Elaborare uno stato d'animo attraverso la scultura. Conversazione con Silvia Vendramel


Silvia Vendramel lavora principalmente con scultura e installazione, e propone una ricerca basata sulla trasformazione del quotidiano e sull’elaborazione del proprio sentimento. Ci racconta la sua arte in questa conversazione con Gabriele Landi. 

Silvia Vendramel (Treviso, 1972), artista che lavora principalmente con scultura e installazione, propone una ricerca basata sulla trasformazione del quotidiano e sull’elaborazione del proprio sentimento, in costante dialogo con la realtà che la circonda. Vive e lavora sulle colline liguri al confine tra Italia e Francia. Diplomata presso la Villa Arson, Nizza nel 1996, nel 2021 è stata tra le artiste invitate alla progettazione di un monumento “Una scultura per Margherita Hack”, ha creato con Beatrice Meoni il progetto Pratiche di scambi basato sul dialogo tra pratiche artistiche diverse e a tratti convergenti, e in un’ottica simile per circa tre anni ha collaborato con Beatrice Meoni, Philippa Peckham, Maja Thommen e Elena Carozzi. Ha esposto le sue opere in diverse gallerie e musei. E ci racconta la sua arte in questa conversazione con Gabriele Landi.

Silvia Vendramel. Foto: Teresa De Toni
Silvia Vendramel. Foto: Teresa De Toni

GL: Silvia, ti volevo chiedere, per iniziare questa nostra conversazione, dell’età dell’oro dell’infanzia domandandoti se anche per te, come avviene per molti, è stato durante questo periodo della tua vita che hai iniziato inconsapevolmente il tuo cammino sulla via dell’arte. Quali sono stati gli episodi, le persone, i fatti gli oggetti e o gli incontri che ti hanno portato su questa strada? Racconta?

SV: “Credo di essere stata veramente piccola, ricordo il rumore minimo della matita sulla carta con l’euforia di un pacco da scartare, stavo alla sua sinistra e seguivo la sua mano mentre il suono mi accarezzava, era mio”. Ripesco questo scritto di tanto tempo fa, che racconta di un’emozione provata da bambina nell’osservare mio padre che disegna per me di ritorno dal lavoro. L’arte è sempre stata fonte di forti emozioni, una sorta di innamoramento reiterato che ha acceso poi la mia curiosità di andare sempre più in profondità per scovare l’origine del tutto: la ricetta del come fare, come raggiungere quell’essenza silenziosa che l’arte muove. Gli episodi e gli incontri sono stati tanti, fin da piccola ho visto biennali e mostre e a casa venivano spesso amici artisti; quello che mi è rimasto più impresso sono brevi frasi caustiche, parole apparentemente di poca importanza che sono rimaste a maturare in me fino a farsi capire ben più tardi. L’artista semina il dubbio nel bambino. Le parole degli artisti sono importanti e tu, Gabriele, lo sai. Tra le mostre che ricordo con più intensità c’è l’incontro con l’opera di Fausto Melotti al piano terra di Palazzo Fortuny a Venezia, avevo circa quindici anni e poco più tardi ricordo di essere rimasta inchiodata davanti ad un Jean-Michel Basquiat in una galleria di Salisburgo, il quadro era appeso negli uffici retrostanti e i galleristi mi invitarono ad entrare, credo si siano fatti delle gran risate vedendo i miei occhi sgranati e luccicanti! Idem una decina di anni dopo alla fiera Arco di Madrid, di fronte ad un’opera di Doris Salcedo, lì ero già grande, decisa a fare l’artista, la testa rasata e i lacrimoni di fronte ad un mobile incastrato nel cemento.

Che studi hai fatto?

