“Colazione in pelliccia”: la tazza da tè surrealista che scosse il mondo dell'arte


La più famosa opera dell'artista svizzera Meret Oppenheim è la 'Colazione in pelliccia', nota anche come 'Oggetto'.

Avete mai sentito parlare di Meret Oppenheim e della sua tazza da tè surrealista? Nina Martyris ha raccontato la storia di questa particolare opera in questo articolo e Ilaria l’ha tradotto per voi! Qui il link dell’originale.

Il mondo dell’arte celebra un secolo dalla nascita del dadaismo; vale la pena considerare come questo movimento “anti-artistico” nato in un caffè di Zurigo durante la Prima Guerra Mondiale abbia dato origine a un’opera d’arte emblematica utilizzando l’oggetto più semplice tra le stoviglie: la tazza da tè.

Nel 1936, un’ artista svizzera di ventitré anni, Meret Oppenheim, comprò una tazza da tè con piattino e cucchiaino in un grande magazzino di Parigi e ricoprì il tutto con la pelliccia color crema-marrone chiaro di una gazzella cinese. Il suo piccolo oggetto peloso diventò un chiaro esempio di manufatto surrealista – movimento artistico che nacque dalle appariscenti viscere del dadaismo. L’interesse per quest’opera derivò in parte dalla discussione che portò alla sua creazione. Un giorno, nel 1936, la Oppenheim incontrò Pablo Picasso con il suo nuovo amore Dora Maar, suoi amici, al Café de Flore, la caffetteria parigina alla moda abitualmente frequentata da artisti. Bella, intelligente e fieramente indipendente, negli ultimi quattro anni la Oppenheim aveva vissuto a Parigi. Era riuscita a malapena a vendere le sue opere, ma aveva guadagnato modestamente disegnando gioielli e accessori per la fashion designer Elsa Schiaparelli, antesignana nota per i suoi cappelli a forma di scarpa e per le sue borse a forma di telefono. In un set surrealista, la Oppenheim aveva posato nuda per Man Ray e aveva da poco concluso una focosa relazione di un anno con il pittore tedesco Max Ernst, improvvisamente finita durante un pranzo in un caffè.

Man Ray, Erotique voilée
Man Ray, Erotique voilée - Meret Oppenheim alla macchina da stampa (1933; stampa a gelatina d’argento su carta, 37,5 x 26,6 cm; Madrid, Museo Reina Sofía, copia postuma stampata nel 1982).

Le caffetterie avrebbero giocato un ruolo importante nella sua vita. Si narra che al Café de Flore Picasso avesse commentato il braccialetto della Oppenheim, un ampio bracciale color ottone ricoperto di pelliccia di ocelot, che aveva disegnato l’anno precedente per la Schiaparelli. Picasso affermò che ogni cosa poteva essere ricoperta di pelliccia. “Anche questo piattino e questa tazza” replicò la Oppenheim. Allora, quando si accorse che il suo tè si stava raffreddando, lei scherzando chiese al cameriere “un peu plus de fourrure” – “un po’ più di pelliccia”– per rivestire la sua tazza. Poco dopo, la Oppenheim andò al grande magazzino dove avrebbe fatto il più famoso shopping della sua carriera. Nel suo studio, ricoprì abilmente gli oggetti così che il marrone chiaro formasse un bordo scuro attorno al margine esterno della tazzina da tè coordinandola al piattino, mentre il corpo della tazza era color panna.

André Breton, il fondatore del surrealismo, ne rimase incantato. Era un’opera d’arte che si sposava perfettamente con la sua affermazione: “la bellezza sarà convulsiva o non sarà”. Le diede come titolo “Le déjeuner en fourrure” (Colazione in pelliccia) e la espose quell’anno alla prima mostra surrealista dedicata agli oggetti.

Meret Oppenheim, Oggetto
Meret Oppenheim, Oggetto o Colazione in pelliccia (1936; tazza – diametro 10,9 cm, piattino – diametro 23,7 cm, cucchiaino – lunghezza 20,2 cm e pelliccia; New York, MoMA Museum of Modern Art).

