Erompe dalla corteccia una ninfa dei boschi: la “Ninfa rossa” di Plinio Nomellini


La “Ninfa rossa” di Plinio Nomellini è uno dei massimi capolavori della fase simbolista della sua carriera. Dipinta attorno al 1904, fu esposta per la prima volta alla Biennale di Venezia del 1905.

Una ninfa incede nel folto del bosco, e con le mani dolcemente s’inghirlanda il capo fulvo. La luce del tramonto avvampa e inonda di rosso vermiglio la selva fitta e riarsa: al centro, il tronco spesso e altero d’un leccio. Sotto, un tappeto d’arbusti invade il terreno, con le sterpaglie che giungono fin quasi alle ginocchia dell’eterea creatura silvana. Sopra, cascate di rami e foglie tremule disegnano fitti arabeschi che coprono l’orizzonte, il profilo del paesaggio, i raggi del sole che a fatica trovano una via tra le fronde per far rosseggiare l’intrico della foresta. Più indietro, alle spalle del leccio, defilate, stanno due figure maschili, che paiono quasi incerte se attardarsi a guardare la ninfa, o continuare il loro lavoro con falci e attrezzi da contadini. Lei appare incurante dei due uomini, la loro indiscreta presenza non scalfisce la morbida delicatezza del gesto delle braccia, piegate per sistemare la corona di fiori sui capelli, la tenerezza misteriosa dello sguardo fremente in controluce, l’elegante leggerezza del passo che la condurrà chissà dove.

Sfogliando gli annali della Biennale di Venezia, la Ninfa rossa di Plinio Nomellini è registrata all’edizione del 1905, la quarta: era quella la prima occasione in cui il grande livornese esponeva al pubblico la sua fanciulla del bosco, che nel giro di quattro anni avrebbe partecipato ad altre tre esposizioni, per esser poi venduta per mille lire, nel 1909, a un collezionista genovese. L’accoglienza che la critica serba al quadro non è però sempre delle più entusiastiche: quando Nomellini porta la ninfa alla settantasettesima Esposizione Internazionale di Belle Arti in Roma, nel 1907, Giacinto Stiavelli, nel recensire la mostra su Ars et Labor, la definisce “troppo accesa”, e il suo autore “un artista che, da un pezzo a questa parte, par non veda altro colore che quello del sangue”, un pittore dal “ripetersi continuo” che “non può piacere” o tutt’al più “stanca”, e che deve “tenere un po’ a freno” la sua fantasia. Ma fortuna vuole che Nomellini non abbia accolto il suggerimento di Stiavelli e che, al contrario, abbia continuato a farla lavorare senza sosta, quella fantasia che a inizio del secolo lo ha reso uno dei grandi del simbolismo italiano, in una delle stagioni più felici della sua carriera lunga e versatile.

I prodromi di questo suo interesse per immagini in grado di superare la realtà fenomenica van ricercati nei cinque mesi trascorsi nel carcere genovese di Sant’Andrea, dove Nomellini era stato rinchiuso con l’accusa di far parte d’un gruppo d’anarchici sovversivi. Il pittore, attraverso le sbarre della sua cella, vede il mare: la danza multiforme e multicolore dell’acqua, la visione della luna che la fa brillare di guizzanti baluginii, il fuoco dei tramonti che l’arrossano e il moto delle onde che la fanno biancheggiare sono sufficienti a mutare il sentire del pittore. “Si annegano nell’oblio tutti i miei tristi pensieri ed io sento che il mio corpo vivrà di gioiose sensazioni come le stelle luccicano di vividi luccichii sopra a me, e qui davanti ho tutto un mareggio rosseggiante di garofani rossi che m’incensano fino allo assopimento”: è Nomellini che scrive a Diego Martelli e che, appena riconquistata la libertà, torna a vedere il mare, e questa volta senza le grate della prigione a ostacolare la sua visuale.

Plinio Nomellini, La ninfa rossa (1904 circa; olio su tela, 101,5 x 84 cm; Galleria Goldoni, Livorno)

Nomellini abbandona così la fiamma della passione politica e si dedica a quella della poesia: ne sortiscono vedute in sintonia con la celeberrima formula di Henri-Frédéric Amiel (un paysage est un état de l’âme , “un paesaggio è uno stato d’animo”), dipinti che trasfigurano la realtà per consegnarla a sfavillanti visioni oniriche, notturni evocativi, scene che rimandano a repertorî mitologici o che intendono ridestare ricordi lontani, sensazioni sopite, vaghezze nascoste. In questi anni, Nomellini giunge, ha scritto lo storico dell’arte Silvio Balloni, a “una pittura in cui si avverte l’individualità della percezione soggettiva, potente e idealizzante”: un’arte “dove forme e colori sono modellati dallo spirito, e dunque diventano lentamente, grazie agli espedienti della tecnica divisionista, un riflesso dell’ampiezza e dell’eterogeneità dei nostri stati d’animo, mai lineari o univoci, e sempre infinitamente complessi”.

La Ninfa rossa, in tal senso, non ha niente di naturale: ha abbandonato il mondo del fenomenico per assurgere a quello del sogno, dell’idillio mitologico, della rigenerazione non per tramite delle lotte sociali, ma per tramite della natura, in uno slancio di pienezza panica che pare dar forma, corpo e immagini ai versi di Gabriele d’Annunzio: ed è ben noto come, tra il pittore e il poeta, ci fosse stima reciproca. Entrambi, in quegli anni, condividevano gli stessi luoghi, dacché s’erano stabiliti in Versilia. “L’Ellade sta fra Luni e Populonia”, aveva scritto d’Annunzio nei versi immortali dell’Alcyone: da qui, da questa terra al confine tra Liguria e Toscana, avrebbe preso avvio la rinascita della civiltà greca attraverso la poesia, qui il vitalismo dannunziano giunge ai suoi vertici, qui l’uomo s’identifica con le piante, gli animali e i minerali e diventa una divinità. E una divinità è la Versilia stessa, che nell’Alcyone, nella lirica che subito segue il terzo ditirambo, è una ninfa dei boschi che fuoriesce da un albero e si fa incontro al poeta. E mentre leggiamo i versi di Gabriele d’Annunzio forse la immaginiamo prender le forme della ninfa dipinta da Nomellini: “Non temere, o uomo dagli occhi / glauchi! Erompo dalla corteccia / fragile io ninfa boschereccia / Versilia, perché tu mi tocchi. [...] / Io ti spiava dal mio fusto / scaglioso; ma tu non sentivi, / o uomo, battere i miei vivi / cigli presso il tuo collo adusto. / Talora la scaglia del pino / è come una palpebra rude / che subitamente si chiude, / nell’ombra, a uno sguardo divino”.

E la Versilia si fa “approdo salvifico e matrice di nuovi afflati idealistici”, per adoperare ancora le parole di Silvio Balloni, diventa agognata Ellade rigeneratrice, si trasforma in terra di sogno che prende le forme d’una ninfa vestita di rosso, soave apparizione nella vampa rutilante del bosco. Un’estasi dove la presenza umana, la presenza divina e la presenza naturale si fondono nella pennellata sfaldata, ruvida, grossa, furibonda e filamentosa di Nomellini, che anche con la tecnica decide d’andar contro il dato retinico per consegnare al riguardante un’epifania visionaria, che celebra l’incanto della poesia, lo splendore inebriante dell’estate, la calda meraviglia della Versilia.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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