Dopo aver frequentato il Liceo Artistico di Treviso mi sono iscritta all’EPIAR di Nizza (École Pilote Internationale d’Art de Recherche, Villa Arson): è una scuola d’arte all’interno di un centro espositivo che parallelamente organizza residenze artistiche. All’epoca furono invitati artisti come Franz West, Martin Kippenberger, Paul McCarthy e tanti altri, e per una giovane, misoginia a parte, era interessante essere confrontati ad un ambiente artistico così attivo. Si tratta di un centro di matrice concettuale, a quell’epoca era il video che andava per la maggiore, la mia era una posizione non propriamente in accordo con la tendenza del posto, quello che mi interessava era il fatto che non fosse richiesto scegliere un indirizzo e che si potessero fare esperienze con vari media a seconda del progetto: questa fu la ragione per la quale mi iscrissi lì e non a Venezia, che nei primi anni Novanta era completamente in abbandono. Nel ’94 partecipai ad un corso di disegno presso la Fondazione Ratti tenuto da Markus Luperz e Gérard Titus-Carmel: la proposta della Fondazione era quella di invitare due artisti con tendenze opposte e farli intervenire separatamente, passammo circa tre settimane a disegnare dalla mattina alla sera, all’interno di una chiesa con ragazzi che venivano da tutta Europa, fu bellissimo. Lì incontrai un’amica che studiava scultura a Carrara, così iniziai a frequentare la città e ad osservare tutte quelle tecniche tradizionali che da noi erano bandite.

Silvia Vendramel seduta su Embryology di Magdalena Abakanowicz, Padiglione della Polonia, Biennale di Venezia, 1980
Silvia Vendramel seduta su Embryology di Magdalena Abakanowicz, Padiglione della Polonia, Biennale di Venezia, 1980
Silvia Vendramel, Carrara/La sculpture (1997; silicone e ferro). Teké Tabularasa Gallery, Carrara. Foto: Marco Paolini
Silvia Vendramel, Carrara/La sculpture (1997; silicone e ferro). Teké Tabularasa Gallery, Carrara. Foto: Marco Paolini
Tra lo studio, 2015, Liceo Artistico di La Spezia. Foto: Benvenuto Saba
Tra lo studio, 2015, Liceo Artistico di La Spezia. Foto: Benvenuto Saba
L’attenzione è tessuto novissimo, 2016, Villa Pacchiani, Santa Croce sull’Arno, Pisa. Foto: Nicola Belluzzi
L’attenzione è tessuto novissimo, 2016, Villa Pacchiani, Santa Croce sull’Arno, Pisa. Foto: Nicola Belluzzi

A Carrara ti sei iscritta all’Accademia o sei andata attratta dalla scultura?

No, l’Accademia non mi interessava, mi interessava imparare a lavorare il gesso e mi interessava la formatura, cioè l’esecuzione dei calchi e l’uso del silicone. Andavo a Carrara per brevi periodi e osservavo gli amici alle prese con tutte quelle tecniche che da noi non si imparavano; poi, allo Studio Nicoli, Louise Bourgeois faceva realizzare i suoi pezzi in marmo così andavo a sbirciare i lavori in anteprima!

Un bel privilegio! L’hai mai incontrata di persona?

Sì, l’ho incontrata nella sua casa di Chelsea a New York nel 2008, ero lì per il Premio New York vinto nel 2007, sapevo che era possibile partecipare alle sue domeniche dove riceveva gli artisti che volevano parlare del proprio lavoro: fu emozionante, era già molto anziana e morì pochi anni dopo. Abitava in una tipica casa americana con le scalette di pochi gradini. La più malconcia era la sua, dentro era come la casa della nonna, piena di vecchi manifesti e locandine di tutta una vita di mostre, poi c’era un salottino con lei e la sua assistente pronte a riceverci, un tavolo basso pieno di ogni tipo di alcolici e bevande, lei beveva Coca-Cola con la cannuccia da una lattina dentro ad una tazza di latta (poi le ho dedicato un ritratto). Eravamo quattro artiste provenienti da paesi diversi, lei ascoltava con attenzione e ogni tanto diceva “c’est ça, c’est ça, right”! Ricordo che quando espose alla Fondazione Prada di Milano, quando ancora la Fondazione aveva una “piccola” sede in centro, mi presentai all’inaugurazione con una rosa, ma lei non c’era, the artist was not present. L’ho molto amata anche per il suo carattere schivo e schietto.

A Carrara dopo queste presenze spot hai deciso di fermarti: che cosa ti ha attratto?

A Carrara sono tornata e ho preso casa circa vent’anni dopo, attratta da una certa genuinità delle persone che vi abitano e che, a mio avviso, proviene dall’amore per un mestiere tramandato di generazione in generazione: una profonda conoscenza della scultura e le sue tecniche. Carrara è un luogo abituato da sempre a ricevere forestieri in cerca di materia ed ispirazione. Adesso purtroppo la città subisce una gestione medioevale e sopravvive a malapena tra l’omertà ed il non essersi saputa adeguare alle esigenze del tempo spregiudicato in cui viviamo. Quando l’ho scoperta avevo circa vent’anni e devo dire che, a me, che arrivavo dal Veneto passando per la Francia, Carrara è servita per scoprire un’Italia che non conoscevo.