Al momento della presentazione, l’oggetto divenne ricettacolo di ogni tipo di teorie, timori e desideri. All’epoca di Freud, un’interpretazione gastro-sessuale era inevitabile: il cucchiaino era fallico, la tazza vaginale, il pelo pubico. Per qualcuno, il cucchiaino a forma di lingua portava alla mente sgradevoli sensazioni di una lingua pelosa. Altri provarono disagio nel vedere un raffinato oggetto da tè trasformato in qualcosa di decadente e animalesco; ad alcuni venne il vomito pensando di mettersi in bocca peli o foglie di tè umide, altri vollero accarezzarlo.

Marcel Duchamp, amico e mentore della Oppenheim, aveva realizzato qualcosa di simile nel 1919, quando su una cartolina illustrata raffigurante la Monna Lisa disegnò baffi neri e barba sul viso liscio della donna. Ma mentre le sue aggiunte pelose ebbero un effetto comico, quelle della Oppenheim erano più raccapriccianti, più cruente.

Tra i più impressionati ci fu Alfred J. Barr Jr., il giovane direttore del nuovo Museum of Modern Art di New York. Quando la Oppenheim espresse l’intenzione di vendere l’opera a mille franchi francesi, egli gliene offrì più o meno metà, 50 dollari, e lei accettò. Dato che questa era la prima opera di una donna che il museo aveva acquistato, la Oppenheim venne scherzosamente chiamata la First Lady del MoMA.

Per lei, l’inaspettato successo ebbe risultati contrastanti. Secondo sua nipote Lisa Wenger, la tazza di pelliccia diventò la “sua prigione”. L’anno successivo, avendo terminato i finanziamenti – 50 dollari non durarono molto – e con il Nazismo in ascesa, la Oppenheim tornò in Svizzera. “Vive a Basilea, la odia maledettamente”, disse la Wenger durante una conferenza che tenne all’Art Basel del 2013. “Rispetto a Parigi è piccola e convenzionale; le persone pensano che lei sia strana perché indossa una calza verde e una rossa”.

Fu l’inizio di una lunga depressione durata 17 anni, secondo la Wenger. La Oppenheim era ad ogni modo vulnerabile agli attacchi di ansia e di malinconia, e l’anno precedente alla creazione della sua tazza di pelliccia, suo padre medico la mandò a consultare il grande Carl Jung. Secondo il suo giudizio, come lui scrisse a suo padre, la Oppenheim rifletteva il “disorientamento giovanile della nostra era” e non presentava “alcuna complicazione nevrotica”.

Come parte della collezione permanente del MoMA, l’insieme peloso – anche se sta perdendo i peli – della Oppenheim continua a scatenare reazioni intense come quelle scatenate negli anni precedenti a Parigi.

Come il critico d’arte Will Gompertz scrive nel suo libro “What are looking at?” del 2012, “Due materiali incompatibili sono stati messi insieme per creare un recipiente che crea disagio. La pelliccia è piacevole al tatto, ma disgustosa quando si appoggia alla bocca. Vorresti bere dalla tazza e mangiare dal cucchiaino – questo è il loro scopo – ma la sensazione della pelliccia è rivoltante. È esasperante”.

Al MoMA l’opera è conosciuta con il disadorno titolo che le diede la Oppenheim: “Oggetto”, non “Colazione in pelliccia”, il sensuale nome scelto da Breton. La sua idea era fare riferimento non solo al famoso dipinto di Edouard Manet “Le déjeuner sur l’herbe”, ma anche, più astutamente, a “Venere in pelliccia”, il romanzo sadomasochista del 1870 dello scrittore austriaco Leopold von Sacher- Masoch (il suo cognome è la radice di “masochista”).

La Oppenheim, che non era certo una puritana, affermò che non aveva in mente fruste né catene quando rivestì i suoi oggetti da tè. Tutto ciò che desiderava era rendere strano qualcosa di comune. Fortunatamente, “Oggetto” non è stato ideato nel presente. Altrimenti avrebbe potuto essere chiamato “Cinquanta sfumature di Earl Grey”.


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Ilaria Baratta

L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta

Giornalista, sono co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. Sono nata a Carrara nel 1987 e mi sono laureata a Pisa. Sono responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.

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