Serena Fineschi. “Assistere il buio” è un progetto di arte pubblica la cui genesi ha tempi lontani. Nasce nel 2014 in occasione della mia opera Stato di Grazia, nella quale ho interrotto l’illuminazione pubblica e monumentale dell’intero centro storico della città di Siena. La città è rimasta sospesa e colma di buio per tre minuti. Una sospensione oscura nella quale il centro storico si è coperto temporaneamente di nero, avvolto nel buio di un cortocircuito estetico ed emotivo.
Ero interessata alla possibilità, grazie al compimento di un segno puro e unico, quasi accidentale e furtivo, come si potesse trasformare, ribaltare, manipolare lo stato delle cose, lo spazio del quotidiano e, contemporaneamente, creare un’opera totale e totalizzante. Spegnere le luci della mia città, senza alcuna comunicazione preventiva alla cittadinanza, ha significato intervenire non solo sulla manipolazione architettonica o estetica ma prendersi cura del presente e delle presenze, per ritornare all’umano e all’urbano. Tornare ad ascoltare sé stessi e riflettere sul senso del nostro abitare il mondo, rallentare momentaneamente il tempo del nostro vivere coperti da qualcosa di buono da mettersi addosso. Stato di grazia è un melodramma diviso in tre atti emotivi dove spaesamento, tensione e quiete si susseguono nel tempo di un’intera esistenza, moderata e vissuta in pochi minuti.
Oggi, questo lavoro mi appare ancora più trasparente; un’opera pittorica monumentale in cui un colpo secco di buio trasforma lo spazio animato e inanimato in uno “stato di grazia”, quella condizione umanamente divina, assunzione di coscienza e conoscenza al di sopra di ogni immaginata bellezza, in cui tutto può accadere.
Undici anni dopo, l’idea di “Assistere il buio” è il luogo e lo spazio per condividere quella condizione superiore nella quale solo la bellezza e la meraviglia dell’arte può consolarci dall’oscurità che ci circonda. In questo viaggio, condiviso con altri sedici artisti che hanno deciso di accettare il mio invito a partecipare (Elena Bellantoni, Bianco-Valente, Gianni Caravaggio, Francesco Carone, Alice Cattaneo, Loris Cecchini, Fabrizio Cotognini, Elena El Asmar, Flavio Favelli, Loredana Longo, Maurizio Nannucci, Luca Pancrazzi, Fabrizio Prevedello, Remo Salvadori, Sissi, Giovanni Termini), numerose sono state le difficoltà ma altrettanti gli attimi di incanto. Diciassette opere permanenti nel centro storico di Siena sono il mio dono alla città nella quale sono nata.
In questo continuo stupore, l’intervento progettato da Flavio Favelli ha subito una forma di censura da parte delle istituzioni cittadine, lasciando frammentato il senso di meraviglia. L’opera è incompiuta, parziale, sfrangiata dei suoi contorni.
La censura nell’arte è un fenomeno complesso e controverso che ha attraversato secoli di storia, assumendo forme diverse a seconda del contesto politico, sociale e culturale. L’arte, per sua natura, rappresenta una forma di espressione libera e individuale, capace di esplorare temi disturbanti e di sfidare convenzioni precostituite.
Mi chiedo se la nuova richiesta di moralità rivolta nei confronti dell’arte si possa considerare un ritorno al passato. Certo è che, le disposizioni di regolamentazione dell’arte pubblica e un sempre più nevrotico approccio da parte di pubblico e istituzioni, sono un nuovo spazio sul quale costruire un dialogo. Rispetto al passato tutto è cambiato, proporzionalmente. Maggiore è la zona di movimento dell’artista e il suo fare, maggiore è la paura di limitare la sua “rappresentazione”. Nei linguaggi artistici contemporanei sono cambiati i paradigmi, si sono trasformati i riferimenti di etica ed estetica e diventa sempre più complesso comprendere quali siano i limiti (e se ve ne siano) ove si possano spingere gli artisti nella piena consapevolezza della loro libertà espressiva, sperimentazione, interpretazione e i vincoli (e se ve ne siano) imposti da valutazioni di natura politica, culturale e sociale.