A Carrara hai stabilito delle relazioni con altri artisti?

Certo, nei quindici anni trascorsi in quella zona ho cambiato diversi studi e gli incontri, le mostre e le collaborazioni sono state tante.

Con chi hai stretto i legami più forti?

L’amicizia tra artisti non è cosa semplice, si sa: forse uno degli aspetti più tristi dell’amicizia, più ancora dell’amore per quanto mi riguarda, è che può esaurirsi, bisogna saperne approfittare come il più bel regalo. L’andamento della vita, gli impegni, la carriera, il cambio di ruolo possono essere fatali e disperdere quella che, per un periodo, è stata una grande intesa. A questo proposito ho trovato sconvolgente il film Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh, proprio perché porta alla luce ciò che io percepivo come un tabù: l’ammissione di non sopportare più la persona a cui siamo stati legati, accettare il cambiamento, tagliare, strapparsi via. Tra i miei legami più stretti c’è Fabrizio Prevedello, un amico, con lui mi sento a casa, condividiamo scelte e stile di vita, gli scambi in studio, le critiche fuori dai denti e le lunghe discussioni durano ormai da anni. In fondo l‘amicizia è anche una questione di tempo, ci si fa da specchio l’un l’altro ricordandoci a vicenda chi siamo e siamo stati. Un altro legame intenso è nato dalla collaborazione con le artiste Elena Carozzi, Beatrice Meoni, Phillippa Peckham e Maja Thommen. Per circa due anni abbiamo collaborato assiduamente frequentando gli studi di ognuna di noi in gruppo, osservando il lavoro, sollevando domande e richieste e dando forma a vari progetti. Coscienti di desiderare uno scambio tra artiste donne, il tentativo era quello di sperimentare la vicinanza di linguaggi assolutamente lontani mantenendo viva la condivisione della ricerca e sopprimendo l’autorialità. Silvana Vassallo della galleria Passaggi Arte Contemporanea e la curatrice Ilaria Mariotti sono state entrambe attente sostenitrici del progetto per poi diventare nel tempo, amiche.

Particolare della mostra Slittamenti e margini con Beatrice Meoni, 2018, Galleria Passaggi Arte Contemporanea, Pisa. Foto: Nicola Belluzzi
Particolare della mostra Slittamenti e margini con Beatrice Meoni, 2018, Galleria Passaggi Arte Contemporanea, Pisa. Foto: Nicola Belluzzi
Lunedì o martedì, 2018, GAFFdabasso, Milano
Lunedì o martedì, 2018, GAFFdabasso, Milano
Incontro con gli studenti del Liceo Artistico LAS, durante l’allestimento della mostra Tra lo studio, 2015
Incontro con gli studenti del Liceo Artistico LAS, durante l’allestimento della mostra Tra lo studio, 2015
Paper weight, Cantiere/Residenza Dolomiti Contemporanee 2015
Paper weight, Cantiere/Residenza Dolomiti Contemporanee 2015
Silvia Vendramel, Soffio#17 (2014; vetro soffiato nel metallo, 27 x 26 x 24 cm). Foto: Nicola Belluzzi
Silvia Vendramel, Soffio#17 (2014; vetro soffiato nel metallo, 27 x 26 x 24 cm). Foto: Nicola Belluzzi
Silvia Vendramel, Soffio#20 (2014; vetro soffiato, metallo, mdf, 180 x 45 x 45 cm) e Beatrice Meoni, Good vibrations (2016; olio su seta, 120 x 75 cm), L’attenzione è tessuto novissimo, 2016, Villa Pacchiani, Santa Croce sull’Arno, Pisa. Foto: Nicola Belluzzi
Silvia Vendramel, Soffio#20 (2014; vetro soffiato, metallo, mdf, 180 x 45 x 45 cm) e Beatrice Meoni, Good vibrations (2016; olio su seta, 120 x 75 cm), L’attenzione è tessuto novissimo, 2016, Villa Pacchiani, Santa Croce sull’Arno, Pisa. Foto: Nicola Belluzzi
Silvia Vendramel, Nido (2022; vetro soffiato nel metallo e urna, 30 x 40 x 23 cm). Foto: Camilla Maria Santini
Silvia Vendramel, Nido (2022; vetro soffiato nel metallo e urna, 30 x 40 x 23 cm). Foto: Camilla Maria Santini
Silvia Vendramel, Soffio#13 (2014; vetro soffiato all’interno di frutti di Proboscidea fusi in bronzo, 15 x 17 x 14 cm). Foto: Nicola Belluzzi
Silvia Vendramel, Soffio#13 (2014; vetro soffiato all’interno di frutti di Proboscidea fusi in bronzo, 15 x 17 x 14 cm). Foto: Nicola Belluzzi

