L'Arcadia in pittura. La favola pastorale di Donato Creti alla Pinacoteca di Bologna


La Pinacoteca Nazionale di Bologna conserva una delle opere più belle di Donato Creti (Cremona, 1671 - Bologna, 1749), la “Scena d’Arcadia”, un paesaggio idilliaco che dà forma ai sogni dei letterati d’inizio Settecento.

Scrive Renato Roli nella sua monografia su Donato Creti, pubblicata nel 1967, che la Scena d’Arcadia del pittore emiliano, oggi conservata alla Pinacoteca Nazionale di Bologna, valse più d’ogni altro suo lavoro a fargli guadagnare il “lusinghiero appellativo di ‘Watteau bolognese’”. Con la fondamentale differenza, si potrebbe aggiungere, che il misuratissimo Creti riusciva comunque a risultare meno lezioso e financo meno convenzionale dell’illustre pittore francese cui è stato spesso accostato. Forse non sarebbe azzardato considerare Creti, allievo più celebre di quel Lorenzo Pasinelli che a sua volta aveva studiato con Simone Cantarini, il più burrascoso e irrequieto degli scolari di Guido Reni, una sorta di Guido Reni redivivo, che seppe aggiornare il classicismo del grande maestro adattandolo al gusto e alle novità della pittura d’inizio Settecento. Un’arte cristallina, quella di Donato Creti, fondata su di un disegno accuratissimo, capace d’affrontare temi à la page per soddisfare l’esigenze della clientela, ma pure dotata d’una lucidità accorta, in grado d’incontrare, ha scritto Luisa Vertova, “il favore di illuministi e neoclassici come pure il gusto odierno, avvezzo alle forme geometrizzante e alle tinte minerali”.

Ecco allora che la Scena d’Arcadia si fa sunto raffinatissimo del meglio della pittura di Donato Creti. In un paesaggio d’invenzione, un paesaggio verdicante e rigoglioso, assistiamo alla favola pastorale inventata dal pittore bolognese: siamo nell’Arcadia, l’antica regione del Peloponneso che i miti antichi avevano eletto a terra di vita dolce, serena, spensierata, terra di schermaglie amorose tra ninfe e pastori, terra d’infinite foreste, laghi e fiumi limpidi, frutti abbondanti, dove il tempo scorre felice tra giochi, amori, feste, idillî campestri. Alla fine del Seicento, a qualcuno era venuto in mente di rinverdire quel mito, e a Roma un gruppo d’una dozzina di letterati, guidati da Gian Vincenzo Gravina e Giovan Mario Crescimbeni aveva fondato, in data 1690, l’Accademia dell’Arcadia: un sodalizio letterario che si riuniva nel nome di Cristina di Svezia e i cui soci (che si facevano chiamare, giustamente, “pastori”) pubblicavano rime mossi dal desiderio di reagire alla complessità, agli artifici e agli eccessi della letteratura barocca, per mezzo d’una poesia fondata su di un rigore classico, razionale, e dedita per lo più a temi bucolici che guardavano ai lirici antichi. Presto la moda passò dalla letteratura alle arti visive, e la Scena d’Arcadia di Donato Creti offre un’icastica traduzione per immagine degl’ideali degli arcadi.

Donato Creti, Scena d'Arcadia (1720-1730 circa; olio su tela, 129 x 161 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale, inv. 398)
Donato Creti, Scena d’Arcadia (1720-1730 circa; olio su tela, 129 x 161 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale, inv. 398)

L’Arcadia di Creti, come detto, corrisponde esattamente a quella calda terra vagheggiata dai letterati d’inizio Settecento: un paesaggio idilliaco sulle rive del mare dove, sotto le fronde d’alcuni alberi di rovere, assistiamo alle vicende del nutrito gruppo di personaggi che il pittore dispone in primo piano e in lontananza. Sulla sinistra, due donne abbigliate all’antica stanno sedute sopra una roccia e sono intente a passarsi una rosa: lo splendido fiore è il fulcro della narrazione. Lo ritroviamo al centro della scena: è simbolo d’amore e dobbiamo dunque immaginare sia questo il tema che Creti ha inteso affrontare col suo dipinto. Una terza donna seduta sotto l’albero che s’erge lungo tutto l’asse verticale della composizione tiene alcuni fiori in grembo mentre osserva una quarta compagna, intenta a togliere un ramoscello dal vispo putto che tende le mani verso di lei. Al suo fianco, in controluce, un pastore che ha posato a terra il flauto parla col suo cane, mentre più indietro vediamo giochi tra due ninfe davanti a un altro putto e, sulla destra, una coppia d’amanti colti a dialogare tra gli alberi. Indietro, vette montuose si stagliano contro un cielo azzurro, ravvivato da nuvole bianche e nembi più scuri che s’addensano in alto, tra le fronde degli alberi.