Quindi, mi chiedo e ti chiedo, dove si colloca il confine tra libertà di espressione e responsabilità sociale? In un mondo in cui le immagini e le idee circolano in maniera rapida e incontrollata, è lecito chiedersi se la censura rappresenti un mezzo per garantire l’ordine pubblico o piuttosto uno strumento di controllo ideologico.
Flavio Favelli. Nella storia occidentale l’arte è sempre stata distante dal vero, rappresentazione, poi un territorio dove si poteva innovare e infine eccezione che conferma la regola, e proprio in virtù di questa eccezionalità, di questa “finzione”, gli artisti hanno potuto esprimersi con libertà, mostrando diversi punti di vista, in qualche modo “altri”, diversi e “contrari” da quello che passava il convento della società, della politica, del costume, della tradizione e della morale. Non permettere a questa eccezionalità di mostrarsi vuole dire minare la differenza fra Occidente e Oriente, dove il primo, nonostante crimini e ombre, ha permesso all’individuo di comprendere appieno il significato della libertà. Oggi il nostro paese è in guerra contro la Russia per difendere la libertà, che vuole dire libertà d’espressione non permessa nei paesi “orientali”. Credo che per l’artista non ci debba essere nessuna questione riguardo alla responsabilità: se l’arte non è reale, è finzione, come dovrebbe essere, il problema non si pone. È come l’immagine allo specchio, è un riflesso, è un fantasma e chi interpreta il fantasma come persona reale commette un grande errore. Purtroppo, oggi, insieme al potere, alla politica e all’istituzione, anche molti artisti vogliono dare all’arte un significato “reale”, ma non sanno che fanno il gioco proprio dei censori: entrambi piegano così l’arte verso un’idea di “bene” o a un qualcosa di “positivo”, presupponendo così di sapere cosa sia “bene” o “male” (proprio come la Chiesa di Roma), questione non pertinente all’arte e all’artista libero. L’impegno per “cambiare le cose” mette l’arte “coi piedi per terra”, facendola scendere allo stesso livello di faccende concrete, utili e spicce, così care al potere. Al cinema il sangue è sciroppo, chi lo scambia per sangue vero ha dei problemi.
SF. “Assistere il buio” è un progetto di arte pubblica. L’arte pubblica interagisce direttamente con una comunità, diventando parte integrante del paesaggio quotidiano e contribuendo a ridefinire il significato degli spazi comuni. Cos’è per te fare arte pubblica e quali sono le riflessioni che ti hanno portato a realizzare il tuo intervento per “Assistere il buio”?
FF. Ho fatto molte opere nello spazio pubblico pur non aderendo all’ideologia dell’Arte Pubblica che, come disse uno dei suoi padri, Alberto Garutti, ha lo scopo di parlare dei cittadini e ai cittadini, scopo per me poco interessante e, fra l’altro, molto pericoloso. Bisogna capire cosa si vuole dare alla società: o quello che si aspetta oppure dare un punto di vista diverso e nuovo e la novità, in un paese come l’Italia, che viene da una cultura rurale e spesso sottosviluppata, è sempre un problema. Il cittadino italiano, generalmente conservatore, vorrebbe sempre una continuità col passato che in Italia è la grande arte, ma questo significa un paesaggio immobile, blindato dai ciambellani della soprintendenza che interpretano sempre in modo conservatore qualsiasi progetto di arte contemporanea. Rimane così un paesaggio che riflette un’idea di bellezza statica e anacronistica e soprattutto consolatoria. L’articolo 9 della Costituzione dice: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura” e poi cita la tutela, ma la realtà è che avviene sempre il contrario. C’è una grande difficoltà a promuovere l’arte nello spazio pubblico. Nella rossa Bologna, nella città del DAMS e del progresso, l’ultima opera permanente in una piazza storica è stata fatta nel 1972 (sic!) coi cilindri di Arnaldo Pomodoro, più di mezzo secolo fa. C’è una specie di imbarazzo a considerare l’opera dell’artista contemporaneo, come se fosse per sua natura inferiore all’arte del passato. Per me fare arte nello spazio pubblico significa certo cercare di comprendere il contesto, ma sempre