Che dinamica di innesco avete seguito per attivare questa collaborazione sul piano del lavoro materiale?

Tutto è partito dall’interesse per lo studio, da quel luogo così particolare dove il pensiero prende forma. Quello che più ci interessava era osservare le fasi di elaborazione dell’opera, condividere i dubbi e le possibilità che si affacciano mentre il linguaggio prende forma. In maniera spontanea è nato il desiderio di fare proprie certe suggestioni dell’altra come rispondendo ad un richiamo. Raramente si è trattato di lavori a quattro o più mani, ma piuttosto di rendere fluido il passaggio tra le diverse voci; il punto era spostare il proprio baricentro verso l’altra nella ricerca di un nuovo equilibrio, era bello mettersi in ascolto, uscire dai propri interessi per incontrarne di nuovi ed inattesi, era una vera e propria volontà di uscire dal proprio centro, un’operazione delicata che richiedeva accoglienza e cura per l’altra e un certo coraggio per rispettare la propria autonomia. Questi esperimenti hanno dato vita a diverse esperienze, tra le quali una prima mostra intitolata Tra lo studio e più tardi L’attenzione è tessuto novissimo. Nella prima, su invito di Enrico Formica al Liceo Artistico di LaSpezia, abbiamo invitato gli studenti a partecipare alla messa in opera della mostra, volevamo che i ragazzi partecipassero alle nostre discussioni rispetto a ciò che avviene durante un allestimento. Nell’altra, qualche anno dopo a Villa Pacchiani e curata da Ilaria Mariotti, le sale erano abitate da opere elaborate nel tempo e nate dalle stesse istanze di cui ti ho raccontato. Il progetto è poi proseguito con la sola collaborazione con Beatrice Meoni intitolandosi Pratiche di scambio.

In che modo gli studenti del liceo hanno reagito alle vostre sollecitazioni?

Credo che i ragazzi fossero inizialmente intimiditi poiché in fondo avevamo l’età delle loro madri ma per noi questo era un fatto interessante perché poteva mostrare loro una maggiore varietà di modelli femminili. Si parlò di vicinanza e di relazione con lo spazio e furono fatte delle piccole azioni, per esempio, mentre loro facevano gruppo, noi ci avvicinavamo un po’ troppo a loro, creando inizialmente un certo disagio che poteva essere utile per capire cosa succede in una mostra quando alcune corde sensibili vengono sollecitate, quando per osservare ed entrare nel lavoro dobbiamo avvicinarci ed allontanarci, concetti basici ma a mio avviso importanti per andare oltre ad uno sguardo superficiale.

Mi interessa questa idea dell’abitare un luogo ci sento dentro il palpito vitale dei tuoi soffi, il vetro che attraverso l’energia del soffio, che lo dilata, abita un luogo vitalizzandolo. Quale è l’idea che fa nascere questi lavori?

L’idea alla base del ciclo di lavori intitolato Soffi è il senso di appartenenza e le sue contraddizioni, è un confronto diretto tra una sorta di gabbia e la massa vitrea che al suo interno si fa spazio adattandosi ai vincoli imposti. Formalmente parto da oggetti di famiglia in metallo, oggetti decorativi, spesso leziosi, dei quali mi servo per dar forma a degli spazi vuoti dentro ai quali faccio soffiare il vetro fino al limite del collasso.

Sei interessata alla dimensione mnemonica che questi oggetti portano con sé?

