L'Atalanta e Ippomene, manifesto del bello di Guido Reni


L'Atalanta e Ippomene di Guido Reni (Bologna, 1575 - 1642) è uno dei dipinti più celebri del grande pittore bolognese: manifesto del suo bello ideale e dipinto che condensa spunti d'umanesimo cristiano secondo una lettura di Marc Fumaroli, è conservato a Napoli, al Museo di Capodimonte.

Un grand’esperto di cose emiliane del Seicento quale fu, nomen omen, il grande Andrea Emiliani, scriveva che s’è a lungo frainteso il cosiddetto “gusto dei bolognesi”, lo s’è ritenuto armonia che quasi eccedeva nell’accademismo, fino ad arrivare al punto di “quasi femminilizzare l’arte bolognese”. In realtà, “questa armonia”, scriveva Emiliani, “convive anzi con un prevalente naturalismo espressivo, con uno stile insomma che possiede un diretto accesso alle realtà e alle sue tematiche”. Non si spiegherebbe altrimenti la rivoluzione innescata dai Carracci. Ma il ricorso alla natura doveva trovare una sua forma d’applicazione: Guido Reni l’aveva sperimentato dapprincipio con una pittura che lavava via dalla natura ogni forma d’impurità. Nasceva così, dal confronto con Caravaggio, la Crocifissione di san Pietro oggi alla Pinacoteca Vaticana. Quel dipinto, un hapax nel cammino del giovane bolognese, segnava però anche l’avvio d’un altro itinerario, il cominciamento d’un percorso dove si preparava a entrare, prorompente, “il fine dichiarato, insostituibile, della virtuosa bellezza”. Era come se l’idea dell’artista dovesse intervenire per purificare la natura. Così, la mano di Guido Reni era già e definitivamente mossa verso il bello.

Il pittore bolognese avrebbe palesato questo suo istinto più tardi, negli anni Trenta, in una lettera inviata mentre dipingeva il suo San Michele arcangelo a monsignor Massani, maestro di casa di Urbano VIII, e resa celebre da Giovan Pietro Bellori: “Vorrei aver avuto pennello angelico, o forme di Paradiso per formare l’Arcangelo, o vederlo in Cielo: ma io non ho potuto salir tant’alto, e invano l’ho cercato in terra. Sicché ho riguardato in quella forma che nell’idea mi sono stabilita”. Alois Riegl diceva che Guido Reni cercava anzitutto la bellezza del corpo umano, allontanandosi però dalla sensualità correggesca, e trovando semmai un riferimento nella grazia divina di Raffaello, nel quadro di composizioni sempre sapientemente misurate. Naturale, dunque, che Guido Reni si confrontasse con l’antico, studiato in ogni sua forma ed espressione per cogliere, tra gli altri aspetti, quell’essenzialità che si fa spesso colonna portante delle sue novità. Lo vediamo, per esempio, nell’Atalanta e Ippomene, dipinto che segue la partitura e il ritmo d’un vaso greco.

Guido Reni, Atalanta e Ippomene (1615-1618 circa; olio su tela, 192 x 264 cm; Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte)
Guido Reni, Atalanta e Ippomene (1615-1618 circa; olio su tela, 192 x 264 cm; Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte)

È un’opera nota in due versioni, una conservata al Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli, l’altra al Prado. Difficile stabilire con sicurezza quale delle due sia la più antica: gli orientamenti più recenti della critica, dopo la mostra sul bolognese che s’è tenuta alla Galleria Borghese di Roma nei primi mesi del 2022, tendono ad assegnare il primato alla tela napoletana, per ragioni di maggior vicinanza alle opere del periodo romano degli anni Dieci, evidenti soprattutto nella maggior attenzione accordata al chiaroscuro. Guido Reni trae il mito dal X libro delle Metamorfosi di Ovidio: Atalanta è una bellissima vergine cacciatrice a cui un oracolo ha predetto una vita infelice qualora si fosse sposata. La giovane, dunque, per non incorrere nel pericolo, comincia a sfidare i suoi pretendenti in gare di corsa, attività nella quale non ha rivali. Se lo spasimante vince, può sposarla. Viceversa, viene ucciso. Inutile dire quale sia la sorte di tutti i malcapitati che osano gareggiare con lei. Uno di loro, il più innamorato, riesce però a trovare lo stratagemma per batterla. Si chiama Ippomene, come Atalanta viene dalla Beozia, ed è fermamente intenzionato a vincere e a sposare la giovane. E decide così di puntare tutto sulla vanità di Atalanta: durante la corsa, le getta a terra alcui pomi d’oro raccolti nel giardino delle Esperidi, sapendo che sarebbero stati per lei irresistibili, e che si sarebbe chinata a raccoglierli. Così è: Ippomene riesce a battere Atalanta, e i due possono sposarsi.