anteponendo la mia poetica al territorio, perché il ruolo dell’artista è quello di dare immagini diverse, mentre la comunità vuole solo conservare il preesistente. L’artista consapevole è figlio dell’Avanguardia, a cui si riconoscono grandi idee e valori che non possono essere condivise da una società educata generalmente dalla TV e dai social media. Le domande che mi pongono cittadini e amministratori, in tanti interventi realizzati, sono sempre le stesse e sono due: cosa vuole dire? Ma cosa c’entra? Ma deve dire sempre qualcosa? Qualcosa di preciso? Preferibilmente bianco o nero? E deve c’entrare sempre col contesto? E se non fosse in armonia o a tema col territorio, cosa succederebbe? Turberebbe i sonni di un cittadino spesso annoiato? E tutta l’arte del Passato, con la P maiuscola, quella a cui si rifanno tutti, è stata sempre a tema? E il tema quale sarebbe stato? Una specie di canone dell’antico che abbraccia una dozzina di secoli? O forse stiamo parlando solo dell’orizzonte visivo del cittadino che contempla solo quello in cui è nato e che forma la sua identità che da un campanilismo pittoresco si è trasformata in un rabbioso sovranismo? A San Casciano Val di Pesa, Mario Merz mise un cervo sulle mura alla fine degli anni Novanta. Accolto con polemiche, oggi è diventato simbolo di una squadra di calcio locale e fa parte del paesaggio del paese difeso con orgoglio. Se si facesse partecipare la comunità, come fanno molti artisti e auspicano molti critici, si avrebbe un’opera condivisa, ma generalmente credo che non possa giovare a nessuno, se non calmare certi animi reazionari o a soddisfare l’ideologia del politicamente corretto. L’opera d’arte non può essere smussata, misurata, contrattata solo per coincidere al gusto di qualcuno che critica su Facebook. La mia pratica, in un contesto pubblico, è spesso quella di riproporre semplicemente un’immagine, un documento già esistente, che il contesto stesso aveva creato. Lo slogan che ho presentato era stato ideato da una famosa azienda di Siena che per tanti ha rappresentato la città stessa. L’ho solo riproposta, come opera d’arte. E invece.
SF. Il tuo intervento ha subito una forma di censura da parte delle istituzioni cittadine. In queste ultime settimane mi sono chiesta se avessimo commesso delle leggerezze; la stanchezza mi ha resa fragile come avessi scarsa resistenza al vento. Poi, lentamente, le sapienti parole di un’anziana signora si sono fatte spazio nella mia memoria: “al vento non si resiste, dal vento ci si lascia accarezzare, dal vento ci si lascia consigliare”. E il vento mi ha spinto fino a qui.
L’intervento è temporaneamente visibile nell’ingresso della Fondazione Palazzo Chigi Zondadari a Siena, grazie alla sensibilità e alla disponibilità di Flavio Misciattelli. Un prezioso e intimo Salon des Refusés che permette a chiunque di fruire la tua opera, direttamente dalla strada, senza alcun vincolo. Un intervento che ci esorta a cambiare il nostro modo di vedere, invitandoci a riflettere sul tempo, sulla memoria e sull’identità con la poesia che contraddistingue l’operare di Flavio Favelli.
In un periodo storico come quello che stiamo vivendo, colmo di superficialità, arroganza e pressappochismo, qual è la responsabilità e la sensibilità dell’artista chiamato ad intervenire in uno spazio pubblico?
FF. Siamo in un periodo populista. Che vuole dire che basta un commento indirizzato al profilo social di un politico o di un giornale, che viene innescata una polemica, grande spettro dei governi e dell’industria che vorrebbero una società regno dell’armonia, termine caro e perseguito, ad esempio, dalla Repubblica Popolare Cinese. Ma tratto del pensiero libero e dell’arte consapevole è anche la polemica; la lingua batte dove il dente duole e questo anziché essere visto con interesse, viene respinto con fermezza, a destra come a sinistra. Soprattutto non c’è coraggio, nessuno che dica semplicemente una cosa: l’arte è l’arte e va difesa. Invece è proprio la politica, composta da persone troppo semplici e inadeguate, che legge l’opera in modo superficiale e letterale, esattamente come fa la persona della strada.
