Otobong Nkanga: arte per scavare nei sedimenti della storia


L’arte della nigeriana Otobong Nkanga è insieme poesia visiva e geologia politica che utilizza la materia come mezzo: le sue opere sono radici che affondano nel suolo dell’estrazione coloniale, della dispersione culturale, dell’identità frantumata.

Cosa accade quando la memoria di un luogo si sgretola tra le dita, come polvere di minerale estratto dalla terra? Otobong Nkanga scava nei sedimenti della storia, nelle fratture del paesaggio, nelle cicatrici invisibili della materia. La sua arte non si accontenta di essere vista: deve essere attraversata, percorsa con lo sguardo e con il corpo, come una mappa di significati stratificati. Nata in Nigeria nel 1974, Nkanga ha costruito una pratica artistica che è insieme poesia visiva e geologia politica. La sua ossessione è la materia: i minerali, i tessuti, le piante, l’acqua. Tutto ciò che è vivo e tutto ciò che è stato sfruttato fino a diventare inerme. Le sue opere sono radici che affondano nel suolo dell’estrazione coloniale, della dispersione culturale, dell’identità frantumata.

In Carved to Flow (2017), una delle sue installazioni più celebri, il sapone diventa metafora della diaspora, del viaggio, della trasformazione. Prodotto con oli e minerali provenienti da diverse parti del mondo, viene scolpito in blocchi scuri e solidi, che nel tempo si consumano, si dissolvono, vengono distribuiti. La materia si sgretola, si adatta, migra. Come la memoria. Come i corpi in movimento.

Otobong Nkanga. Foto: Ernst van Deursen
Otobong Nkanga. Foto: Ernst van Deursen
Otobong Nkanga, Carved to flow (2017; installazione). Veduta dell'installazione presso documenta 14, Kassel, Neue Galerie. Foto: Liz Eve
Otobong Nkanga, Carved to flow (2017; installazione). Veduta dell’installazione presso documenta 14, Kassel, Neue Galerie. Foto: Liz Eve
Otobong Nkanga, Infinite Yield (2015; arazzo, tessuto intrecciato in viscosa, merino, cotone biologico, mohair, 288 x 175 cm, ed. 6/6)
Otobong Nkanga, Infinite Yield (2015; arazzo, tessuto intrecciato in viscosa, merino, cotone biologico, mohair, 288 x 175 cm, ed. 6/6)

Nkanga lavora spesso con il tessuto: i suoi arazzi, come Infinite Yield (2015), non sono solo intrecci di fili, ma mappe del potere, della perdita, della connessione. In quest’opera, una figura umana si fonde con una struttura mineraria, come se la pelle stessa fosse minerale, come se la carne fosse roccia. L’estrazione non riguarda solo la terra, ma anche il corpo, la cultura, la lingua.

Ma la sua indagine non si ferma qui. In Landversation (2014), Nkanga dà voce alla terra in senso letterale e figurato. Questo progetto performativo e installativo è fatto di incontri, dialoghi e racconti intessuti con comunità locali. È un’opera che evolve continuamente, in cui le persone, con le loro parole e le loro esperienze, diventano parte stessa della creazione artistica. Le terre si parlano, attraverso chi le abita. Il paesaggio non è più sfondo, ma soggetto vivo, testimone e custode di passati intrecciati con il presente.

L’elemento vegetale, così spesso trascurato nelle narrazioni storiche, è un altro dei protagonisti nella sua ricerca. In Anamnesis (2015), Nkanga raccoglie e ricompone frammenti di piante e fiori che hanno viaggiato con l’uomo, come spettatori silenziosi della migrazione e del commercio. La vegetazione si fa testimone della storia coloniale, del transito forzato di persone e culture, di ciò che si perde e di ciò che rimane nelle tracce invisibili lasciate nel suolo.

Un’altra opera chiave della sua ricerca è Steel to Rust (2016), in cui la corrosione del metallo diventa una metafora delle economie estrattive e dei cicli di sfruttamento. Il ferro, simbolo della modernità industriale, si arrugginisce e si dissolve, ricordandoci che nulla è eterno e che anche le strutture più solide sono destinate alla trasformazione. Nkanga riflette sul paradosso di una civiltà che estrae risorse dalla terra per costruire, ma che finisce per generare entropia e decadimento.

La materialità del suo lavoro si scontra e si fonde con il tempo: il metallo che si ossida, il tessuto che si sfilaccia, il sapone che si consuma. Tutto si trasforma, e in questa metamorfosi risiede il senso più profondo della sua poetica. Il cambiamento non è solo un’inevitabilità, ma una rivelazione. I suoi lavori sono frammenti di una conversazione tra il presente e il passato, tra l’uomo e la materia che lo circonda.

Otobong Nkanga, Landversation (2014; installazione). Veduta dell'installazione a Dhaka, Bangladesh, 2020
Otobong Nkanga, Landversation (2014; installazione). Veduta dell’installazione a Dhaka, Bangladesh, 2020
Otobong Nkanga, Anamnesis (2015; compensato, garza, caffè, tè, spezie, cacao, tabacco grezzo, torba, 574 x 144 cm). Veduta dell'installazione presso Streamline, Deichtorhallen, Amburgo, 2015
Otobong Nkanga, Anamnesis (2015; compensato, garza, caffè, tè, spezie, cacao, tabacco grezzo, torba, 574 x 144 cm). Veduta dell’installazione presso Streamline, Deichtorhallen, Amburgo, 2015
Otobong Nkanga, Steel to Rust (2016; tessuto intrecciato di lino, poliestere, lana merino, viscosa, gomma Verdi, filato riflettente montato su telai in alluminio, due parti). Foto: Øystein Thorvaldsen
Otobong Nkanga, Steel to Rust (2016; tessuto intrecciato di lino, poliestere, lana merino, viscosa, gomma Verdi, filato riflettente montato su telai in alluminio, due parti). Foto: Øystein Thorvaldsen

Nulla è eterno, nulla è fisso. E in questa metamorfosi risiede la rivelazione: il cambiamento non è un’anomalia, ma una legge della materia e della vita. Nkanga ascolta il suono della terra, ne raccoglie le voci sparse, i sussurri sommersi nel suolo. Ci sfida a pensare ai luoghi non come semplici spazi, ma come corpi che assorbono e restituiscono memorie. Il suo lavoro non è solo denuncia, è anche un canto sommesso, un dialogo con ciò che ci precede e con ciò che rimarrà dopo di noi.

Le sue opere non offrono risposte, ma sollevano interrogativi profondi. Cosa significa appartenere? Dove finisce la nostra responsabilità nei confronti della terra? Siamo custodi o predatori del suolo che ci ospita? In fondo, come suggeriscono le opere di Nkanga, tutto è in movimento. La terra, le sue ferite, le sue voci. E noi, con lei, continuiamo a scavare, a cercare, a interrogarci sul peso della memoria e sulla leggerezza del passaggio.


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Federica Schneck

L'autrice di questo articolo: Federica Schneck

Federica Schneck, classe 1996, è curatrice indipendente e social media manager. Dopo aver conseguito la laurea magistrale in storia dell’arte contemporanea presso l’Università di Pisa, ha inoltre conseguito numerosi corsi certificati concentrati sul mercato dell’arte, il marketing e le innovazioni digitali in campo culturale ed artistico. Lavora come curatrice, spaziando dalle gallerie e le collezioni private fino ad arrivare alle fiere d’arte, e la sua carriera si concentra sulla scoperta e la promozione di straordinari artisti emergenti e sulla creazione di esperienze artistiche significative per il pubblico, attraverso la narrazione di storie uniche.



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