L’opera di Creti dà corpo a immagini ch’erano frequenti nelle rime dei poeti arcadici. A titolo d’esempio si potrebbero prendere alcuni versi che troviamo in una raccolta, pubblicata a Bologna nel 1718, del poeta ferrarese Giuseppe Antonio Fiorentini Vaccari Gioia, che come molti suoi colleghi faceva tutt’altro mestiere (era medico), ma nel tempo libero si dilettava con la poesia: scomparso nel 1717, era molto stimato nell’ambiente, e alcune sue composizioni furono incluse dallo stesso Crescimbeni nelle antologie dell’Accademia dell’Arcadia. Creti non era estraneo all’ambiente: andrà ricordato che conosceva personalmente l’astronomo Eustachio Manfredi, anch’egli poeta arcadico per diletto, che collaborò con Creti quando il pittore dipinse le sue famose Osservazioni astronomiche oggi alla Pinacoteca Vaticana. Tornando invece a Gioia, in una sua lirica incontriamo il topos delle donne che, nel bosco, raccolgono rose e viole: la rosa è la “regina de i fior vezzosa”, il più bello dell’ampia schiera dei fiori, da intrecciare in ghirlande con viole e alloro sotto la benedizione del “santo amore”. Renato Roli avanzò l’idea d’interpretare la scena come un’allegoria dell’estate, per la presenza delle bagnanti sul fondo, e del ventaglio tenuto in mano dalla giovane col turbante sulla sinistra, benché manchino tuttavia elementi tipicamente associati alla stagione (le spighe di grano, per esempio).

Quale sia il significato del dipinto di Donato Creti, sotto il profilo puramente artistico è uno dei prodotti più felici del Settecento bolognese, radicato nei precedenti di Guido Reni, di Francesco Albani (per l’atmosfera, per l’ambientazione boschiva), del Domenichino (l’appena menzionata ragazza col turbante ricorda da vicino le Sibille di Domenico Zampieri). E le figure trovano riscontro sia in altri dipinti di Donato Creti (la donna seduta sulla destra è identica alla Sibilla cumana conservata al Museum of Fine Arts di Boston), sia nei lavori di maestri che lo precedettero: la donna che allontana il ramoscello dal bambino non potrà non ricordare, con tanto di sventolio di veli, la Fortuna di Guido Reni. Quel che è cambiato in Creti è semmai il sapore delle atmosfere, la patina conferita al dipinto: Roli, dal suo canto, non poteva far a meno di notare “il sapore puristico, neorinascimentale dell’atteggiamento del Creti, che in questa tela raggiunge momenti di particolare intensità, sia nel modellato delle figure, più rotondo e pieno, che nella gamma accesa e quasi acre dei toni locali”: la bellezza classicheggiante di questo dipinto investe tanto il paesaggio quanto le forme leggiadre ed eburnee delle donne in primo piano, che per lo studioso quasi presentivano “Ingres e il suo sogno dell’intera perfezione formale”.

Della storia antica della Scena d’Arcadia sappiamo poco. Possiamo essere certi che il dipinto in origine si presentava in altro formato, e fu decurtato per farlo diventare ovale: lo desumiamo dal fatto che il gruppo del pastore e del cane è tagliato in una maniera non riconducibile a una volontà dell’artista. Un taglio del genere non poteva essere compatibile col suo gusto. E possiamo ipotizzare che in antico facesse parte della collezione Zambeccari, la sontuosa quadreria della nobile famiglia bolognese entrata a far parte della Pinacoteca Nazionale a fine Ottocento, con un atto che diede seguito alle volontà del marchese Giacomo, il quale nel 1788 aveva disposto che la sua raccolta fosse destinata al pubblico. Ad ogni modo, pur nell’incertezza sul significato complessivo del dipinto e sulla sua storia, un aspetto è sicuro: questo dipinto, per chi lo aveva commissionato, era la forma d’un sogno, il sogno d’una terra felice, così diversa e così lontana dal mondo di tutti i giorni dal quale probabilmente anche gli arcadi cercavano di evadere, trovando un accogliente rifugio nei miti antichi.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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