Le spiagge di Alex Katz, l'estate che non finisce mai


Il pittore americano Alex Katz è noto anche per aver trasformato le spiagge del Maine in icone di luce e forma. Tra eleganza minimalista e distacco emotivo, le sue tele raccontano un’estate senza tempo, dove figure e paesaggio diventano pura composizione visiva.

Nella pittura di Alex Katz (New York, 1927), uno dei nomi di spicco del New Realism americano, l’estate non finisce mai. Non è però un’estate come la intendiamo in Italia: l’estate di Katz va semmai pensata come un’estate tranquilla, lontana dalle vacanze di massa, come un mondo distillato di luce accecante, figure eleganti e di silenzio. Sebbene la sua fama sia legata indissolubilmente ai ritratti monumentali che hanno ridefinito la pittura di figura nel secondo dopoguerra americano, le sue spiagge e i suoi paesaggi marini del Maine rappresentano un capitolo altrettanto fondamentale della sua ricerca artistica.

La geografia di queste opere ha il suo epicentro a Lincolnville, nel Maine, dove l’artista trascorre le estati dal 1954, epoca in cui ha cominciato anche a dipingere le sue prime opere “balneari”, anche se in realtà il grosso della sua produzione sulle spiagge comincia dagli anni Novanta. Tuttavia, per comprendere la sua sensibilità per la costa, la sua innata capacità di cogliere la ricchezza sensoriale della luce, della temperatura e dei venti, bisogna risalire alla sua infanzia. Katz è cresciuto a St. Albans, un tranquillo quartiere del Queens a New York, a pochi chilometri dall’Oceano Atlantico. È facile immaginare come quel paesaggio di paludi salmastre, piccole isole e spiagge luminose si sia impresso nella mente del giovane artista, spiegando quella che il pittore Peter Halley, in un breve saggio scritto per una mostra di Katz del 2002 alla galleria di Thaddaeus Ropac, dedicata proprio alle sue spiagge, definisce una “luminosità veneziana”, un’affinità con l’espansività e lo stile di un Veronese. Quella luce infantile è la stessa che si ritrova, decenni dopo, sulle coste del Maine.

Alex Katz, Lincolnville (1956; olio su tela, 122,4 x 178,6 cm; New York, Whitney Museum)
Alex Katz, Lincolnville (1956; olio su tela, 122,4 x 178,6 cm; New York, Whitney Museum) © Alex Katz
Alex Katz, Harbor #9 (1999; olio su tela, 243 x 610 cm)
Alex Katz, Harbor #9 (1999; olio su tela, 243 x 610 cm) © Alex Katz

Il Maine non è per Katz un semplice soggetto, ma una condizione dell’anima e dello sguardo. L’occhio dell’artista americano si concentra solitamente su elementi primari: l’acqua, il cielo, la linea dell’orizzonte, la vegetazione e, soprattutto, la luce: quella di Katz è una luce fredda, atlantica, che non scalda ma rivela, che non accarezza le forme ma le incide con precisione.

Spesso associato per convenzione alla Pop Art, Katz in realtà persegue un obiettivo squisitamente pittorico, riuscendo a riconciliare l’astrazione e il realismo dell’arte americana del dopoguerra in uno stile che lui stesso definisce “totalmente americano”. La sua figurazione è essenziale e intensa; le immagini sono elementari, luminose e dirette, espresse attraverso piani di colore taglienti e una prospettiva bidimensionale che, pur priva di connotazioni sentimentali, comunica una profonda risonanza psicologica. La sua pittura, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, si sviluppò come una reazione sia all’espressionismo astratto, di cui rifiutava la violenza gestuale e l’espressività cercando, al contrario, di essere meno espressiva possibile, sia alla Pop Art, cui Katz rispondeva concentrandosi su scene di vita quotidiana, rileggendole però con l’estetica delle illustrazioni commerciali.