SF. La tua poetica esplora il rapporto tra passato e presente attraverso l’uso di oggetti d’arredo o d’uso quotidiano che evocano gli ambienti della tua infanzia e della tua crescita. Una necessità che parte dalla tua storia personale, per riflettere sulla più ampia dimensione sociale e politica del nostro paese. L’intervento realizzato per “Assistere il buio” affronta una delle tematiche ricorrenti nel tuo lavoro: l’immagine pubblicitaria che diviene memoria, storia e identità di un luogo. Puoi parlarmene in modo più puntuale?
FF. L’Italia, oltre ad essere il paese dei balocchi, è quello di Carosello. E Carosello mostrava la grande ambiguità della cultura italiana verso la merce e i soldi. Nonostante il paese sia stato da sempre una terra di mercanti, di mercati, di botteghe e grandi affari, per una specie di pudore da dopoguerra e catto-comunista, il prodotto e la merce venivano vista con sospetto, con imbarazzo, per cui la reclame veniva presentata come una scenetta interpretata da grandi attori e solo alla fine compariva il prodotto, quasi fosse lì per caso. Ma come si dice, le cose rimosse prima o poi si ripresentano. E venne Mike Bongiorno, uno dei padri del paese e poi l’Uomo Nuovo e i consigli per gli acquisti. La pubblicità, spesso fatta da importanti creativi, fa parte della cultura italiana, ma è stata sempre snobbata, per fare credere che in realtà si seguono valori più alti e spirituali. Troppe volte creativi, stilisti, imprenditori e collezionisti parlano di sé stessi come se fossero dei padri spirituali, come se si occupassero di cose immateriali. Il prodotto, a maggior ragione il cibo, è invece un intreccio di storia e identità che evocano immagini e pensieri e ripercorrono le nostre vicende. Lo slogan che ho voluto riportare sul lampione semplicemente descrive la città attraverso il cibo, perché il cibo, oltre ad essere uno dei pilastri dell’identità italiana, è una delle ossessioni del paese.
SF. Per la tua opera hai scelto di mostrare lo slogan pubblicitario di una nota azienda produttrice di panforte, dolce senese legato al periodo natalizio, che recita: “Chi dice Palio dice Siena, chi dice Panforte dice Sapori”. Nata a Siena nel 1832 da un’intuizione di Virgilio Sapori, l’azienda è stata uno dei poli produttivi più importanti del territorio, veicolando l’immagine della città nel mondo, attraverso la sua produzione dolciaria. Da vent’anni, la città è orfana di una delle sue attività economiche di rilievo che si è trasferita altrove.
L’uso di questo slogan è la motivazione per la mancata accettazione del tuo intervento, imputato di diventare una forma di pubblicità nei confronti del marchio che, tra l’altro, hai accettato di non citare, rimuovendolo dal tuo progetto esecutivo: “Chi dice Palio dice Siena, chi dice Panforte dice…”. Quale è la differenza tra il tuo intervento e un mero messaggio pubblicitario e quando l’arte, in quanto tale, ha il potere di trasformare qualsiasi immagine e/o oggetto, grazie alla sua indagine?
FF. C’è una grande mancanza di sensibilità verso l’arte: si vuole riportare tutto a faccende concrete, si vogliono risposte semplici e si vuole sapere un chiaro significato dell’opera, magari con il solo scopo di fare facili polemiche. E mi sembra che a Siena, come in Toscana, luoghi di gente robusta che a volte crede di vivere ancora nel Rinascimento ed avere lo stesso sangue nelle vene di Duccio da Buoninsegna, sia particolarmente difficile. E allora l’istituzione vuole preservare questa specie di favola del “grande passato” dove è tutto in armonia, come una volta e “bello”. Bellezza che poi non produce altro che un’infinita merce di prodotti da vendere che attingono da questa favola. La mia opera d’arte svela un concetto, una visione del mondo che ha rappresentato e rappresenta la città. Svela un’idea che per anni ha rappresentato uno spirito. Forse con questa operazione ci si è accorti, solo ora, visto che si legge in un modo differente, del suo vero significato? Presentandola in un contesto diverso ed elevandola ad opera d’arte, ha spiazzato il senso comune. Non si sa se il Comune o la Soprintendenza siano rimasti sorpresi da questo o abbiano, come buoni padri di famiglia, usato il divieto per tutelare un cittadino che sarebbe rimasto forse sconvolto? Queste autorità pensano che il cittadino di Siena sia così illetterato? O semplicemente grullo?