Questi lavori nascono dalla reazione ad uno stato d’animo di insofferenza, il processo che li genera mi dà modo di elaborare formalmente il sentimento di partenza per trasformarlo ed andare oltre. La memoria, di cui gli oggetti che scelgo sono testimoni, è una componente del lavoro insieme ad altri elementi, ma la scultura nel suo farsi agisce in forma quasi autonoma trasformando oggetto e contenuto.

Dove hai iniziato a fare questi lavori?

Quando è nato per la prima volta il desiderio di utilizzare il vetro, ho avuto la fortuna di incontrare un artigiano che aveva un laboratorio in cima ad un colle nella provincia di Pisa, un giovane americano innamorato della soffiatura che realizzava il lavoro in completa autonomia, Isack Listad, un compagno di avventura senza pari. La maggior parte dei pezzi li ho realizzati con lui.

L’idea di usare il vetro nasce dalla consapevolezza di una tradizione legata alle tue origini?

Direi di no, sono nata a Treviso, ma non credo che la scelta del vetro abbia a che vedere con le mie origini, il primo pezzo realizzato era un centro tavola in ferro battuto con all’interno un contenitore in vetro rosso scarlatto. Un giorno, frugando in soffitta, ho ritrovato la struttura in metallo, la cui parte in vetro era andata perduta, era un oggetto che aveva fatto parte della mia infanzia, il tralcio di vite simulato in metallo mi è apparso come un’arteria e ho provato il desiderio di riempirne il vuoto.

Calchi in metallo per la fusione di parti di giocattoli, Cartografia sensibile 2022, Cars Omegna
Calchi in metallo per la fusione di parti di giocattoli, Cartografia sensibile 2022, Cars Omegna
Silvia Vendramel, P186 (2022; stampa a secco su carta Zerkall 600 gr, 39 x 38 cm), Cartografia sensibile, 2022. Foto: François Fernandez
Silvia Vendramel, P186 (2022; stampa a secco su carta Zerkall 600 gr, 39 x 38 cm), Cartografia sensibile, 2022. Foto: François Fernandez
Silvia Vendramel, Caso armato (2022; stampa a secco su carta Zerkall 600 gr, 56 x 38 cm). Cartografia sensibile, 2022. Foto: François Fernandez
Silvia Vendramel, Caso armato (2022; stampa a secco su carta Zerkall 600 gr, 56 x 38 cm). Cartografia sensibile, 2022. Foto: François Fernandez
Silvia Vendramel, Di qualcosa il fondo, per qualcosa il coperchio (2016; sabbia compressa, tessuto, legno, dimensioni ambientali). Veduta della mostra Al tempo stesso, Galleria Teké Tabularasa, Carrara. Foto: Nicola Belluzzi
Silvia Vendramel, Di qualcosa il fondo, per qualcosa il coperchio (2016; sabbia compressa, tessuto, legno, dimensioni ambientali). Veduta della mostra Al tempo stesso, Galleria Teké Tabularasa, Carrara. Foto: Nicola Belluzzi
Silvia Vendramel, Di qualcosa il fondo, per qualcosa il coperchio (2016; sabbia compressa). Fasi di lavorazione in fonderia.
Silvia Vendramel, Di qualcosa il fondo, per qualcosa il coperchio (2016; sabbia compressa). Fasi di lavorazione in fonderia.
Al tempo stesso 2017, interventi nelle vetrine esterne, Galleria Teké Tabularasa, Carrara. Foto: Nicola Belluzzi
Al tempo stesso, 2017, interventi nelle vetrine esterne, Galleria Teké Tabularasa, Carrara. Foto: Nicola Belluzzi
Intervento nelle vetrine del Blu Corner di Carrara, Soffi e altre stanze, 2013. Foto Laf
Intervento nelle vetrine del Blu Corner di Carrara, Soffi e altre stanze, 2013. Foto Laf

Che importanza ha nel tuo lavoro l’objet trouvé?