Il vero protagonista di queste opere è il trattamento della luce. Katz la rende un’entità quasi solida, una lama che appiattisce ogni cosa, eliminando le ombre intermedie e riducendo il paesaggio e le figure a pure sagome cromatiche. È una luce che congela il tempo, tanto che nelle sue tele i bagnanti non sono praticamente mai individui colti in un momento di svago, ma forme essenziali inserite in una composizione rigorosa. Non interagiscono tra loro in modo convenzionale; la loro vicinanza fisica non implica una connessione emotiva, ma risponde a un’esigenza di equilibrio formale. Questa sensazione di distacco è accentuata dalla scala monumentale delle tele. Riproducendo scene intime su formati da cartellone pubblicitario, Katz crea un cortocircuito percettivo. L’immediatezza del soggetto si scontra con la monumentalità dell’esecuzione, costringendo lo spettatore a riconsiderare l’immagine non come una finestra sul mondo, ma come un oggetto pittorico autonomo.

Questo però non significa che nelle sue scene da spiaggia non ci sia un’indagine più profonda. “Si può anche facilmente osservare che Katz”, ha scritto Halley, “nei suoi dipinti di spiagge, ha documentato la massiccia migrazione della classe media verso le coste, in atto fin da quando era giovane, negli anni Cinquanta”. E l’artista ha un “occhio attento per la sociologia costiera”. Ma c’è anche altro: “In qualche modo, Katz stesso non mi è mai sembrato uno di questi immigrati legati all’acqua. La sua sensibilità alla ricchezza sensoriale della costa - la sua luce, la sua temperatura e i suoi venti - è troppo grande e lo contraddistingue in qualche modo come un nativo di questo ambiente. Katz sembra avere le sue spiagge, le sue paludi e l’oceano al di là di esse, al centro del suo essere”.

Alex Katz, Penobscot Morning (2000; olio su lino, 366 x 610 cm). Foto: Cavaliero Fine Arts © Alex Katz
Alex Katz, Penobscot Morning (2000; olio su lino, 366 x 610 cm). Foto: Cavaliero Fine Arts © Alex Katz
Alex Katz, Untitled (Beach scene) (2012; olio su lino, 152,5 x 305 cm). Foto: Monica De Carenas © Alex Katz
Alex Katz, Untitled (Beach scene) (2012; olio su lino, 152,5 x 305 cm). Foto: Monica De Carenas © Alex Katz

Molte di queste composizioni nascono da fotografie della spiaggia, altre invece sono ricavate da studi delle figure tratte dal vero. E le figure che popolano queste spiagge sono spesso membri della sua cerchia ristretta: la moglie e musa Ada, il figlio Vincent, amici e altri artisti. Tuttavia, anche quando ritrae i suoi affetti più cari, Katz mantiene un’inconfondibile freddezza analitica. Sono presenze stilizzate, e la loro interiorità rimane inaccessibile. Diventano parte del paesaggio stesso, elementi strutturali della composizione. In questo, la sua pittura si allontana radicalmente dall’introspezione psicologica di un Edward Hopper, con cui a volte è stato superficialmente paragonato. Se Hopper dipingeva la solitudine come una condizione esistenziale, Katz dipinge l’essere soli come un dato di fatto, uno stato di quiete che non necessita di interpretazione drammatica.

Le spiagge di Alex Katz sono, in definitiva, dei sofisticati esercizi di stile sul vedere. Rappresentano la decostruzione di un archetipo, ovvero la giornata al mare, con tutto ciò che ne consegue, per ricostruirlo secondo un nuovo lessico visivo. L’artista non chiede all’osservatore di sentire il calore del sole o il rumore delle onde, ma di osservare come la luce definisce un bordo, come un colore si accosta a un altro, come una composizione di figure possa generare un ritmo visivo. È un mondo di superfici impeccabili che celebrano la propria stessa, magnifica, bidimensionalità. Un’estate perpetua e immobile, fissata per sempre nella luce cristallina e implacabile della pittura.


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