È il momento apicale della narrazione, quello che Guido Reni decide di dipingere in questo quadro del quale non conosciamo il destinatario. Ippomene ha già lanciato le mele d’oro. Supera Atalanta che s’è lasciata distrarre, si volta a guardarla, la sua falcata è quella di chi non vuole cedere neanche un palmo all’avversario. Lei s’è puntualmemnte fermata: ha già nella mano sinistra uno dei pomi di Ippomene, l’altro è a terra e s’è appena chinata per coglierlo. I movimenti sono ampî e teatrali, accompagnati da quello svolazzare di panneggi gonfi all’inverosimile, rigidi e spiegazzati, taglienti come lame, leggeri come il vento che li muove e li porta a descrivere seducenti volute. È quell’agitarsi di veli che ci suggerisce con più immediatezza l’idea della corsa: se non ci fossero, tutto ci apparirebbe più trattenuto, i due giovani sembrerebbero bloccati, fermi in quest’atmosfera metafisica di toni diafani, in quest’aria rarefatta, messi in risalto da una luce che colpisce soltanto loro, trasformandoli quasi in due sculture di marmo, e lascia al buio tutto il paesaggio marino alle loro spalle.

L’idea del bello si fa carne nei corpi nudi e formalmente perfetti dei due giovani: è da questi corpi e dalle loro mosse che si coglie l’interesse di Guido Reni per l’antico, che non è una forma d’archeologia nostalgica, ma è fonte d’ispirazione per inventare soluzioni formali. Qui, per esempio, la corsa diventa quasi una misuratissima danza, costruita lungo direttrici che seguono uno schema geometrico di diagonali incrociate.

Uno schema funzionale a spogliare il mito di Ovidio, a ridurlo all’essenziale, ma forse anche a introdurre elementi per renderne più manifesto il portato allegorico. Marc Fumaroli, nell’esemplare esegesi di questo dipinto pubblicata nella raccolta La scuola del silenzio, non poteva far a meno di notare come Atalanta si trovi quasi del tutto al di sotto della linea dell’orizzonte, che divide il paesaggio dal cielo al crepuscolo (benché Ovidio non abbia fornito coordinate temporali per fissare la storia in un preciso momento della giornata), mentre al contrario, “con un potente effetto di dissimmetria”, Ippomene stia con la parte più nobile del corpo, ovvero con il tronco e la testa, sopra alla linea che divide la terra dal cielo, e si trovi dunque nell’area celeste. L’eroe della mitologia greca, in una trasposizione di senso frequente nell’arte secentesca, si trova ad essere la personificazione dell’anima del cristiano che allontana da sé le passioni. Anche col gesto della mano destra, che non va inteso come l’ultima sequenza del lancio. Sono troppo vicini per immaginare Ippomene a condurre la gara, circostanza che peraltro andrebbe a contraddire il racconto di Ovidio: qui, semmai, il ragazzo è colto mentre supera Atalanta, come leggiamo nelle Metamorfosi. Quel gesto, secondo Fumaroli, è da leggere come un gesto di rifiuto di quelle passioni rappresentate dalle mele, un gesto che “scava un abisso morale”. Ecco perché l’Atalanta e Ippomene è, per Fumaroli, “pittura di meditazione”.

Possiamo allora leggere l’interpretazione di Fumaroli nel quadro di quello che avrebbe scritto Giambattista Marino, amico di Guido Reni, nel suo Adone: “Per l’arringo mortal, nova Atalanta / l’anima peregrina, e semplicetta, / corre veloce, e con spedita pianta / del gran viaggio al termine s’affretta. / Ma spesso il corso suo stornar si vanta / il senso adulator, ch’a sé l’alletta / con l’oggetto piacevole e giocondo / di questo pomo d’or, che nome ha mondo”. Sono rime che non potevano non tener conto della libera traduzione in ottave delle Metamorfosi che Giovanni Andrea dell’Anguillara pubblicò nella seconda metà del Cinquecento, e dove per Atalanta il matrimonio diventa “santo”: il fine è dunque quello della salvezza dell’anima. Raccogliere i pomi d’oro equivale dunque a lasciarsi tentare dai sensi. E l’Atalanta e Ippomene di Guido Reni può dunque esser letto come un dipinto che sviluppa spunti tipici dell’umanesimo cristiano. Senza prescindere da quell’esigenza di bello ideale che sempre avrebbe animato la sua pittura, e ch’è forse il principale motivo per cui oggi ci lasciamo sedurre, noi sì, dai dipinti di Guido Reni.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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