Penso che molti saranno d’accordo con me nell’affermare che Duchamp abbia contribuito a minare magistralmente il panorama della creatività continuando, dopo più di un secolo, a darci del bei grattacapi rispetto all’originalità. Gli oggetti per gli artisti, da Duchamp in poi, sono strumenti di analisi, sono mezzi per raccontare l’essere umano, le sue manie e contraddizioni. Ciò che mi affascina degli oggetti è la loro storia, ciò che esprimono attraverso le tracce che recano, il racconto che suggeriscono. Quando scelgo un materiale o un manufatto cerco di esercitare una trasformazione affinché l’oggetto mantenga la sua identità ma sia leggermente spostato da essa, c’è un’ambiguità formale e visiva che mi interessa attivare per risvegliare una sorta di sguardo interiore. La scorsa estate ho partecipato ad una residenza presso l’ex fabbrica di giocattoli Faro (Cartografia sensibile 2022/ Cars Omegna) e visitando l’archivio ho trovato dei calchi in metallo risalenti al primo dopoguerra che servivano per produrre parti di giocattoli in alluminio. Erano degli oggetti graficamente molto interessanti, incavi ed il retro di alcuni di essi era zigrinato e non ne capivo il motivo: si trattava di pezzi di carro armato che erano stati riciclati, visto che a quell’epoca era difficile trovare ferro disponibile. Ecco che in un solo manufatto già si potevano leggere almeno due storie significative e io volevo dar seguito al racconto perciò ho deciso di stamparli su carta dando forma a dei bassorilievi leggerissimi, in questo modo l’oggetto subisce una manipolazione per cui continua ad esistere in forma nuova. Per rispondere alla tua domanda, l’objet trouvé nella sua definizione storica, non mi interessa perché è legato ad un linguaggio puramente concettuale che non mi appartiene.

Infatti credo anch’io che la questione dell’objet trouvé dai tempi di Duchamp si sia notevolmente complicata e che la sola dimensione concettuale rappresenti solo uno dei molteplici aspetti della questione. Per cui la domanda diventa questa: ai tuoi occhi la dimensione della discarica intesa come magazzino di forme, storie e idee ha un qualche fascino?

Secondo me tutto dipende dalla qualità del lavoro, dall’intensità con la quale viene creato, c’è una certa vibrazione che risuona in certe opere, una certa verità inconfondibile, il resto è malinteso, conformismo, banalità. Per tornare alla mia relazione con gli oggetti, vorrei parlarti di un’installazione intitolata Di qualcosa il fondo, per qualcosa il coperchio, composta un’opera in sabbia compressa, la cui forma è ottenuta dal riempimento di una mini-vasca da bagno (semicupio). Per dimensione e volume, la vasca capovolta rimanda a certi sarcofagi etruschi di medie dimensioni. Un giorno passeggiando a Carrara, mentre era in corso un trasloco, ho visto questa vasca caricata su di un’Ape car, capovolta e ad altezza occhio. Bella, silenziosa, con la sua storia di bagni presi e ripresi, con la sua superficie strappata dalle piastrelle e la sua sinuosità massiccia progettata per accogliere il corpo, mi è sembrata perfetta! I sarcofagi etruschi ed i loro segreti celati all’interno sono stati i fondatori della grande scultura moderna a partire da Henry Moore e tutte questi aspetti messi insieme hanno acceso in me il desiderio di dar forma ad una visione. Di nuovo si trattava di trasformare, di trovare il modo di dar vita al mistero. La tecnica della sabbia compressa viene usata in fonderia per riempire il vuoto interno alle forme, questi vuoti sono definiti anime. L’anima ha la caratteristica di essere solida e compatta ma facilmente frantumabile, questa vulnerabilità della materia insieme al rimando ai giochi in riva al mare, mi è sembrata accordarsi al mio progetto: vita, gioco e morte compattati in un’unica presenza. L’installazione è stata parte dell’esposizione personale Al tempo stesso alla Teké Gallery di Carrara e posta nel seminterrato del vecchio negozio trasformato in galleria. Il team della galleria si è fatto in quattro per star dietro alle mie esigenze, ripensando gli spazi interni per accogliere l’intero progetto che si allargava in tutti gli spazi interni e nelle 14 vetrine. Anche al Blu Corner di Carrara, altro spazio espositivo fortemente connotato e sede della galleria gestita da Nicola Ricci, ho esposto alcuni pezzi in sabbia compressa intitolati Senza troppo rumore. Negli anni trascorsi a Carrara, le esposizioni presso il Blu Corner sono state numerose e senza dubbio la più significativa è stata la personale Soffi e altre stanze dove, anche in quell’occasione, sono intervenuta nelle bellissime vetrine esterne. Tutto ciò per raccontare dei tuoi luoghi, Gabriele, che sono stati anche i miei e per darti un’idea della relazione che instauro con gli oggetti che cerco e incontro.


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