La mia opera non è una pubblicità, è un’opera d’arte, perché l’artista, nella sua pratica, presenta opere d’arte e siccome sono stato invitato, come artista, a fare un’opera d’arte, quella che presento non può essere altro che un’opera d’arte: lo dichiaro come artista. Chi la scambia per qualcosa d’altro è un soggetto non informato. Nel documento che censura l’opera la si nomina come “elemento inopportuno e incongruo con il contesto”. Ma questo giudizio può essere sostenuto solo da un soggetto, dispotico e reazionario, che non ha ragione d’essere in una democrazia occidentale come la Repubblica Italiana è. Oltre al fatto che l’opera riprende proprio il carattere tipico usato dalla Sapori, in perfetto “stile senese”, il dovere dell’opera d’arte ad essere “congrua col contesto” può essere solo un obbligo di un paese dittatoriale ed illiberale.
SF. Prendendo in prestito parte del titolo del saggio di Carole Talon-Hugon su arte, etica e censura militante, l’arte è sotto controllo?
FF. Sotto controllo, come dice l’autrice, dal politicamente corretto, che traduce l’arte in modo letterale esattamente come fa l’istituzione e la politica. In fondo l’arte propone un gioco sottile, ma non tutti vogliono giocare.
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Assistere il buio è un progetto collettivo di arte pubblica, ma è anche una nuova geografia della città che ci chiama a uno sguardo più intimo, inatteso, diverso. Assistere il buio illumina una Siena diversa, offrendo una nuova esperienza, con una connessione più profonda con il contesto urbano e con l’anima stessa della città.
Assistere il buio ideato e curato da Serena Fineschi è un progetto promosso da Rotary Club Siena e realizzato con il patrocinio e il contributo del Comune di Siena; il supporto di Opera Laboratori e Palazzo delle Papesse; il contributo di Fondazione Monte dei Paschi di Siena nell’ambito dell’avviso Let’s Art!; la collaborazione di Banca Centro Toscana Umbria; Estra Spa; Intesa; Terrecablate; Canestrelli Petroli; Blucar Siena.
L'autrice di questo articolo: Serena Fineschi
Serena Fineschi (Siena, 1973) vive e lavora tra Siena e Bruxelles, con una formazione in grafica e storia dell’arte contemporanea. Il suo lavoro, declinato tra fotografia, ceramica, assemblage e installazioni site-specific, esplora le relazioni umane, la memoria e il corpo come terreno simbolico. È co-fondatrice di progetti nomadi come Grand Hotel e FONDACO, e ha istituito “Caveau” (2016), una “cassaforte” per idee nata nella mura di Siena. Ha esposto in sedi nazionali e internazionali – tra cui CENTRALE for Contemporary Art (Bruxelles), Santa Maria della Scala (Siena), Assab One (Milano), Palazzo Magnani (Reggio Emilia), XV Biennale di Architettura di Venezia, Triennale di Milano, Manifesta 12. La sua pratica artistica fonde sperimentazione materica e omaggi al passato (dal Trecento senese alla pittura fiamminga), indagando la tensione tra sacro e profano.
Foto: Elena Foresto
L'autore di questo articolo: Flavio Favelli
Flavio Favelli (Firenze, 1967) vive e lavora a Savigno (Bologna). Dopo la laurea in Storia Orientale all’Università di Bologna ha cominciato la sua carriera d'artista. Ha partecipato al Link Project (1995-2001) e a residenze prestigiose come quella del TAM diretto da Pomodoro e la Fondazione Ratti. Le sue opere sono state esposte in musei e spazi espositivi nazionali internazionali tra cui MAXXI, MAMbo, Centro Pecci, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Maison Rouge (Parigi) e Projectspace 176 (Londra). Ha realizzato installazioni pubbliche permanenti come la “Sala d’Attesa” alla Certosa di Bologna e “Vestibolo” a Venezia, ed è stato protagonista di due Biennali di Venezia (50ᵃ e 55ᵃ). Ha poi partecipato alla XIII Biennale di Scultura a Carrara e alla XV Quadriennale di Roma. Nel 2015 il suo “Gli Angeli degli Eroi” è stato scelto dal Quirinale per commemorare i caduti del 4 novembre, e ha svolto residenze anche alla American Academy di Roma (2010).