamo incarnarle, come possiamo costruire la nostra casa? Come, in sostanza, possiamo vivere? Questo è un tema centrale per me. Viviamo in un momento storico in cui siamo spesso sovrastati dall’impossibilità di realizzare: una casa, lavoro, relazioni, una famiglia. Almeno, nel nostro paese. È un fenomeno di instabilità di massa, che a volte atterrisce, specialmente la mia generazione. Fa sentire impotenti. Sembra che non bastino lauree, master, specializzazioni, talento, esperienze… Anche solo alla difficoltà di trovare una casa a causa dell’overturism, o a riuscire a pagarla. Eppure è un bene di prima necessità. Mai come oggi è un lusso. Volevo tornare quindi alla possibilità, alla volontà, alle nostre intenzioni, per focalizzare la nostra energia in ciò che è fattibile, per vivere. Penso che siamo passati, artisticamente, a denunciare ciò che non andava, poi ad una fase di auto-confessione della nostre fragilità, ed è bellissimo. Ora avremmo tanto bisogno di buoni esempi. Nella performance dialogo con la musica di Piero Perelli, mio fratello, batterista e sound explorer straordinario, con cui collaboro abitualmente. E con Domenico Troiani, scultore e artista, che in scena scolpisce un blocco di ghiaccio. È bellissimo vedere un mestiere compiersi con tanta capacità. Questo è il messaggio di MezzoMiracolo. Imparare un mestiere è fare un mezzo miracolo. Per il resto del miracolo non so che farci, ma mi fido.

In quest’ultimo periodo ha lavorato al nuovo progetto Attenzioni, definito anche come un’antologia. In cosa consiste? Cosa sono per lei le “attenzioni”?

Attenzioni è un libro di spoken word poetry e disegni. È un’antologia perché raccoglie testi di diversa natura e diverse epoche della mia vita. Farne qualcosa di più coerente possibile è stato il lavoro più difficile, forse non ci sono nemmeno riuscita. Le attenzioni sono momenti in cui “rivolgiamo l’animo” verso qualcosa. Sono momenti di presenza e cura, in ascolto. È una forma d’amore.

Quanto c’è di personale nella raccolta Attenzioni e quanto invece rappresenta una riflessione sul suo percorso artistico?

Attenzioni è un lavoro molto intimo, a fior di pelle, come tutto il mio lavoro, alla fine. È stato scritto quasi tutto in dieci anni di tournée. C’è qualche riflessione sul mio lavoro in scena, ma non è centrato su quello, apparentemente. Ne è però la conseguenza. Stare in scena, creare, attraversare uno spazio non abituale, vulnerabile e generativo come quello del teatro, ha delle conseguenze. Esplorare se stessi, andare a percepire le proprie stanze interiori, attraverso il proprio corpo e il proprio sentire, fa conoscere molto profondamente l’animo umano, animale e celestiale… la vita insomma. E la vita diventa molto densa e ampia. Estremamente ricca. Interpretare è un viaggio molto intenso. Apre degli universi. Ho scritto quello che ho visto con occhi più aperti, come più esposta al mondo. Il mondo dentro e quello fuori da me. Ci sono poesie, aforismi, ritratti verbali, pagine di diario, pezzi ironici e drammatici, preghiere nude, il mio patrimonio emotivo. Testi adatti ad essere performati, con una scrittura riconoscibile e personale ed è la conseguenza di quel pezzo di vita vissuta molto intensamente. Sarà un cahier disegnabile da chi lo legge, ci sono spazi per le ispirazioni del lettore e delle lettrici… e così spero che ogni libro diventi unico.


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Noemi Capoccia

L'autrice di questo articolo: Noemi Capoccia

Originaria di Lecce, classe 1995, ha conseguito la laurea presso l'Accademia di Belle Arti di Carrara nel 2021. Le sue passioni sono l'arte antica e l'archeologia. Dal 2024 lavora in Finestre sull'Arte.



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